Lettera a Paolo Di Paolo per un lavoro culturale
Caro Paolo,
Oggi, a Firenze, sotto casa mia ho visto un’automobile, una Mercedes non da poveri (io in certe occasioni guardo sempre la marca e l’età della macchina), guidata da un signore circa 50enne, né bello né brutto: un uomo qualunque. L’uomo fermò l’auto sullo stop e poi tranquillo imboccò la strada dove abito, in controsenso. Non è una viuzza piccola e laterale, è una strada dove passano parecchie macchine e anche autobus. Ma nessuno protestò.
Poi ho aperto il computer e ho visto e letto il tuo intervento Il lavoro culturale tra antipatie e logiche del clan. Mi chiederai: cosa c’entri il tizio che con la Mercedes va controsenso in una strada cittadina con il tuo (come chiamarlo?), lamento, rimprovero, appello? C’entra, penso. E cerco di spiegarmi. Tu parli del fatto che i libri, le discussioni, la vita intellettuale (usi una parola grossa) siano assoggettati alla logica dei clan, delle appartenenze, e che un dialogo, una discussione, un dibattito sereni non sono possibili.
Ecco, hai ragione; e torno alla Mercedes. Il signore che la guidava ha potuto fare quel che ha fatto non solo perché non c’era un vigile nei dintorni, ma perché nel suo intimo era ed è convinto (a ragione) che tutto è permesso perché non esistono più quelle che una volta venivano chiamate le regole condivise. Vedi, Paolo, io penso che la regola della mancanza delle regole vale anche per la letteratura e per il dibattito culturale. Vince il più forte, colui o colei che grida di di più, colui o colei che vende o fa vendere di più. E fin qui forse sto dicendo delle banalità.
Ma poi, chiediamoci: la letteratura (oltre a esprimere il genio dell’autore o autrice) come nasce? Mi dirai dai sogni, dall’immaginazione, dalla voglia di raccontare, di una certa dose di narcisismo. Elementare. Ma uno scrittore/scrittrice, si muove in uno spazio semantico che non è infinito, non è del tutto sregolato, ma anzi è piuttosto ben definito da codici che ciascuno di noi conosce bene. Quei codici però sono saltati. Si potrebbe a lungo discutere delle ragioni per cui, oggi in Italia, si stenta a distinguere tra la classifica delle vendite e il giudizio estetico. Colpa dei media?, dei critici?, degli editori? Non saprei. Ma posso azzardare due ipotesi.
La prima, sociologica e politica. Nel 2017 sembra che il progetto nazionale italiano, quello ideato durante il Risorgimento, sia fallito, e se non è fallito, versa in una grave crisi. E basta vedere la classe politica, tutta che (non) ci governa perché incapace di immaginare un futuro condiviso.
La seconda ragione è strettamente letteraria. Tu citi Pasolini e Calvino. Potrei aggiungere Franco Fortini e Elsa Morante. Le stroncature e le polemiche, le liti, gli amori e odi. Ecco, non ti sfuggirà la qualità intrinseca di questi autori. Voglio dire: è gente che poteva litigare fraternamente (si fa per dire) perché consapevole della propria auotorevolezza. Un’autorevolezza che derivava dalla qualità della loro scrittura come scrittori e della qualità dei loro interventi in quanto pubblici intellettuali, dalla onestà infine delle loro posizioni. Vincere lo Strega, godere del favore di un editore o di un giornale faceva comodo, ma non era indispensabile.
E per estremizzare: pensa alla lite furbonda tra Sartre e Camus. E pensa a Sartre che per restare libero rifiuta il Nobel, mentre Camus, più posato in apparenza ma a mio avviso assai più radicale nella scrittura lo accetta.
E torno a noi. Il vero problema della letteratura italiana è che i libri, anche quelli che vincono i grandi premi sono perlopiù modesti. Roba da bravi artigiani, gente capace di mettere insieme le parole e le frasi, ma incapaci di trascendere il testo che scrivono. Per carità, non brutti romanzi, appunto roba decente, ma niente che possa proiettare lo scrittore/scrittrice verso la dimensione di una vera autorità nel campo morale o estetico, per non parlare di politica. (Io in questi ultimi anni di libri italiani molto belli ne avrò letti pochi; di bellissimi due: uno di Simona Vinci un altro di Valeria Parrella)
E allora cosa rimane? Rimane unirsi nei clan. Darsi forza reciprocamente, pensando che là fuori ci sono nemici. Affidarsi totalmente alla buona volontà degli editori. Partecipare ai premi che non sono di qualità, fin dalla loro struttura (un premio di qualità ha bisogno di pochissimi giudici che si vedono, discutono, parlano e non di centinaia e centinaia di lettori che votano senza un criterio estetico condiviso).
Caro Paolo, mettetevi (voi la generazione dei trentenni, quarantenni) a scrivere dei bellissimi libri. Il resto verrà; non da sé ma con più facilità.
Ti abbraccio
Wlodek Goldkorn