Bisogna tornare agli anni Ottanta, quando la piena occupazione suggerisce di ripensare il ruolo dell’università nel mercato del lavoro.
Il problema era la trasformazione del mercato del lavoro, sempre più teso a una polarizzazione tra «MacJobs» e «McJobs» e in cui la divisione della domanda occupazionale induceva a una polarizzazione delle competenze richieste. Per dirla con gli economisti David H. Autor, Lawrence F. Katz e Melissa S. Kearney, «l’evoluzione del lavoro [a partire dagli] anni ’90 è stata segnata da una polarizzazione, con una forte crescita degli impieghi altamente qualificati, un debole aumento di quelli a qualificazione intermedia e un modesto incremento delle occupazioni scarsamente qualificate» (2006). In questo contesto
il problema posto a coloro che governano il settore educativo è che il periodo compreso tra gli anni ’50 e gli anni ’80 ci ha lasciato in eredità sistemi scolastici di massa, attraverso i quali gli allievi frequentano, a seconda del paese, dagli otto ai dieci anni di formazione comune. Storicamente, ciò corrispondeva alla fiducia di un capitalismo prospero in una forte e durevole crescita economica che avrebbe richiesto un aumento continuo dei livelli formativi. Ma oggi siamo immersi nell’epoca delle crisi e della polarizzazione delle qualifiche. In tali condizioni, quale può essere la base formativa comune per i futuri ingegneri da una parte, e dei futuri lavoratori dequalificati, dall’altra? (Hirtt, 2010).
Da allora, il sistema universitario è stato profondamente ripensato assumendo «il mercato come autentico principio di realtà della stessa azione di governo».
L’intento, come evidenziavano una serie di resoconti della OECD (1995a, 1995b) e di organismi sopranazionali quali OCSE, UE, FMI, Banca Mondiale, era la necessità di rendere il settore pubblico più business-like introducendo riforme in grado di avvicinare sempre di più l’istruzione al mercato.
Comincia allora, in particolare nei paesi angloamericani, un processo di riforma dell’istruzione pubblica che coincide spesso con l’introduzione delle riforme previste nel New Public Management, un pacchetto tipico di riforme che include «la riforma della governance, la crescita della contribuzione studentesca (spesso accompagnata dalla riduzione del contributo statale al diritto allo studio), la crescita del ruolo delle istituzioni private nelle politiche di formazione e ricerca, la creazione di competizione per l’accesso ai finanziamenti statali, e output modeling» (Marginson, 2009, p. 4), volto a far sì che tutte le attività del complesso mondo della ricerca e dell’istruzione diventino quasi-market commodities, prodotti che hanno il loro mercato.
In questo contesto, l’idea di misurare l’output, piuttosto che l’input, come ha detto il Presidente dell’ENQA A. Hopbach, indica «un cambiamento significativo all’interno dei sistemi educativi: il focus non sarà più su cosa si insegna, ma su ciò che si apprende» (Padoa Schioppa, 2012).
La misura di ciò che si apprende e di ciò che si produce consente di quantificare la preparazione degli studenti e, attraverso quella, l’efficienza degli insegnanti e delle scuole (si pensi alla No Child Left Behind o alla proposta dei test TeCo). In questo senso la didattica viene suddivisa in obiettivi operazionalizzabili, tassonomizzabili e quantificabili, in modo tale da assicurarsi che l’università possa produrre competenze capaci di soddisfare gli obiettivi degli stakeholders e ridurre il mismatch con il mercato del lavoro.
In modo affine la ricerca viene ripensata in modo tale da investire sulla produzione esclusiva di saperi e capitale umano utili al mercato. Di fatto, tutte le riforme recenti dell’istruzione, dalla scuola all’università, dal Bologna Process alla Race to the Top di Obama, nascono all’interno di questo paradigma.
Riprendendo il lessico della produzione snella, si trattava di ripensare la filiera dell’istruzione da monte a valle, riducendo così gli sprechi legati a investimenti non redditizi, come i casi di overeducation e mismatch, “capitale umano” troppo istruito rispetto alle esigenze del mercato.
I concetti di accountability, competenza, taylorizzazione della didattica o assessment nascono qui, nel tentativo di inserire l’istruzione all’interno di uno schema neoclassico di costi e benefici suggerendone un ruolo centrale nella crescita economica e nella competitività internazionale.
Gary Hall ha parlato della Uberfication of the university (Hall, 2016), a indicare l’allontanamento da prassi collaborative verso un più radicale individualismo che fa leva ampiamente sull’autopromozione e il personal branding.
In questo contesto, la ricerca e la didattica vengono profondamente trasformate. Dal punto di vista della didattica, la misurazione dell’output produce una sorta di grande inversione: ora non sono più gli individui a inventare il mercato sulla base dei loro bisogni, è il mercato a produrre loro.
Nel Processo di Bologna, per esempio, tali obiettivi sono predisposti dai Descrittori di Dublino, che indicano le competenze che devono essere apprese dagli studenti di un determinato ciclo di studi, misurabili in modo standardizzato.
Nell’Università-Uber, gli studenti sono indotti a muoversi come riders sempre più in fretta tra una scadenza e l’altra monitorando continuamente i crediti e i debiti di ogni attività curricolare e extra-curricolare.
In questo contesto, sarà sempre più intensa l’influenza del monitoraggio digitale tanto nella forma di misurazione dell’output prodotto quanto nell’incentivo a usare le nuove tecnologie come strumento di autopromozione.
Negli ultimi mesi, diversi studi si sono soffermati sulle implicazioni affettive dell’accademia digitale, tra questi Deborah Lupton, Inger Mewburn e Pat Thomson (2017), Gary Hall (2016) e Phoebe Moore (2017).
Il dato che emerge è il graduale slittamento del comparto istruzione verso l’economia reputazionale, come se la finalità ultima fosse diventata, in linea con quanto sinora detto, la posizione di ogni unità produttiva nel ranking finale.
In qualunque modo venga misurata la performance, a prescindere dai criteri, dalle condizioni e dalle finalità, uno studente che desideri avere un lavoro eccellente deve avere accesso alle scuole che siedono al vertice delle classifiche internazionali.
Esattamente come suggeriva Kenneth Arrow (1973), l’università non deve aumentare le capacità cognitive ma deve, assai più umilmente, operare come un filtro sociale.
L’università «deve avere due grandi obiettivi», ha riassunto Abravanel con la sua solita chiarezza: «Creare alcune poche università eccellenti a livello nazionale che diventino fabbriche di eccellenza […] e monopolizzare l’accesso ai migliori posti di lavoro e alle più alte opportunità di reddito da parte di chi ha il pezzo di carta» (2008, p. 135).
In questo senso, chi vuole accedere ai posti migliori deve mantenere una performance eccellente nel corso della sua intera carriera universitaria.
Le nuove piattaforme digitali di Silicon Valley si sono inserite precisamente nella distanza tra l’università e il mondo del lavoro per utilizzare i big data al fine di indirizzare gli studenti verso le istituzioni più competitive nel segmento del mercato del lavoro dove più alta è la domanda.
L’uso dei social network, in questo senso, ha iniziato ad assumere un carattere di necessità indotta dal bisogno di rispondere agli obiettivi del mercato. Per avere un futuro nel mercato, bisogna avere un business plan che consente di sfruttare la propria ricerca nel modo più efficiente.
A questo fine lo studente digitale deve non solo mantenere la media più alta ma affidarsi a piattaforme come Summit Public Schools, Schoolzilla, Basecamp che si propongono di ridurre la distanza tra domanda e offerta attraverso il monitoraggio continuo della propria performance. Summit Public Schools a questo fine ha costruito una Personal Learning Platform (PLP) attraverso la quale gli studenti possono controllare la loro capacità di fare «consegne di contenuto» – content delivery, precisamente come i riders – finalizzando la propria formazione alla domanda del mercato.
La rifinalizzazione del sapere al mercato non ha trasformato solo la didattica, ma anche la ricerca. È in questo contesto che l’econometria e la bibliometria si sono sviluppate come veri e propri campi del sapere capaci di misurare l’output individuale.
Il concetto di valutazione inteso come procedura standard di accertamento dell’output di un’attività produttiva, nasce contestualmente alle opportunità di catalogazione e indicizzazione della produzione culturale iniziate da Gross e Gross (1927).
Eugene Garfield a partire dal 1955 segue un’intuizione capace di rendere efficiente il processo di ricerca attraverso la creazione del Science Citation Index – ora Web of Science, database centrale di ISI Web of Knowledge sistematizzato nel 1964 in un’opera cartacea in cinque volumi capace di indicizzare 613 riviste e 1.4 milioni di citazioni (Coin, 2012).
In questo contesto, Garfield elabora software in grado di generare mappe cronologiche di collezioni bibliografiche indicizzate in base a parole chiave, istituzione, autore, rivista, all’interno dell’ISI Web of Science e nel 1966 definisce la storiografia algoritmica come uno strumento che consente tanto «information recovery and information discovery».
Come è noto, a lungo Garfield ha sostenuto la necessità di questo lavoro di indicizzazione per creare network tra studiosi e consentire una rapida diffusione dei risultati di ricerca. Stiamo parlando, in questo senso, di una tecnologia tesa ad aumentare la circolazione libera delle idee, più che a valutarne il valore. Come ricorda il suo articolo Commentary: fifty years of citation indexing, lo stesso Garfield (2006) era critico nei confronti di utilizzi altri di queste tecnologie.
Nonostante l’intento iniziale fosse facilitare la diffusione dei risultati e delle metodologie di ricerca, gli indicatori bibliometrici sono diventati nel tempo dei veri e propri obiettivi in sé, utilizzati per giudicare l’impatto delle riviste scientifiche e degli articoli in esse pubblicati.
Pur tra le critiche, inizia così l’utilizzo degli indicatori bibliometrici per la valutazione dell’output di individui e strutture. Ted Striphas (2015) la chiama «algorithmic culture: the sorting, classifying, hierarchizing, and curating of people, places, objects, and ideas». Nel contempo, le tecnologie digitali si sono letteralmente insinuate in ogni anfratto della vita accademica. È all’interno di questo contesto di valutazione che, scrivono Deborah Lupton, Inger Mewburn e Pat Thomson (2017),
gli accademici sono stati incoraggiati a utilizzare tecnologie digitali come online learning, student feedback e sistemi di citazione automatici come parte del loro contributo al sapere e alla formazione di futuri lavoratori della conoscenza. La maggior parte delle riviste accademiche sono state digitalizzate, consentendo alle citazioni del lavoro intellettuale ad essere automaticamente quantificate e misurate attraverso strumenti come Google Scholar, Web of Science and Scopus. Molte riviste hanno introdotto strumenti di monitoraggio digitale capaci di quantificare i numeri di lettura e di downloads, le discussioni nei social media che pubblicano e alle volte i punteggi ‘altmetric’ (alternative metrics) degli articoli individuali per capire quanta attenzione abbiano ricevuto nei social media. Gli accademici sono anche incoraggiati dagli editori a usare strumenti come la pubblicazione open access, oltre a blog e social media per promuovere la propria ricerca e facilitare l’accesso e l’interazione con la creazione di sapere e la disseminazione (p. 3).
Insomma, la rivoluzione digitale è stata usata per classificare l’output di ogni unità produttiva nel tentativo di quantificarne l’impatto e offrire agli stakeholders una lista di destinatari di potenziali investimenti capace di garantire un return on investment.
Seconda parte di tre (qui la prima) di un articolo originariamente pubblicato nella Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione, nel numero speciale “La ‘Grande Trasformazione’ dell’Università” (1/2018) a cura di Davide Borrelli e Marualuisa Stazio accessibile a questo link: http://www.rtsa.eu
Immagine di copertina: ph. Faustin Tuyambaze da Unsplash