Come Taranto può andare oltre l’acciaio e l’ILVA

I nuovi centri culturali sono spazi di confronto, di scontro e di trasformazione. Il lavoro che svolgono è inestimabile ma è necessario fare di più per sostenerli. Farlo significa superare gli ostacoli economici e pratici che li hanno limitati fino ad ora: dobbiamo condividere strumenti, conoscenze ed esperienze. Abbiamo bisogno di una presa di coscienza collettiva. Vogliamo unire le forze con tutti i nuovi centri culturali d’Italia. Compila il nostro questionario e raccontaci chi sei.


Taranto è una città a strati. Come diceva Alessandro Leogrande, l’essere stata un’antica capitale della Magna Grecia e porto del Mar Mediterraneo, crocevia di popoli e di culture, è solo uno di questi strati, sempre più difficile da afferrare. Oggi, piuttosto, è una città dell’acciaio in crisi, novecentesca fuori tempo massimo. Scudo penale o meno, il colosso franco-indiano della siderurgia, ArcelorMittal, non sembra più essere interessato all’ex-ILVA. Le cattive condizioni del mercato dell’acciaio e la particolare situazione dello stabilimento di Taranto spingono l’azienda a proporre un significativo ridimensionamento della forza lavoro e il ricorso massiccio alla Cassa integrazione guadagni straordinaria. Sono a rischio immediato circa cinque mila posti di lavoro, mentre circa due mila persone sono già in cassa integrazione ordinaria, in un territorio la cui vulnerabilità sociale è già ben al di sopra della media italiana.

Non troppo paradossalmente, questa volta, l’interesse del magnate dell’acciaio coincide con quello dei tanti cittadini che lottano da tempo per la chiusura della fabbrica. Nei loro volti, è segnata la stanchezza di respirare veleni, la paura di una leucemia per i propri figli, l’esasperazione di promesse mai mantenute. Persino gli operai hanno allentato la presa nel braccio di ferro tra salute e lavoro.

Sul ponte girevole, che unisce la vecchia città spartana-aragonese con quella nuova, si legge: “cittadini e operai, uniti per la riconversione”. Parliamo di una convergenza verso un interesse comune che, a Taranto, è tutt’altro che scontata. Il suo tessuto sociale, che nell’ultimo decennio in particolare ha mostrato una certa vivacità, si presenta estremamente frammentato nella promozione di tante convenienze specifiche, del tutto legittime e spesso meritorie, ma indubbiamente capaci di disarticolare il panorama pubblico.

La classe politica dal canto suo appare incapace di cogliere la sfida davanti alla quale si trova. Nei casi più virtuosi, i dialoghi tra le parti si riducono ad obiettivi strumentali di breve termine, come i finanziamenti nazionali ed europei rivolti alla città, con processi di rigenerazione urbana che rimangono embrionali e fini a sé stessi, animati da attori solitamente fedeli alla cosiddetta “logica dello zero a zero”.

Non sorprende allora come sia difficile trovare o costruire soluzione partecipate e condivise per una Taranto oltre l’acciaio: nella settimana in cui si scrive, a distanza di due soli giorni, sono previste due conferenze sul futuro della città con temi diversi e attori che talvolta si sovrappongono. Tanti cittadini, comunque, non sembrano interessati a partecipare e, in molti casi, non ne sono neppure a conoscenza.

Questo è senza dubbio uno spreco di opportunità, non solo perché nell’attuale complessità società civile e politica sono in grado di risolvere da soli problematiche dinamiche e differenziate. La partecipazione dei cittadini ai processi decisionali riguardanti il luogo in cui vivono permetterebbe di abbattere le principali barriere comunicative con le istituzioni, propiziando una maggiore e più qualificata circolazione di conoscenze ed informazioni utili per la decisione politica.

Inoltre, prendendo parte ad un dibattito pubblico e confrontandosi con interessi divergenti, i cittadini rafforzerebbero le proprie competenze civiche, diventando più in grado di districarsi tra retoriche e promesse: è noto come la politica urbana venga spesso utilizzata in maniera retorica: poco inclini a rivelare ai loro elettori il “vergognoso segreto”, i governanti devono riuscire, in un modo o in un altro, a far sì che dai processi democratici nazionali [e locali] escano delle politiche conformi alla volontà generale dei mercati internazionali.

Da tempo, ormai, la prospettiva critica sugli studi urbani sostiene come le città siano diventate soggetti capaci di creare gli spazi più adatti per fare affari attraendo investimenti ed imprese per perseguire la “crescita a tutti i costi”, città “imprenditori” come dice bene David Harvey in un famosissimo scritto del 1989. Non più contenitori di industrie inquinanti o problemi socioeconomici ma growth machines, macchine per la crescita inserite in una mappa geografica di interessi da tutelare e da ampliare secondo coalizioni strategiche, dove parteciparvi non è certamente automatico.

Il relativo processo di governance risulta spesso sbilanciato a favore degli interessi organizzati che riescono a parteciparvi e a farvi pressione, per cui solo determinati interessi vengono rappresentati. Se le reti o le partnership comportano la collaborazione di attori con diverse risorse, aree di expertise o culture, non tutti i gruppi di interessi sono ugualmente capaci di organizzarsi per parteciparvi attivamente. Questa apertura, o chiusura, delle reti e delle partnership rappresenta una problematica cruciale, anche perchè la maggiore o minore inclusione dipende dalle circostanze.

Per questo motivo, alcuni affermano come gli stessi cittadini non abbiano le giuste risorse partecipare alla politica urbana; altri ritengono che la partecipazione debba solo indirizzarsi alla cosiddetta “cittadinanza attiva”, ossia ai cittadini consapevoli e organizzati che si impegnano per il bene comune.

Tornando a Taranto, il rischio è quello di fare leva sulla valorizzazione del suo patrimonio storico e culturale, anche facendo ricorso a concetti ‘nobili’ quali la sostenibilità e la giustizia sociale, senza tuttavia promuovere quella ripresa economica e quell’inclusione sociale a vantaggio di quanti si trovano ai margini. È il caso di alcune esperienze di rigenerazione, dal basso e dall’alto, formali ed informali, locali ed internazionali, che interessano il centro storico e che, pur presenti, guardano poco ai bisogni dei suoi abitanti. Disoccupazione, droga, prostituzione o dispersione scolastica rappresentano solo alcune delle problematiche ancora presenti, e particolarmente evidenti.

Le fasce della popolazione più vulnerabili rischiano anche di essere escluse dalle buone pratiche di reinassance urbana invocate da ambientalisti, attivisti e operatori di comunità tarantini, senza una doverosa analisi di approfondimento o di confronto tra città e risorse lì disponibili. In tanti, ad esempio, invocano una rinascita ‘alla Pittsburgh’ senza notare come, dall’altra parte dell’oceano, la stessa città modello sia definita da molti una fairy tale del capitalismo e non una best-practice; come i primi processi di rigenerazione urbana abbiano incarnato perfettamente l’espressione negro removal dello scrittore James Baldwin; come oggi non venga più annoverata solo tra le città più vivibili degli Stati Uniti ma anche tra quelle più ‘gentrificate’. Anche questa è retorica.

L’opportunità, per Taranto, potrebbe invece essere quella di trasformare complessità in apprendimenti, cogliendo tutti i vantaggi da late movers per indicare alla politica urbana partecipata una strada diversa e più inclusiva. Del resto, non possiamo che essere ancora d’accordo con David Harvey, quando afferma che avremo una politica urbana degna di questo nome solo quando si comprenderà che [tutti] coloro che costruiscono e sostengono la vita urbana hanno un diritto immediato a quanto producono, e che tra le loro rivendicazioni c’è soprattutto quella al diritto inalienabile di creare una città a misura delle loro esigenze.