Start-Up in Italia: limiti e potenzialità

È da almeno un decennio che in Italia si è iniziato a discutere di «Start-Up»: investire in esse sembra offrire una irrinunciabile opportunità di favorire crescita economica, generare posti di lavoro, soprattutto per quella generazione di giovani laureati che in Italia subiscono un tasso di disoccupazione fra i più elevati in Europa.

Dal 2012 anche il Ministero per lo Sviluppo Economico, sotto la guida di Corrado Passera, avvia una stagione di normative ed investimenti per favorire la costituzione di un ecosistema maturo di Start-Up in Italia, inaugurandola con un Rapporto, «Restart Italia!» (2012) che come sottotitolo riporta eloquentemente «Perché dobbiamo ripartire dai giovani, dall’innovazione, dall’impresa».

Lo scopo dichiarato degli interventi, proseguiti dal Ministero negli anni successivi, è rafforzare la molto fragile economia della conoscenza nazionale che, in assenza di un sistema di ricerca ed innovazione funzionante, in Italia stenta ad emergere e parrebbe frenare quel naturale spirito di auto-imprenditorialità e di auto-realizzazione con cui vengono contraddistinte le nuove generazioni di nativi digitali. Allo stesso trend si è assistito nella maggioranza dei paesi europei, dove politiche di sostegno all’autoimprenditorialità giovanile innovativa sono state implementate come principale risposta alla disoccupazione giovanile resa acuta dalla crisi economica del 2008 (Eurofound 2016, 13).

Una domanda sorge, banale quanto spontanea, di fronte a questo scenario: Sono davvero le Start-Up una formula efficace per favorire crescita economica, innovazione, occupazione giovanile?

La rapida diffusione di queste politiche necessiterebbe effettivamente un’attenta verifica dei risultati, che però sinora è apparsa assente, anche per difficoltà strutturali nella valutazione di una Start-Up, la quale per definizione è un’impresa in avvio la cui solidità è difficile da vagliare.

Abbiamo provato ad affrontare questo gap valutativo tramite una ricerca, condotta all’Università di Milano, in cui il focus di analisi è stato l’intera popolazione di imprese registrate come Start-Up presso le Camere di Commercio (802 in totale) che stanno raggiungendo il termine dei 4 anni di attività, che è il limite oltre il quale secondo la normativa italiana una Start-Up cessa di essere tale (Decreto Crescita 2.0 2012, art. 25).

Per valutarne la competitività, abbiamo comparato la loro performance con quella di un campione più largo di PMI non innovative con meno di 45 dipendenti ed afferenti alle classi di attività più frequenti nella popolazione di Start-Up.

Dai risultati della nostra ricerca balzano all’occhio principalmente due elementi di riflessione:

– La performance generale delle Start-Up, nell’anno della loro maturità, rimane notevolmente peggiore di quella delle PMI. Le Start-Up del nostro campione mostrano dimensioni di scala molto esigue, e performance economiche non competitive.

Per dimensione di scala, al quarto anno il 73,7% di esse ha fra i 0 ed i 4 dipendenti, ed il 91% ne ha meno di 10, con una media complessiva di 2.38 dipendenti per Start-Up (0.98 il 1o anno). Considerando la classe di capitale, al quarto anno essa rimane fra i 5 ed i 10’000 € per il 40.54% delle Start-Up, e fra i 10’000 e i 50’000 € per un altro 40.28%.

Inoltre, le Start-Up al raggiungimento della loro supposta maturità non sembrano mostrare una competitività reale con il mercato delle PMI non innovative: la media dei ricavi si attesta sui 216.55 mila €, molto lontano dai 645.57 mila € di media delle PMI, e solo poco più del 5% delle Start-Up superano per ricavi la media delle PMI. Considerando l’EBITDA (gli utili prima di sottrarre interessi, tasse, deprezzamento e ammortamenti), a fronte di una media nel campione delle PMI positiva ed in crescita nel corso degli anni di riferimento (da 83.54 mila € nel 2011 a 121.35 mila € nel 2014) la media totale per le Start-Up è negativa e progressivamente in peggioramento (da -6 mila € nel 2011 a -22.31 mila €) e meno del 5% delle Start-Up ha un EBITDA superiore alla media del campione di PMI.

– Non esiste alcun ecosistema nazionale di Startup, solo eccezioni locali. E il criterio di successo non indica la concentrazione di Startup attive sul territorio.

Il 16.38% delle Startup ha sede nella provincia di Milano, e le Startup ivi locate nel 2014 hanno una media di 3.3 dipendenti, un risultato notevolmente superiore alla media dei dipendenti sul restante territorio nazionale, ferma a 2.20. Anche con riguardo ai ricavi netti, la media per la provincia di Milano è sensibilmente migliore, di 305800 € contro i 198000 € nel resto d’Italia nell’ultimo anno.

Milano sembra un ambiente promettente per la nascita di un potenziale ecosistema locale di Startup, ma le altre due provincie che svettano sulle altre per numero di Startup, Torino (7.38%) e Roma (6%) presentano prestazioni molto più scadenti: le Startup si sono moltiplicate, molto più che altrove, ma non sembrano riuscire minimamente a sbocciare o a rappresentare un modello. Fra le altre provincie, solo Bologna sembra essere in potenza un ecosistema locale promettente, ma con una popolazione limitata (il 3.25% del panorama italiano).

Non è, fra l’altro, solo la nostra ricerca a mostrare simili risultati. Un’altra, fatta da Dallocchio per il Claudio Dematté Research della Bocconi (2015), usando invece un campione di Startup di più recente formazione mostra all’incirca la stessa tendenza generale a ricavi in aumento ma modesti a fronte di indici di redditività costantemente negativi. D’altra parte, questi risultati non dovrebbero né spaventare né sorprendere.

Le Startup vivono tramite un approccio spray and pray, in cui si può solo sperare che fra le ondate di Startup che falliscono inesorabilmente, prima o poi emerga un unicorno italiano capace di ripagare finalmente di tutti i soldi e gli sforzi.

Una prospettiva rischiosa ma praticabile per lungo tempo se si è un Venture Capitalist, che spera che proprio la Startup su cui si è spacchettata una frazione del proprio capitale di rischio si riveli essere il cavallo da corsa giusto per tagliare il traguardo, molto meno se si è uno startupper che ad ogni tentativo deve fare i conti con i costi e radunare nuovi capitali per una nuova avventura. Da qui anche il paradossale ma fortunato immaginario positivo del fallimento, alimentato da slogan o semi-citazioni celebri («Fail fast, fail often», «Try again. Fail again. Fail better», etc.) che cercano di inculcare l’idea bislacca per cui ogni fallimento aumenterebbe le chance di successo futuro, piuttosto che suggerire di provare un altro mestiere.

Il problema è che anche accettando questa filosofia le exit, cioè il sogno di ogni Startup di farsi acquisire da una grande società e in questo modo ripagare investitori e incubatori (che spesso detengono quote della società), sono davvero pochissime.

Prendiamo l’esempio di H-Farm, il gioiello degli Startup Incubator in Italia: di tutte le promettenti Startup finanziate, negli ultimi quattro anni, quelle che hanno raggiunto una exit sono state secondo Crunchbase (la fonte principale di dati in questo campo) due.

Questa situazione si deve ad un forte squilibrio all’interno del sistema Startup italiano. Mentre è relativamente facile trovare un posto in un incubatore, e persino un seed capital per partire, è invece molto difficile trovare dei Venture Capitalists che dispongano dei fondi necessari per ‘scalare’ verso il successo (quello che in gergo inglese viene chiamato lo scaling-up).

Se qualche Startup italiana ce la fa, nella maggior parte dei casi è perché hanno invece trovato i capitali necessari all’estero.

Così come le eccellenti università e licei italiani producono forza lavoro qualificata da esportazione, così la moltitudine di incubatori, acceleratori, start up ed accademie, spesso utilizzati come una sorta di politica occupazionale per giovani laureati, finiscono per produrre, quando effettivamente producono qualcosa, idee imprenditoriali da esportazione.

Ma c’è un altro problema più serio, più profondo, più strutturale.

Il cosiddetto sistema Startup, così come si è evoluto nella Silicon Valley degli anni Settanta ed Ottanta per poi essere esportato in giro per il mondo sulla scia dei processi di globalizzazione, non mira a produrre una moltitudine di piccole società competitive e sostenibili sul mercato. Mira piuttosto a produrre unicorni, Startup rare come le loro controparti mitologiche perché in grado di monopolizzare rapidamente un settore di mercato ancora vergine (come l’affitto a breve termine, il food delivery etc.), solitamente dopo averlo appena inventato, per poi estrarne una rendita monopolistica tassando ogni transazione.

Non genera occupazione sostenibile, semmai genera occupazione tossica nella Gig Economy, teatro di lavori malpagati, precari, che presuppongono un capitale di base proprio (i corrieri di Deliveroo, per esempio, devono usare la propria bicicletta e la propria sim card).

È un’economia che mira principalmente alla generazione di ritorni finanziari, da estrarre in round finanziari, IPO, exit basate sull’immaginario che si riesce a suscitare, stabilendo nei fatti nuovi orizzonti di rendita neo-feudale.

Invece di attendere con trepidazione il prossimo unicorno italiano (un’App per la pizza delivery con pizzaboy innovativi? Un social network che renda possibile adottare una madre dal Sud Italia e ricevere regolarmente pacchi con conserve e limoncello fatto in casa?) forse sarebbe piu lungimirante esplorare ed investire in nuove forme di micro-imprenditorialita sostenibile: imprese che invece della costruzione di hype e narrazione siano dirette alla creazione di un prodotto o un servizio che possieda effettivamente un valore di uso e che, in questo modo, possa guadagnarsi un’effettiva sostenibilità d’impresa, dove innovazione non sia un sound bite utile a raccogliere capitale di rischio e capitalizzare se fortunati speculazione finanziaria, ma un processo effettivo per migliorare la qualità del lavoro e della vita.

Gli ultimi dati provenienti da uno studio sulla performance delle piccole imprese, nate da meno di cinque anni e (parzialmente) finanziate da politiche del Comune di Milano, sembrano perorare questa ipotesi: a generare fatturato e sopratutto utili, piccoli ma sostenibili, non sembrano essere tanto le start-up innovative quanto i piccoli esercizi commerciali ed imprese, fra cui anche i crescenti vari hipster business (hamburgherie, food truck, kebabberie gourmet!), che vengono finanziati usufruendo del medesimo immaginario delle start-up, ma nella pratica vendono beni materiali con un valore d’uso immediato. Invece di sognare il prossimo unicorno italiano, forse bisognerebbe ripensare le politiche di sviluppo alla luce di questi dati che impongono una visione più modesta ma, allo stesso tempo, più realistica.

 

Immagine di copertina: ph. Per Lööv da Unsplash