Il Terzo intervento (qui il primo, qui il secondo) di una serie – Le parole del biologico – pensata e realizzata insieme alla collaborazione e al contributo di Alce Nero.
Gli incendi in Siberia, i ghiacci dell’Artico che si sciolgono, le temperature sempre più elevate e gli eventi atmosferici devastanti. Mentre la crisi climatica ci pone di fronte alle conseguenze di ciò che per troppo tempo abbiamo preferito ignorare, un movimento che guarda alla Terra e alla natura con occhi diversi si sta diffondendo. Sta finalmente prendendo davvero piede una visione del mondo, diciamo così, biologica? “Io credo che stia aumentando la consapevolezza dell’importanza dell’ambiente e di quello che comporta averne rispetto.
C’è che chi continua a non voler vedere i cambiamenti in atto, nonostante le conseguenze siano davanti agli occhi di tutti
Poi, ovviamente, c’è che chi continua a non voler vedere tutti i cambiamenti in atto, nonostante le conseguenze siano davanti agli occhi di tutti”, spiega Eleonora Grilli, tecnico agronomo de La Cesenate. “Noi che lavoriamo in agricoltura li vediamo chiaramente: ogni volta che piove c’è il timore di una pioggia distruttiva. Sempre più frequentemente infatti si verificano piogge di forte intensità, spesso accompagnate da grandine. La pioggia un tempo era desiderata, considerata vitale, ora può fare paura”.
Da quanto sono diventati così evidenti questi cambiamenti?
Ogni annata è a sé. Negli ultimi anni abbiamo avuto inverni caldi e primavere estremamente siccitose oppure molto fredde e piovose, come quella del 2019. Le condizioni ambientali influenzano fortemente la fisiologia delle piante, per cui possono verificarsi fioriture precoci, oppure ritardate rispetto al tempo in cui sono attese, e possono essere compromesse da basse temperature e gelate tardive. Sempre più spesso si registrano quindi piogge eccessivamente forti, lunghi periodi di siccità, ritorni di freddo. E inverni troppo caldi, con tutte le conseguenze sull’equilibrio dell’ecosistema.
A compromettere questo equilibrio ci hanno pensato anche le coltivazioni industriali, causando un eccessivo consumo di suolo e dimenticando quei principi base che, oggi, si cerca di recuperare attraverso il biologico.
È un metodo di coltivazione che considera l’intero ecosistema agricolo e ha come prerogativa il rispetto dell’ambiente e del territorio, ma anche dell’acqua e dell’aria. Punta a preservare la biodiversità e la fertilità naturale del terreno, limitando al massimo l’impatto ambientale dell’attività agricola e anzi migliorando le condizioni dell’ambiente in cui si opera. Per migliorare la fertilità dei terreni si apporta sostanza organica, utilizzando solo concimi naturali, laddove invece l’agricoltura convenzionale utilizza sostanze chimiche, estranee all’ambiente naturale. E che per assurdo possono rendere il terreno sempre più povero, inquinando anche l’acqua.
Come si riconosce una coltivazione o un allevamento biologico? Non basta vedere un pascolo all’aperto, in montagna, per poterlo considerare tale.
No, non basta. A volte si usa il termine biologico come se fosse sinonimo di naturale, ma non è così. È un metodo di coltivazione o di produzione certificato, che ha un suo regolamento europeo, i cui agricoltori vengono sottoposti a regolari controlli e analisi. E che deve essere tenuto rigidamente separato da quelli convenzionali nel caso in cui i due coesistano.
Succede spesso che agricoltura convenzionale e biologica siano fianco a fianco?
La legge dice che se produci in biologico una coltura, non puoi produrla anche con i metodi convenzionali. Se un agricoltore fa pomodori biologici, potrà magari avere una vigna convenzionale. Ma in realtà non capita spesso, perché il produttore biologico è uno che crede in quello che fa, per cui tendenzialmente avrà tutta l’azienda biologica. E questo anche per una semplificazione dell’organizzazione logistica. In certe situazioni, però, avere colture biologiche è molto difficile, anche perché ci sono malattie che non si possono combattere senza usare sostanze chimiche.
Nel biologico c’è tutto un aspetto relativo alla rotazione e al riposo che, nell’industria agroalimentare, è stato per lungo tempo dimenticato e oggi sta venendo riscoperto: perché è importante?
Con l’avvento di un’agricoltura più industriale, e con la scoperta e messa a punto dei concimi chimici negli anni 50 e 60, si è gradualmente abbandonata la coltura tradizionale e si è puntato a massimizzare le rese e quindi il profitto, sfruttando concimi che nel lungo periodo portano però a un impoverimento del terreno.
L’agricoltura biologica prevede una rotazione dei terreni: non si semina sempre la stessa coltura di anno in anno, ma se ne piantano invece di diverse, che possano apportare al terreno caratteristiche migliorative dal punto di vista sia della fertilità, sia della sua struttura. Per esempio, se un primo anno si coltiva il pomodoro, il biologico prevede che nei tre anni successivi si succedano colture diverse, tra cui una leguminosa, che contribuiscono alla fertilità del terreno e che portino naturalmente azoto. Questo serve anche a non accumulare quei parassiti e quei patogeni tipici di una certa coltura.
Ma sarebbe possibile convertire tutte le colture a queste pratiche sostenibili?
Produrre biologico è strettamente legato alle caratteristiche differenti di ogni territorio. Se una valle è umida e poco ariosa, è molto difficile avere colture biologiche, perché in un ambiente di questo tipo ci sarà un proliferare di malattie fungine che saranno difficilmente debellabili con metodi preventivi. Noi tendiamo a proteggere le colture, ma quando avviene un’infezione favorita da particolari condizioni ambientali hai ben poche possibilità di curare quella pianta. Per una produzione biologica è necessario partire da un ambiente adatto e puntare su varietà resistenti a parassiti e ai patogeni. Per questo è importante coltivare varietà particolarmente rustiche, che si difendono da sole. È il caso delle varietà antiche, che non hanno bisogno di essere assistite perché hanno naturalmente messo a punto sistemi di difesa a condizioni climatiche avverse, a parassiti e patogeni.
Con la riscoperta delle varietà antiche si è anche valorizzato un patrimonio del territorio italiano che rischiava di andare perduto…
Sono varietà legate a specifici territori, che si sono sviluppate nel corso dei decenni e hanno messo a punto tutta una serie di adattamenti a un territorio tipico. Riscoprirle è stato un processo positivo: sono una ricchezza che mostra come l’Italia sia naturalmente molto diversificata di zona in zona.
L’obiettivo è avere prodotti belli sugli scaffali e quindi appetibili per il consumatore. Ma questoavviene a scapito del sapore
Ogni area ha i suoi prodotti tipici. E poi sono state riscoperte anche per le loro caratteristiche in termini di sapore. In un’agricoltura di tipo industriale, l’obiettivo è avere prodotti che siano belli sugli scaffali e quindi appetibili per il consumatore. Ma questo spesso avviene a scapito del sapore, visto che – per esempio nel caso della frutta – il raccolto avviene prima della completa maturazione penalizzandone la bontà. La priorità è stata data all’alta produttività e all’aspetto estetico, facendo per assurdo passare in secondo piano il sapore; al punto che vengono scartati frutti solo perché presentano delle minime imperfezioni.
Non c’è il rischio che il biologico diventi il cibo di qualità solo di chi se lo può permettere?
Se parliamo del prezzo dei prodotti, bisognerebbe probabilmente educare i consumatori alla consapevolezza. Non ha senso contare i 20 o 50 centesimi spesi in più per mangiare in maniera sana quando magari spendiamo centinaia e centinaia di euro per dispositivi tecnologici che buttiamo nel giro di un paio d’anni. Quello che mangiamo entra nel nostro corpo e contribuisce alla salute. È anche un discorso relativo alla volontà di riconoscere il valore di certi prodotti, anche in termini ambientali. Non paghi soltanto quello che compri, ma dai un valore a come è stato prodotto e a tutto quello che si è fatto per preservare l’ambiente in cui viene coltivato.
Forse dovremmo consumare meno per consumare meglio? È un tema che, immagino, riguarda anche la produzione negli allevamenti intensivi e, quindi, in definitiva, la crisi climatica.
Sì, c’è anche tutto un discorso di inquinamento delle acque. Le sostanze chimiche che vengono irrorate sulle colture convenzionali possono essere erose dalle piogge e dall’acqua di irrigazione ed inquinare le acque superficiali e sotterranee. Dall’ultimo rapporto ISPRA 2018 si è visto che più della metà delle acque superficiali (fiumi, laghi, corsi d’acqua) sono contaminate da insetticidi e fungicidi, così come un terzo delle acque di falda.
Noi umani siamo parte integrante del ciclo della vita biologico. Eppure tutti i concetti che ne sono alla base – per esempio riposo ed equilibrio – sembrano esserci sempre più estranei. Come potremmo definire un modo di vivere biologico?
Inevitabilmente è un modo di vivere legato alla natura. È una necessità che io, personalmente, avverto: regolarmente ho bisogno di allontanarmi dai luoghi affollati e di ritirarmi nella natura; di fare una passeggiata, di mettermi a coltivare il mio pezzo di terra. Anche questo è riposo, per quanto un riposo attivo. Anche in natura è così, quando lasci il terreno a riposo non è che al suo interno sia tutto fermo.
È in atto una trasformazione: ci sono una quantità pazzesca di processi biochimici che avvengono al suo interno; organismi che lavorano e trasformano la sostanza organica. Ho l’impressione che molte persone, soprattutto negli ultimi anni, sentano il bisogno di ritornare alla natura, di riprendere un po’ il contatto con quello che è lo scorrere del tempo, delle stagioni. È una consapevolezza che sta crescendo, soprattutto nei giovani che si rendono conto dell’importanza di recuperare ciò che abbiamo abbandonato: un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente, la produzione delle proprie cose. È difficile parlarne, è una sensazione che va sperimentata e vissuta.
“Io credo che stia aumentando la consapevolezza dell’importanza dell’ambiente e di quello che comporta averne rispetto. Poi, ovviamente, c’è che chi continua a non voler vedere tutti i cambiamenti in atto, nonostante le conseguenze siano davanti agli occhi di tutti”, spiega Eleonora Grilli, tecnico agronomo de La Cesenate. “Noi che lavoriamo in agricoltura li vediamo chiaramente: ogni volta che piove c’è il timore di una pioggia distruttiva. Sempre più frequentemente infatti si verificano piogge di forte intensità, spesso accompagnate da grandine. La pioggia un tempo era desiderata, considerata vitale, ora può fare paura”.