“C’è una pericolosa tristezza nei primi rumori delle attività mattutine altrui, sembra che il silenzio soffra, quando qualcuno lo rompe”. (Jonathan Franzen, Libertà, Einaudi 2001)
No, Jonathan Franzen non vive a Roma e non parla del frastuono del traffico, irrimediabilmente frenetico, di una città che fa del rumore la cifra del proprio ego. Svegliarsi al mattino con il suono dei clacson suonati con insistenza da automobilisti impazienti dà da pensare, anche dopo anni di convivenza tormentata con una città comunque bellissima. Ogni mattina la stessa domanda: come è possibile che le persone siano sempre così ansiose e preoccupate di far tardi?
Certo Roma non è un posto tranquillo né silenzioso, chi vive qui sa bene i rumori della città: da quello del traffico, ininterrotto, al silenzio assordante e inascoltato del degrado che, tra frigoriferi abbandonati in periferia e new jersey in centro città, ti costruiscono attorno una scorza robusta e compatta che a Roma domina i rapporti tra le persone.
“Si può andare in qualunque città e ognuno resta quello che è, a Roma invece, dopo tre giorni, si diventa tutti romani!”, faceva dire Dino Risi a uno dei sui splendidi personaggi. Se vivi a Roma tutto ciò entra a far parte di te e non può essere la città la causa dei terribili malesseri cui danno voce i clacson delle auto in fila per andare al lavoro. Peraltro il rumore, più o meno gratuito, accomuna città grandi e piccole un po’ ovunque.
Lo ammetto, non mi sveglio presto, preferisco arrivare in ufficio a metà mattinata e restare al lavoro fino a tarda sera. Ma se per qualche motivo ho un impegno la mattina presto nella mia città mi sento un’aliena. Esco per tempo, guido lo scooter con calma, lascio passare i pedoni sulle strisce, do la precedenza a chi sembra avere più fretta di me. Ma osservo i volti grigi degli altri automobilisti, i lineamenti tesi, come se la loro vita dipendesse da pochi minuti guadagnati: madri che accompagnano i figli a scuola, perennemente in ritardo, uomini ben vestiti che si fanno largo con prepotenza agli incroci, altri che fermi al semaforo controllano ansiosi l’orologio.
Ciò che accomuna tutti è il tempo, o meglio una lotta inarrestabile contro il tempo. Una vocina accompagna in sottofondo il mio osservare…“Presto che è tardi presto che è tardi” e il Bianconiglio è ovunque. Che fare? Chiedere ad Alice? …
Forse non è il caso di ricorrere ad esperienze lisergiche. Ma agire sui tempi delle città, conciliare gli orari di lavoro con gli orari delle scuole e dei negozi, recuperare una dimensione del tempo in grado di far tacere rumori e malesseri dispiegati ogni mattina, forse è possibile.
Un’ indagine statistica realizzata dall’Eurofound nel 2013 rivela come in Italia circa il 34% dei datori di lavoro dichiara che nessuno dei dipendenti può adattare il proprio orario di lavoro alle proprie esigenze personali variando l’orario di ingresso e di uscita dal lavoro e poco meno della metà degli stessi datori di lavoro dichiara che i propri dipendenti non hanno la possibilità di accumulare ore di lavoro per prendere giorni di permesso. Lo scenario italiano non sembra molto in linea con le altre economie europee più sviluppate. La rigidità dell’orario di lavoro accomuna il nostro paese ai soli paesi mediterranei e i margini di flessibilità restano lontani dalle principali economie comunitarie, dove l’incontro tra le richieste dei lavoratori e le esigenze delle imprese è un tema ampiamente trattato dalla regolamentazione del mercato del lavoro e dove l’attenzione si concentra tanto sull’aumento delle performance del sistema produttivo quanto sui bisogni dei lavoratori.
Anche considerando le specificità settoriali dell’Italia qualcosa sembra non tornare: la nostra è la seconda economia a prevalenza manifatturiera dell’Unione Europea e il comparto manifatturiero non consente molti margini di flessibilità oraria. Ma in Germania, che vanta il primato della manifattura in Europa, e in Francia, terza economia manifatturiera dell’Unione, lo scenario è ben diverso. La quota di imprese che non concedono flessibilità oraria ai propri dipendenti è in linea con quanto osservato in Italia (34.6% in Germania e 31.5% in Francia), dato che non stupisce considerata la spiccata vocazione manifatturiera. Tuttavia la possibilità di un utilizzo discrezionale da parte del lavoratore delle ore di lavoro in eccedenza è, in Francia e Germania, decisamente superiore a quella registrata in Italia (in Germania l’8.6% dei datori di lavoro dichiara che i propri dipendenti non hanno la possibilità di accumulare ore di lavoro per prendere giorni di permesso, in Francia il valore si attesta al 25.5% contro il 48.0% per Italia).
Le differenze con l’Italia sono verosimilmente imputabili alla presenza nel nostro Paese di modelli organizzativi obsoleti, imbrigliati nell’adozione di approcci riconducibili al modello fordista, in un contesto poco propenso all’innovazione organizzativa e all’impiego di nuove tecnologie, restio nello sviluppo del capitale umano quale fattore di produzione e non pienamente in grado di promuovere un’evoluzione della struttura organizzativa delle imprese. Il superamento del modello fordista, anche nelle economie a forte vocazione manifatturiera, ha dimostrato di essere in grado di aumentare l’efficienza produttiva, i livelli di competitività e i margini di profitto delle imprese.
Il sistema produttivo italiano è impegnato da almeno un decennio nel recupero dei livelli di competitività dei primi anni duemila, perseguendo la strada dell’aumento delle ore lavorate e della saturazione dei tempi, a discapito degli investimenti nel cambiamento organizzativo e nella qualità delle risorse, deprimendo la qualità del lavoro. Il modello di flessibilità oraria prevalente in Italia, fondato principalmente su orari rigidi imposti dal datore di lavoro e su un uso eccessivo del lavoro straordinario, non sembra adeguato a perseguire né gli obiettivi di produttività e di crescita, né l’aumento della qualità del lavoro.
Da più parti si sostiene che la flessibilità oraria – che comprende con un’accezione ampia la personalizzazione degli orari di lavoro in base alle esigenze dei lavoratori e della produzione, gli orari ridotti per esigenze di conciliazione, la turnistica innovativa, il tele-lavoro, il lavoro da casa, la creazione della banca ore – non è sinonimo di ridotte perfomance lavorative, al contrario, è vista come un incentivo a una maggiore produttività.
Ripensare le organizzazioni aziendali introducendo orari non rigidi (orari ridotti per esigenze del lavoratore, turnistica innovativa, orari personalizzati o il lavoro da casa) comporterebbe sicuramente investimenti importanti in termini di innovazione organizzativa, ma potrebbe restituire risultati rilevanti sull’efficienza dei processi. Inoltre cambiamenti mirati a incontrare anche le esigenze dei dipendenti potrebbero avere un impatto notevole sulla riduzione delle assenze e sul miglioramento delle motivazioni e del clima organizzativo.
Permettere ai genitori di accompagnare i figli a scuola, concordando l’ingresso a lavoro sulla base degli orari scolastici, favorire il welfare aziendale sono solo alcuni esempi di come migliorare la qualità del lavoro e le performance dei lavoratori.
E poi c’è il rumore. Che a pensarci bene non è proprio il rumore che tormenta i miei risvegli ma il disagio che esprime, la sofferenza di chi non sembra avere altro che il suono sgradevole di un clacson per farmi partecipe del proprio fastidio nel dover attraversare la città insieme a tutti per andare al lavoro. Che poi non è il lavoro ma è la vita e la vita è rumore.