Il paradosso dell’economia creativa
Secondo un recente rapporto del Parlamento europeo, le professioni creative sono tra le più precarie. Se, in media, il 59% dei lavoratori nell’UE ha un contratto a tempo indeterminato e a tempo pieno, questa percentuale scende al 39% nel settore che copre anche i servizi artistici. Peggio fa solo l’agricoltura in cui il numero di stagionali è ovviamente molto alto.
Conferenze, studi, rapporti e persino proposte di legge su cultura e creatività (vedasi la recente proposta di legge sulla creatività per la Regione Lazio) sono ormai all’ordine del giorno in Italia.
Si stima infatti che i settori legati alla cultura e alla creatività – dalle arti visive, al teatro, al cinema, al design e all’architettura, per citarne alcuni – contribuiscano al 17% del valore aggiunto italiano, per un totale di 249,8 miliardi di euro. Quasi ai livelli del settore manifatturiero.
Eppure le condizioni di lavoro di chi lavora in questi settori non sembrano al momento ottimali.
I professionisti della cultura e della creatività producono infatti spesso reddito a “intermittenza” data l’elevata percentuale di liberi professionisti. In Italia, si tratta di quasi il 18% contro circa il 5% nel resto dell’economia senza contare tutti quelli che sfuggono ai conteggi statistici (Fonte: Symbola 2016).
A livello europeo, il rapporto del Parlamento citato sopra stima che ben il 42% dei lavoratori creativi (giornalisti, editori, architetti, designer, musicisti e informatici specialisti/web) sono freelance.
Inoltre, per i creativi il reddito non è mai il motivo trainante. Sono le emozioni e il benessere psicologico che traggono dal lavoro a guidare il più delle volte la loro scelta. Di fatto, i lavori creativi potrebbero essere definiti gli “emotional jobs” per eccellenza.
La combinazione di questi due fattori fa sì che i creativi siano spesso l’anello debole di un settore che, nel suo insieme, continua a crescere ma che spesso trae forza da lavoratori appassionati e dedicati, ma alla cui dedizione non corrisponde necessariamente un riconoscimento (monetario e non) adeguato.
In parte è un fenomeno perfettamente normale e forse anche auspicabile per delle professioni creative, non facilmente inquadrabili in contratti subordinati standard. Ma questo significa anche che quasi metà dei lavoratori creativi opera al di fuori delle protezioni garantite dalle norme di previdenza sociale che garantiscono, per esempio, la percezione di una pensione a fine carriera.
E, a differenza di altre professioni in cui prevalgono i lavoratori autonomi, non hanno neanche organizzazioni professionali sviluppate che possano difendere collettivamente i loro interessi. Questo si traduce in una diffusa precarietà professionale e salariale i cui effetti al momento sono magari attenuati dal welfare familiare (la paghetta dei nonni) ma che esploderanno, se non controllati nel futuro. Infatti, la precarietà attuale mette anche a rischio le pensioni future. È un rischio che il Presidente dell’INPS Boeri ricorda settimanalmente ai 20-30enni, ma che è ancora più forte per i creativi che, per “natura”, hanno carriere meno continuative.
Dopo gli anni passati a rivendicare l’importanza del settore e la sua rilevanza strategica, ora è il momento di passare a una sorta di fase due. Da una parte, e non vale solo per il settore culturale e creativo, bisogna far fronte ai cambiamenti del mondo lavoro. Il contratto dipendente a tempo indeterminato, e tutti i benefit in termini di protezione e welfare che lo accompagnano, pesa sempre meno.
È necessario quindi ripensare il welfare al di là dei modelli standard basati sul lavoro subordinato con un unico datore di lavoro. Si stanno facendo dei passi avanti in Italia, in particolare con il ddl sul lavoro agile e il lavoro autonomo, ma siamo ovviamente ancora lontani da una soluzione definitiva. È una sfida che investe tutti i paesi e settori, ma che diventa particolarmente acuta per chi vuole scommettere su un settore in cui le forme di lavoro atipiche sono la norma.