Perché rileggere Robert Owen oggi? Educazione, mutalismo e tutela del lavoro per una società giusta
Pubblichiamo un estratto dalla prefazione di Francesca Coin a la Società giusta di Robert Owen pubblicato da Fondazione Feltrinelli. Scarica qui l’ebook in pdf
Che senso ha rileggere Owen, oggi? Per quanto viviamo in un’epoca cronologicamente molto distante dagli anni cui stiamo guardando, è purtroppo evidente come molti dei temi toccati da Owen siano ancora drammaticamente attuali. Per certi versi, la forte discontinuità, tra le nostre epoche, è interrotta da convergenze che rimandano alla presenza di elementi comuni, su cui vale la pena soffermarsi. Forse, il tratto che più accomuna due epoche tanto lontane, è, non a caso, il persistere di una straordinaria diseguaglianza sociale, e, peggio, di una profonda repulsione per chi siede al fondo della società.
Nell’epoca contemporanea le diseguaglianze non sono scomparse. Basta citare Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (2013) per ricordare come, dopo trent’anni di sostanziale riduzione delle
disparità sociali, a partire dalla fine degli anni Settanta la ricchezza abbia continuato a essere accumulata nelle mani di pochi. Di fatto, la crisi degli ultimi dieci anni ha acuito le diseguaglianze sociali, esacerbando le tensioni iniziate alla fine di Bretton Woods, quando l’ingresso nel libero mercato ha accelerato un processo di ristrutturazione fondato sulla compressione del costo del lavoro e sull’erosione del patto salariale.
In questo contesto, i tagli allo stato sociale, in particolare alle pensioni, all’educazione e alla sanità, hanno aumentato il divario tra ricchi e poveri, riducendo gli strumenti capaci di resistere alla nascita di una società sempre più polarizzata. In paesi come l’Italia, la mobilità sociale si è a tal punto ridotta, in questi ultimi anni, da essere oramai sostanzialmente inibita. È, questo, un dato consistente nei vari rapporti di ricerca.
Il Rapporto OCSE del 2018, per esempio, descrive una situazione di sostanziale immobilità, nel quale i ceti più poveri hanno bisogno di cinque generazioni per risalire la scala sociale – circa 150 anni. La distanza cronologica, in questo senso, scompare di fronte al persistere delle diseguaglianze sociali, capaci di precludere il futuro ad ampie fasce della popolazione per decenni e decenni, senza soluzione di continuità.
Di fatto, non è solo l’immobilità sociale a rendere attuale la riflessione sociale di Owen. Esattamente come accadeva all’epoca della Prima rivoluzione industriale, all’alba della Quarta rivoluzione industriale, la condizione di impoverimento nella quale vivono fasce sempre più ampie della popolazione si innesta su una narrazione colpevolizzante.
Quasi due secoli dopo Malthus, ancora c’è chi sostiene che la durezza del vivere sia uno stimolo necessario per indurre le fasce deboli della popolazione ad affrancarsi dall’assistenzialismo e dalla povertà. In questo contesto, la necessità di difendere la società dall’opportunismo assistenziale dei poveri fa da incentivo a forme di inclusione sociale “attiva” che vincolano la possibilità di ricevere un sostegno al reddito alla necessità di partecipare a progetti di inclusione nel mondo del lavoro o della formazione – si pensi solo al dibattito relativo all’introduzione del SIA (Sostegno per l’Inclusione Attiva) o del REI Reddito di Inclusione) (Saraceno, 2013; Tripodina, 2013).
Al netto delle trasformazioni intercorse negli ultimi due secoli, la società contemporanea pare ancora persuasa della necessità morale di proteggersi dalla disoccupazione volontaria, al costo di indurre i meno abbienti ad accettare posizioni lavorative prive di tutele e diritti, in un processo che rischia di stringere le fasce deboli della popolazione in una morsa di lavoro povero e di protezioni inadeguate, che pare fare meno per risolvere il problema della povertà di quanto contribuisca a sclerotizzarla.
In questo contesto, l’autolesionismo di classe, quella specie di guerra latente tra contribuenti e destinatari dell’assistenza pubblica che persevera nel dibattito contemporaneo, è non solo il riflesso di un progetto sociale inadeguato, nel lungo periodo, ma la cartina tornasole di un clima culturale di sospetto in cui proliferano frustrazione e ostilità.
In questi anni, assistiamo impotenti al trionfo di quello che Ferrajoli ha definito come “populismo penale”, la tendenza oramai diffusa a invocare l’intervento penale come una panacea in grado di produrre magicamente “una cessazione della micro delinquenza, e la rimozione, dall’orizzonte della politica, delle politiche sociali di inclusione, certamente più costose e impegnative, ma anche le sole in grado di aggredire e ridurre la cause strutturali” (Ferrajoli, 2007: 372). Il problema, in questo contesto, non è solo la diffusione della guerra tra poveri ma la plateale assenza di una
visione di futuro che non sia esclusivamente securitaria o emergenziale.
La nostra società discute molto, specie nei circoli ristretti del pensiero critico, di mutualismo, della necessità di salari più alti, dell’importanza dell’istruzione nella trasformazione della società – tutti temi molto cari a Owen. Cionondimeno, non riesce a superare le resistenze culturali a un progetto capace di superare la struttura classista della società.
Forse, in un’epoca come questa, vale ancora il metodo ostinato di Owen, che si posizionava in modo trasversale nel dibattito pubblico, alternando di volta in volta i panni dell’intellettuale o dell’imprenditore, perché al cospetto del suo obiettivo etico, ogni ostacolo, ivi inclusi i pregiudizi e la “malvagia” di quel ceto industriale insensibile ch’egli considerava la causa prima di ogni frustrazione, diveniva secondario.
Al cospetto dell’obiettivo sublime di creare una società più giusta e equa, il problema di
Owen non era fallire né inventarsi nuove ardite sperimentazioni, bensì convincere i propri interlocutori dell’urgenza di nuovi strumenti di riforma, semplicemente “per amore dell’umanità” (Owen, 1813: 21).
Immagine di copertina: ph. Jacek Dylag da Unsplash