L’arte doveva mostrarci un’alternativa al lavoro, ora si è trasformata in capitalismo artistico

Sul muro di una scuola elementare del quartiere in cui abito è comparsa da qualche tempo una scritta in rosso che recita “NO TAV, SI AL LAVORO UTILE E DIGNITOSO”.

Tutte le volte che passo davanti alla scritta penso a quanto sia cambiata la prospettiva delle proteste giovanili in Italia e in Occidente. Una sorta di emorragia dei consensi della lotta rivoluzionaria che si sostanzia in una richiesta dignitosa, possibilista e non pretenziosa, addirittura utile.

Pubblichiamo un estratto dal saggio di Vincenzo Estremo, Teoria del lavoro reputazionale

Ogni volta che rileggo quella scritta mi prefiguro la crisi profonda delle lotte e mi capita di pensare indirettamente e per contrasto al suo impatto estetico, al suo display, più che alla sua funzione politica. Credo sia una deformazione professionale o forse una semplice abitudine, ma quel testo vergato in rosso con quel lettering associabile ai movimenti di protesta e perfettamente posizionato per essere letto dalla strada, mi ha rimandato, per forma e contenuto, ad alcuni interventi d’arte contemporanea. Non mi meraviglierei, infatti, di trovare una scritta simile in qualche biennale, nelle sale di un museo o meglio ancora alle pareti provvisorie di un booth affollato di una fiera d’arte internazionale.

In questi casi però, lo slogan dei cauti e ignoti antagonisti, si trasformerebbe in qualcosa di più perentorio. Un’artista, non senza presunzione, mirerebbe alla luna, forse ripeterebbe il messaggio e, pur sapendo di non volerla raggiungere (la luna), concluderebbe il suo lavoro con un icastico NO AL LAVORO. Si perché oggi l’arte e il lavoro sono due ambiti che si sovrappongono più di quanto possa sembrare. Sono in una relazione problematica con la contemporaneità e si ridefiniscono in continuazione.

L’arte si rivede nel lavoro pur rappresentando un ambito professionale atipico

L’arte è interessata a osservare e raccontare il lavoro, a denunciarne lo sfruttamento, a guardare in maniera auto-riflessiva alle condizioni del lavoro e a quello artistico, al suo riconoscimento, alla sua legittimazione. L’arte si rivede nel lavoro pur rappresentando un ambito professionale atipico ed è forse per questa ragione che ha bisogno di auto-analizzarsi per comprendersi, per scoprire che strade sta prendendo.

Negli anni, lavorando in maniera più o meno costante insieme a una costellazione di figure che si occupano d’arte, ho preso parte a moltissime riunioni in cui si è discusso e ridiscusso sullo stato dei lavoratori e del lavoro artistico. Tutte quelle riunioni mi davano l’impressione, e credo la dessero a tanti altri partecipanti, che il senso delle discussioni, a volte anche interessanti, non stesse nella risoluzione di un problema dato, ma nella loro stessa circolarità. Si sentiva, ed era percettibile, l’esistenza di una generale soddisfazione nel mantenere le discussioni a livello teorico e non la necessità di sporcarsi le mani con qualsivoglia sforzo pratico.

Insomma sembrava evidente che non vi fosse la voglia e in alcuni casi la necessità, di cercare e trovare conclusioni concrete. A volte ci si incontrava in dei ristoranti cinesi e alla terza birra qualcuno azzardava un piano di intervento che puntualmente naufragava il giorno dopo in un Google doc che nessuna delle persone invitate avrebbe mai aperto.

Paradossalmente molti lavoratori dell’arte sembrano più interessati a fare grandi cose o a prodursi in sforzi titanici a favore di gruppi deboli e marginalizzati della società, ma appaiono non essere in grado di affrontare sistematicamente la situazione di precarietà in cui loro stessi sono immersi. L’esempio dell’arte è sintomatico di una condizione che tende a ripetersi e che non riesce a soddisfare il bisogno di aggiornare tattiche di protesta e di lotta.

L’obsolescenza di molti dei movimenti che rivendicano diritti e che avanzano proposte, sta forse nella loro marginalizzazione e purtroppo, nella loro stesa sopravvivenza. Perché se è vero che le sconfitte e la regressione dei movimenti di protesta e di lotta dimostra chiaramente un alto grado di inefficienza, è anche vero che a queste sconfitte continue non fa seguito una capitolazione definitiva.

Molti lavoratori dell’arte sembrano non essere in grado di affrontare sistematicamente la situazione di precarietà in cui loro stessi sono immersi

L’approccio politico a cui siamo stati acculturati, ognuno alla propria maniera e ognuno con modalità diverse, se da un lato deve adattarsi e trasformarsi in maniera dinamica contemplando un certo grado di attività speculative capaci di contrastare la potenza della controparte, dall’altro deve guardare costantemente al proprio interno. L’inefficienza dell’arte contemporanea di operare in questo senso e la sua capacità parallela di leggere le necessità e i bisogni della società contemporanea, diventano i punti di partenza di questa indagine.

Uno studio che nell’affrontare il malessere delle forme di socialità e del lavoro, guarda in maniera più allargata alla crisi della vita digitale, alla proliferazione dei media quali vettori di una conoscenza quantitativa e al ventre debole dell’oramai onnipresente edonismo emotivo e ideologico della politica.

Questa premessa si rende necessaria nel momento in cui si vuole chiarire che la descrizione dei problemi dell’arte e in particolare del lavoro artistico, non sono e non saranno al centro di questo testo. Pur sostenendo progetti meritevoli come W.A.G.E. o come Jubilee, in questo testo non si farà un’avvocatura del lavoro dell’arte, né si parlerà dei modi in cui l’arte sia, in maniera quasi generalizzata, un settore di sfruttamento e precarietà. Piuttosto si guarderà a come le entità instabili dell’arte anticipino tendenze di sfruttamento e auto-sfruttamento. Basterà dire, e lo si farà varie volte, che l’arte incarna in maniera quasi paradigmatica le complessità del mondo del lavoro e dei desideri della vita contemporanea in cui le contraddizioni si inaspriscono tra quanto viene mostrato e quanto soggiace alla sua realizzazione.

Un’attività, quella dell’arte, coperta da una sorta di patina, un velo di apparenze che mostra un mondo in cui tutto va bene e in cui catering costosissimi servono su piatti d’argento piccoli bocconcini deliziosi accompagnati da ottimi vini, mentre gran parte dei lavoratori che rendono possibile le mostre e che servono a quei banchetti minimali annaspano nelle stesse logiche salariali da fame o addirittura, come nel caso dell’arte, concedono a titolo gratuito il proprio lavoro a istituzioni pubbliche e private finanziate da fondi di investimento che in portafoglio hanno quote azionarie di produttori di armi, sigarette e alcolici.

L’arte è ingabbiata in se stessa, in una dimensione di continuo artwashing in cui è sempre più probabile assistere a progetti di social practice (art) che pur realizzando denunce sulla gentrificazione, sono finanziati con fondi di immobiliaristi che puntano su quello stesso lavoro di denuncia per “ripulire” intere aree urbane degradate.

Il lavoro è cambiato e l’arte sembra esserne parte integrante a tal punto vicina da non riuscire più a rappresentarlo, a tal punto contigua da non riuscire più a vederlo, tanto avanti da esserne il modello. Un cambiamento che non sta producendo quei benefici che tutti si aspettavano.

Al contrario ci confrontiamo con la ristagnazione dei salari, la diminuzione delle quote del lavoro nel PIL, con il calo del tasso di partecipazione alla forza lavoro, il calo di occupazioni per numero, la disoccupazione di lungo termine e un lavoro che sempre di più produce e aumenta disuguaglianza sociale e calo del potere d’acquisito. Eppure queste questioni sono sempre più ammantante da un desiderio di dimenticanza, un oblio a cui siamo noi i primi a contribuire con le nostre cortine post-ideologiche e i nostri desideri di autolegittimazione. Il lavoro è cambiato e nessuno sembra occuparsene davvero perché tutti sperano, in un modo o nell’altro, di farcela.

Immagine di copertina di Fifi Fauziyah da Unsplash