La politica delle mascherine, un confronto tra Agamben e Bratton

A causa della pandemia da Covid-19, le mascherine si sono trasformate da dispositivi politicamente innocenti negli oggetti di un’intensa controversia. Portare o non portare la mascherina è diventata per molti una dichiarazione politica e una questione di identità personale. Negli Stati Uniti, Donald Trump e i suoi sostenitori rifiutano di indossarle, mentre la sinistra ‘liberal’ non si fa mai vedere senza. In Italia, i manifestanti no-vax marciano a volto scoperto mentre i sindaci introducono l’obbligo della mascherina all’aperto per fermarli. La mascherina è diventata un oggetto che, alla maniera dell’Actor Network Theory di Bruno Latour, distingue i sostenitori dell’approccio ufficiale alla pandemia dai suoi detrattori. Ma qual è la politica della mascherina?  

Portare o non portare la mascherina è diventata per molti una dichiarazione politica e una questione di identità personale.

Un modo per scoprirlo è attraverso il recente dibattito tra il guru californiano del design Benjamin Bratton e il filosofo italiano Giorgio Agamben. Nel suo recente libro The Return of the Real – un tentativo di articolare una nuova filosofia politica per il mondo post-pandemia – Bratton contesta una serie di post di Agamben scritti durante l’anno pandemico del 2020. In questi, il ​​filosofo italiano ha descritto le misure anti-Covid – lockdown, distanziamento sociale, smart working, DAD e, ovviamente, l’obbligo della mascherina – non come iniziative necessarie a sedare un’emergenza sanitaria, ma come parti di un nuovo paradigma di governance sociale imposto alla popolazione mondiale con la scusa della pandemia. Agamben ha visto in queste misure una nuova versione della biopolitica (termine da sempre centrale nel suo lavoro) che mira a trasformare la vita conviviale – per usare un termine di Ivan Illich a cui Agamben attinge spesso – di cittadini, lavoratori o amanti nella “nuda vita” di pazienti mascherati e sottoposti a un’emergenza medica. Tale nuda vita, isolata in casa o davanti allo schermo del computer, resa anonima dalla mascherina, si ricompone in un nuovo corpo sociale post-umano tramite computer, algoritmi e altre forme di dispositivi digitali. In breve, le mascherine sono parte del ‘Grande Reset’, termine preso in prestito da Klaus Schwab del World Economic Forum e usato da molti dei nuovi sostenitori no-vax di Agamben (ma non dallo stesso Agamben, per quanto ne so) per denunciare un piano calato dall’alto di ristrutturazione globale post-pandemica.

Per Bratton, invece, una tale visione post-umana è proprio ciò che dobbiamo abbracciare. Bratton suggerisce che la pandemia ci abbia insegnato a vedere noi stessi non principalmente come individui (fatti a immagine del divino, direbbe Agamben), ma come parti di un bio-commons globale che comprende gli esseri umani e tutte le altre forme di vita, compresi microrganismi e virus. Abbiamo perciò bisogno di sviluppare una nuova “biopolitica positiva”, basata su una “visione epidemiologica della società” in base alla quale i processi sociali possono essere organizzati attraverso sistemi di sorveglianza basati su dati biologici, o addirittura “biochimici”, che avvengono a un livello diverso da quello dell’individuo. “La visione epidemiologica dovrebbe spostare il nostro senso di soggettività dall’individuazione privata verso la trasmissibilità pubblica. L’enfasi si sposta così dall’esperienza personale verso le responsabilità espresse dalle realtà biologiche e chimiche sottostanti e che ci legano”, scrive Brutton nel libro 1 Bratton, B. The Return of the Real. Politics for a post-Pandemic World, London; Verso, 2021, pp. 33-34..

Da questo punto di vista, la mascherina non è semplicemente un dispositivo per un (desiderabile?) processo di de-individualizzazione: è anche un modo di manifestare un impegno morale per un nuovo tipo di solidarietà biopolitica. Indossare una mascherina fa parte di quel che Bratton chiama una nuova “etica dell’oggetto”: significa interpretare se stessi non principalmente come individui singolari, né come membri di un collettivo esclusivo tenuto insieme da un’identificazione comunitaria, ma come un contenitore per i flussi di dati e di materia biochimica che costituiscono i “commons immunologici”. “La mascherina tiene te e gli altri al sicuro, ma comunica anche solidarietà con i ‘commons immunologici’, proprio come la sua assenza ne segnala il rifiuto” 2 Bratton, B. The Return of the Real. Politics for a post-Pandemic World, London; Verso, 2021, pp. 33-34..

Ci si potrebbe chiedere quale sia la necessità di fare così tanto clamore sulle mascherine. Perché non limitarsi a metterle quando servono e aspettare che l’emergenza passi? Una posizione così pragmatica non è un’opzione né per Agamben né per Bratton. Entrambi vedono le mascherine come parte di una trasformazione sociale ad ampio raggio, in base alla quale il mondo post-pandemia sarà radicalmente diverso da quello a cui siamo abituati. Per entrambi le mascherine rimarranno una parte delle nuove norme di condotta civica. In effetti, le visioni di Bratton e Agamben su ciò che sta effettivamente accadendo – o “the Real”, per usare un termine dal titolo del libro di Bratton – si sovrappongono molto, generando però opinioni diverse. Che cosa vogliono, allora? In virtù di quale punto di vista, di quale “inconscio politico” (per usare il termine di Frederic Jameson), i loro punti di vista differiscono così tanto?

Bratton definisce Agamben un tradizionalista, o addirittura un esponente di “medievalismo post-strutturalista”, qualcuno che cerca di “difendere e far rivivere un concetto pre-darwiniano” del corpo umano, definito non come parte dei commons immunologici, ma come quella mistica somiglianza divina che consente agli esseri umani di sperimentare una vera “somiglianza e diversità, distanza e prossimità”3 Bratton, p. 118; Agamben, G. ‘Un paese senza volto’, Quodlibet, Oct 8, 2020, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-un-paese-senza-volto.. L’epiteto in effetti si adatta abbastanza bene. Per cominciare, Agamben è un uomo anziano: 80 anni quest’anno. Per di più è un anziano professore universitario italiano, plasmato quindi da una carriera in una delle istituzioni intellettuali più tradizionaliste del mondo. È anche un uomo di lettere, nel senso tradizionale del termine: uno che ha dedicato gran parte della sua vita a cercare le prime tracce della modernità nel primo cristianesimo, nell’antichità classica e persino nell’ebraismo antico. È giunto però a sostenere anche una posizione tradizionalista più ampia. Insieme a nomi meno conosciuti a livello internazionale come Massimo Cacciari e Ugo Mattei, Agamben è diventato un portavoce pubblico del movimento di protesta contro la persistenza delle misure di emergenza e, soprattutto, dell’introduzione del “green pass”. La composizione del movimento di protesta, definito no-vax dai media ufficiali, è varia: c’è una significativa presenza dell’estrema destra, di cattolici tradizionalisti, attivisti “anti-gender”, separatisti neoborbonici e cospirazionisti vari. Man mano che la legittimità delle misure di emergenza prolungate diminuisce, a questi si unisce però un’ampia gamma di persone con convinzioni diverse e più vicine al mainstream. Sembra anche esserci un processo di consolidamento dell’ideologia no-vax.

Le posizioni più estreme, come le teorie del complotto in stile QAnon che hanno segnato i primi attivisti del movimento, sono ora accompagnate da analisi più concrete. Negli ultimi mesi l’area no-vax ha visto un fiorire di conferenze, workshop e talk online, oltre a libri e post pubblicati spesso da intellettuali del tutto nuovi e finora sconosciuti (anche se il solito Diego Fusaro ci si è inevitabilmente buttato). Un tema comune a molti di questi è il famoso “Grande reset” promosso dal World Economic Forum. Lockdown, obbligo di mascherine e vaccini sarebbe in questa interpretazione il preparativo o l’inizio dell’imposizione di un nuovo ordine sociale, organizzato attorno a una nuova generazione di tecnologie digitali basate su reti 5G. Ciò consentirà una sorveglianza onnipresente e senza precedenti, oltre a favorire un modello sociale in cui giganti digitali come Facebook e Microsoft potranno aumentare il loro potere e i loro profitti a spese di piccoli imprenditori e imprese familiari. In questa nuova società digitale di individui atomizzati – ciascuno a casa davanti allo schermo del proprio computer, o peggio, immerso nel metaverso di Zuckerberg – tutte le identità comunitarie o culturali consolidate si dissolvono e le persone sono libere, anzi, incoraggiate a scegliere con cosa identificarsi in termini di genere, sesso o altro. Così, il Movimento 3V, un’organizzazione dell’area no-vax con l’ambizione di diventare un partito politico, non è solo contro mascherine, green pass e vaccini, ma anche contro le reti 5G, il denaro digitale e il ddl Zan; quest’ultimo diventato un importante simbolo pubblico del tipo di fluidità di genere a cui essi invece resistono. Ma resistono in nome di cosa?

Sebbene il movimento no-vax sia una moltitudine complessa, la sua componente di base è costituita dagli strati sociali che hanno meno da guadagnare dal 5G e dalla cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. La ristrutturazione post-fordista (la terza rivoluzione in industriale, per usare il linguaggio del WEF) ha creato, in Italia come in gran parte dell’Occidente, una moltitudine di piccole imprese impegnate in settori come logistica, distribuzione, produzione industriale in outsourcing, servizi alle aziende e alle persone, ristorazione e ospitalità. Queste persone sono state le più esposte alle conseguenze economiche dei lockdown (sia quello “duro” della primavera del 2020, sia quello “morbido” dell’autunno del ’20 e della primavera del ’21) e sono le più esposte alla concorrenza da parte dei giganti digitali. I loro negozi rischiano di essere messi fuori mercato da Amazon, i servizi di consegna con ghost kitchen minacciano i piccoli ristoranti e lo smart working pone fine all’economia dei servizi che ha sostenuto le piccole imprese urbane. Questi nuovi strati industriosi ai margini dell’economia digitale vera e propria hanno fornito la base del sostegno a Trump, così come ai Querdenker tedeschi, e ancor prima, ai Gillets Jaunes francesi. Con una certa libertà poetica, possiamo definire l’idealtipo di un no-vax italiano come un piccolo imprenditore – magari un tassista, il proprietario di una tabaccheria o di un bar di quartiere, di una concessionaria di auto usate o di un servizio di pulizia – localizzato principalmente nel nordest d’Italia, dove è concentrata la maggior parte dell’economia industriale4 L’idealtipo riassume i risultati di un sondaggio fatta dall’istituto IPSOS per il Corriere della sera, Stefanoni, F. ‘Covid, chi sono i No vax: commercianti e disoccupati, elettori di Lega e FdI. Ecco l’identikit’, Corriere della sera, 21 Agosto, 2021. Cf. Lello, E. ‘Populismo anti-scientifico o nodi irrisolti della biomedicina? Prospettive a confronto intorno al movimento free vax.’ Rassegna Italiana di Sociologia 61(3), 2020, pp. 479-508, Villareal, N. ‘Small business’ class war could finish off American dynamism’ Palladium Magazine, Dec 21, 2020, https://palladiummag.com/2020/12/21/small-business-class-war-could-finish-off-american-dynamism/; Nachtwey, O, Schäfer, R. & N. Frei, ‘Politische Soziologie der Corona-Proteste’, SocArXiv, Dec 17, 2020, https://osf.io/preprints/socarxiv/zyp3f/.

Lì vivono in paesi di piccole e medie dimensioni – i tipi di luoghi in cui oggi si trova la maggior parte della produzione industriale – dove la vita si svolge tra reti locali di amici di lunga data, chiacchiere quotidiane durante l’aperitivo nella piazza principale, volontariato nella pro-loco che organizza la sagra annuale e una profonda identificazione con le tradizioni e le identità locali; un impegno che si è rafforzato man mano che i sogni di mobilità sociale o di migrazione sono stati vanificati dalla crisi post 2008. Lì, come nel midwest americano, il futuro è stato sostituito da un presente considerato una forma di vita naturale da salvaguardare dagli attacchi tecnocratici avviati dalla pandemia. La vecchia idea di Manuel Castells di una scissione politica tra coloro che sono inclusi e quelli invece esclusi dal nuovo “spazio dei flussi digitale” è stata semi-dimenticata – come se fosse un ricordo del passato – in seguito alla diffusione quasi universale di internet. Questa idea sta oggi riemergendo parallelamente all’evoluzione dell’ideologia no-vax, che diventa una resistenza generalizzata contro la modernizzazione digitale e in nome di un presente che ha bisogno di essere tutelato. Come nel caso dei luddisti nell’Inghilterra di inizio XIX secolo, non si tratta semplicemente un movimento anti-tecnologico (i no-vax usano smartphone, Telegram e Facebook), ma contro quelle tecnologie che minacciano uno stile di vita apparentemente naturale, com’è il caso delle antenne 5G che infatti vengono bruciate dal Veneto al Punjab.

Tutto ciò sembra essere molto tradizionalista, persino conservatore e reazionario: mi viene in mente il “reactionary modernism”, un termine usato da Jeffrey Herf per descrivere come i nazisti abbracciarono le nuove tecnologie per preservare la Kultur tradizionale. Ma qual è l’alternativa? Nel suo libro, Benjamin Bratton sottolinea come sia necessario sviluppare una nuova biopolitica positiva e costruttiva, attraverso la quale i commons immunologici possono essere gestiti su scala globale. Ciò deve avvenire, sempre secondo Bratton, abbracciando la sorveglianza basata sui dati e su una visione del mondo post-darwiniana presa in prestito dalle bioscienze, gettando via il tipo di umanesimo eurocentrico rappresentato da Agamben. Ma perché dovremmo farlo? Bratton tace su ciò che una tale “biopolitica positiva” otterrebbe, oltre a tenerci “al sicuro”. La sicurezza sembra essere l’unico motivo per cui dovremmo indossare mascherine e cedere i nostri dati personali ai commons immunologici. Con questa sua posizione, Bratton riflette un senso comune che contraddistingue uno spettro più ampio della politica contemporanea, che va dalle risposte ufficiali alla pandemia fino alla politica dei campus anglosassoni. L’obiettivo di mascherine e lockdown è tenerci al sicuro dal contagio allo stesso modo in cui lo scopo dei safe spaces nei campus è proteggere gli studenti da opinioni che potrebbero contraddire le loro convinzioni di base. È vero, Bratton sottolinea come una biopolitica positiva debba essere democratica e partecipativa e fa riferimento alla difficile situazione di diversi gruppi vulnerabili. Nel suo libro manca però la politica, nel senso che non si parla di lotta o conflitto: solo correttezza politica in base alla quale gli emarginati o i vulnerabili debbano essere protetti o inclusi. La “sicurezza” è però un obiettivo molto scivoloso che, come Foucault ha sottolineato, non ha mai termine. La visione di Bratton è altamente compatibile con l’incubo del “grande reset” e di uno stato di sorveglianza globale gestito da attori come Facebook e Microsoft, in cui la sicurezza viene invocata per mantenere uno stato di eccezione permanente e per censurare coloro che contraddicono il punto di vista principale pronunciando opinioni “non sicure”.

Ma la visione di Bratton sembra anche difficile da realizzare. Non tutta l’umanità vive in modi compatibili con il tipo di “biopolitica positiva” che lui immagina. E quelli che lo fanno dipendono da quelli che non lo fanno. Nella “prima ondata” italiana, gli alti tassi di infezione e morte in Lombardia ed Emilia Romagna sono stati in parte spiegati col fatto che in quelle regioni ha sede la maggior parte dei grandi centri di distribuzione. Gli stessi centri in cui i lavoratori della logistica hanno lavorato duramente per rifornire le classi medie in smart working di disinfettanti e carta igienica. La massiccia seconda ondata dell’India è invece in parte spiegata dal fatto che il lockdown del governo Modi ha costretto milioni di lavoratori migranti – guardiani notturni, camerieri, gli addetti alle pulizie e i tassisti che servono le classi medie – a tornare nei loro villaggi, a volte a piedi, accelerando così la diffusione del virus. In breve, per raggiungere una società del lusso completamente automatizzata (lasciamo perdere l’elemento comunista), le persone che possono adottare le misure di sicurezza che Bratton vorrebbe fossero una caratteristica permanente della futura biopolitica dipendono da una moltitudine di altre persone che non lo possono fare. In effetti, il libro di Bratton si può interpretare come una versione più triste e cupa dell’ideologia californiana che ha illuminato i suoi colleghi alcuni decenni fa (Bratton è professore di design all’Università della California, San Diego): la visione del mondo di un’élite privilegiata di knowledge worker che può permettersi di isolarsi in case comode, certi del loro diritto morale nel giudicare i proletari senza mascherine che li servono. La sua correttezza politica esprime l’esperienza di qualcuno che già vive in quello che Marx chiamava “il comunismo del capitale”: dove le contraddizioni fondamentali sono state risolte e c’è abbondante venture capital a disposizione. Che cos’è infatti la “sicurezza” se non il principio supremo di una governance cibernetica orientata alla perpetuazione di uno status quo post-storico?

Le opinioni di Agamben e Bratton rappresentano versioni high theory delle due visioni del mondo sempre più polarizzate che caratterizzano le risposte alla pandemia: mascherarsi e stare al sicuro o vedere tutto come un’esagerazione, addirittura una cospirazione che minaccia forme di vita consolidate e naturali. Ma c’è qualche alternativa a questi estremi? La gente comune sembra vivere la pandemia in una condizione di crescente perplessità. Sono bloccati nel sovraccarico di informazioni che, già negli anni ’60, Ernesto De Martino associava all’apocalisse culturale indotta dalla devastante modernizzazione dell’antica “civiltà contadina” che ancora prevaleva nelle campagne italiane. Oggi come allora, tale perplessità viene risolta da un crescente ricorso alla magia e alle teorie del complotto. Anzi, forse ciò che la pandemia ha reso evidente è la crisi dell’immaginario imperante; la nostra incapacità di immaginare un’alternativa al mondo mascherato dell’eterna sicurezza o alla condizione smascherata della negazione.

Il libro di Bratton contiene un’intuizione importante. Una politica per l’Antropocene non può basarsi solo su un’ontologia umanistica dell’individuo. Dev’essere orientata verso un differente livello ontologico: il livello dei processi biochimici, o addirittura planetari, in cui gli esseri umani sono meri oggetti. Ma questo significa che dobbiamo rinunciare alla convivialità, ormai rappresentata dalla singolarità del volto smascherato? È una buona idea? Per Bratton la socialità non mediata è diventata qualcosa di pericoloso da cui dovremmo tenerci “al sicuro”, ma non dovremmo forse semplicemente accettare che la vita diventerà più rischiosa man mano che avanzeremo nell’Antropocene? Il politologo Yascha Mounk ha suggerito qualcosa di simile in relazione a Omicron: la variante altamente contagiosa anche se più mite – o almeno così sembra – che si sta rapidamente diffondendo nel momento in cui scrivo. La pandemia potrebbe concludersi facendoci accettare livelli di rischio leggermente più elevati pur di riprendere le nostre vite sociali senza l’interferenza delle mascherine o del distanziamento sociale. Se estrapoliamo questa prospettiva e la portiamo più avanti nell’Antropocene, è possibile che morte, malattia e sofferenza – i mali che la modernità ha cercato di eliminare e che i baroni della Silicon Valley ora sognano di sradicare completamente – si avvicineranno di nuovo a noi, insegnandoci a convivere con esse in modi nuovi? È un’idea terribile per gli standard progressisti contemporanei, ma forse è necessario accettarla: anche pensatori radicali come Donna Haraway suggeriscono che dovremo accettare la realtà di un prossimo declino della popolazione, solo che, con ogni probabilità, non sarà solo una questione di “making kin, not babies” (“generate parentele, non bambini”).

In effetti, molte persone già affrontano la pandemia di Covid in modi molto più rischiosi di quelli delle classi medie mascherate: i migranti e i commercianti nei bazaar che compongono la crescente globalizzazione dal basso; i precari dei servizi e delle consegne che trovano nuovi modi di manipolare le piattaforme che li governano e creano nuove forme di solidarietà strada facendo; i sex worker e i senzatetto che hanno pochi modi per proteggersi e che potrebbero comunque avere preoccupazioni più importanti. Come ci ha detto un senzatetto a Napoli che abbiamo intervistato al culmine del lockdown ’20: “Dormiamo nei cassonetti della munezza, cosa cazzo pensi che ci importi del Covid?”. Questo non vuol dire che dovremmo semplicemente arrenderci e abbracciare l’apocalisse. Ma forse abbiamo bisogno di sviluppare nuovi modi di politicizzare il rischio, che si basino sull’esperienza concreta delle condizioni materiali. Dei nuovi modi di “rischiare insieme”, per usare l’espressione degli economisti australiani Dick Bryan e Mike Rafferty, in cui il rischio è trattato non come un presupposto ideologico, ma come una dimensione conflittuale radicata nelle condizioni materiali, al di là dell’umanesimo romantico e degli ideali astratti di “sicurezza”5Mounk, Y. ‘Omicron is the beginning of the end’, The Atlantic, Dec 22, 2021, https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2021/12/omicron-end-of-pandemic/621089/ , Bryan, D. &M. Rafferty, Risking Together: How Finance is Dominating Everyday Life in Australia. Sydney; Sydney University Press, 2018..

 

Cura e revisione di Andrea Daniele Signorelli

Immagine di copertina: ph. Vladimir Fedotov da Unsplash