Inventare il futuro abbandonando le bugie dello sviluppo

Jason Hickel ripercorre la storia dello squilibrio economico globale, smontando una dopo l’altra le bugie che ne hanno accompagnato la narrazione e presentando soluzioni rivoluzionarie ai problemi della disuguaglianza.

cheFare pubblica in anteprima un estratto da The Divide (Il Saggiatore) da oggi in libreria.


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Se gli scienziati hanno ragione a dire che il nostro modello di crescita esponenziale del Pil è il fattore che sta al cuore della nostra crisi, allora è da qui che dobbiamo partire se vogliamo immaginare un futuro alternativo. Un primo passo cruciale sarebbe quello di sbarazzarsi del Pil come misura del progresso economico e del benessere, sostituendolo con qualcosa di diverso. Ci sono molti parametri alternativi a disposizione. Per esempio, l’indicatore del progresso autentico (Gpi, Genuine Progress Indicator) parte dal Pil ma poi aggiunge fattori positivi come il lavoro familiare e volontario, sottrae fattori negativi come l’inquinamento, l’impoverimento delle risorse e la criminalità, e tiene conto della disuguaglianza.

Una serie di stati americani, come il Maryland e il Vermont, hanno già cominciato a usare il Gpi come misura del progresso, anche se in subordine rispetto al Pil. Il Costa Rica sta per diventare il primo paese a farlo, e la Scozia e la Svezia potrebbero presto seguirne l’esempio.

Misurare il Gpi ci dà un quadro completamente diverso della società, rispetto al Pil. Se sovrapponiamo i due grafici, solo per fare un confronto, vediamo che il Gpi è cresciuto insieme al Pil fino a metà degli anni settanta e poi si è stabilizzato (e ha addirittura cominciato a calare), mentre il Pil continuava a crescere. […]

Buttare a mare la legge del Pil e il valore per l’azionista è un primo passo cruciale, ma da solo non basta. Può aiutarci a rifocalizzare l’attenzione sulle cose importanti, ma non affronta il fattore trainante fondamentale della crescita, che giace più in profondità e nascosto alla vista: il debito. In questo momento, una delle ragioni per cui le nostre economie devono crescere è il debito. Il debito si porta dietro gli interessi, e gli interessi fanno crescere il debito in modo esponenziale. Per poter rimborsare il proprio debito nel lungo periodo, un paese deve far crescere l’economia abbastanza da uguagliare la crescita del debito. Lo stesso vale per un’azienda: se volete avviare un’impresa, probabilmente dovete accendere un mutuo. Poi, avendo contratto quel debito, non potete accontentarvi di guadagnare abbastanza da pagare i vostri dipendenti e sfamare la vostra famiglia: dovete anche realizzare abbastanza prodotti da riuscire a rimborsare il prestito più gli interessi composti. Che siate un paese o un’impresa (o anche un singolo individuo), scoprirete che senza crescita il debito si accumula e alla fine provoca una crisi finanziaria. Insomma, se non cresci, crolli.

Un modo per alleviare questa pressione è semplicemente quello di cancellare parte del debito. La cancellazione del debito di nazioni sovrane, libererebbe queste ultime dalla pressione che le spinge a saccheggiare le proprie risorse e sfruttare i loro cittadini per procurarsi le entrate necessarie a rimborsare il debito. La cancellazione del debito di singoli individui metterebbe queste persone nelle condizioni di lavorare meno. Anche in tal caso, la cancellazione del debito significherebbe una perdita monetaria peri creditori – come le banche di Wall Street, che ne possiedono la gran parte. Tuttavia, potremmo decidere che sia un sacrificio ragionevole.

Ma anche la cancellazione del debito garantirebbe solo un rimedio temporaneo: non affronterebbe realmente il problema di fondo, rappresentato dal fatto che il sistema economico mondiale si basa su un denaro che è esso stesso debito. […]

Il fatto che funzioni grazie a denaro fondato sul debito è uno dei motivi principali per cui la nostra economia necessita di una crescita costante. Limitare il principio della riserva frazionaria contribuirebbe notevolmente a ridurre la quantità di debito che sguazza nelle nostre economie, e di conseguenza ad allentare la pressione per la crescita. Un modo semplice di farlo sarebbe imporre alle banche di conservare, a garanzia dei prestiti che erogano, una quota di riserve più alta. Ma c’è un approccio ancora più interessante che potremmo tentare: abolire interamente il denaro basato sul debito. Invece di lasciare che siano le banche commerciali a creare i nostri soldi, potremmo farli creare allo Stato – liberato dal debito – e poi spenderli nell’economia, invece di prestarli nell’economia. La responsabilità della creazione di moneta potrebbe essere a data a un organismo indipendente che sia democratico, responsabile e trasparente. Le banche potrebbero continuare a prestare denaro, naturalmente, ma dovrebbero garantirlo con riserve del 100 per cento, dollaro per dollaro.

Non è una proposta stravagante. Fece notizia nel 2012, quando ad avanzarla furono due economisti progressisti del Fmi, che sottolineavano che un sistema del genere avrebbe ridotto in modo eclatante sia il debito pubblico sia quello privato, rendendo più stabile l’economia mondiale. Nel Regno Unito, un’organizzazione chiamata Positive Money ha generato un certo consenso intorno a quest’idea.

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ph. Andrea Enríquez Cousiño

Cambiamenti come quelli descritti sarebbero molto utili per liberarci dalla tirannia della crescita. Ma ricordate: lo scopo non è soltanto arrestare l’inutile espansione delle nostre economie, è anche trovare un modo per ridimensionare attivamente i consumi aggregati – specialmente nei paesi ricchi – e riportarli a livelli sostenibili. E questo richiede una certa creatività. […]
Oggi la pubblicità rappresenta una parte enorme dell’economia. Secondo un recente rapporto, solo nel 2007 gli Stati Uniti hanno speso, complessivamente, 321 miliardi di dollari (in dollari del 2015) in pubblicità, e da allora questa cifra è salita di circa il 5 per cento l’anno, un ritmo molto più veloce della crescita dell’economia. Questa frenesia pubblicitaria ha spinto i consumi a livelli da capogiro, al punto che oggi l’americano medio consuma il doppio di quello che consumava negli anni cinquanta.

Alla luce di tutto questo, una soluzione semplice sarebbe vietare la pubblicità – quanto meno nei luoghi pubblici, dove la gente non può scegliere che cosa vedere e che cosa no. Può sembrare impossibile, ma San Paolo, una città di 20 milioni di persone, lo ha già fatto. Il risultato? Persone più felici: persone che si sentono più sicure di sé stesse e più contente della loro vita, oltre a consumare meno. Anche Parigi recentemente ha mosso alcuni passi in questa direzione, limitando la pubblicità per le strade e vietandola addirittura nelle vicinanze delle scuole. Un’altra opzione, più aggressiva, è quella di sostituire la pubblicità con messaggi pubblici che incoraggiano a ridurre i consumi. La Cina sta sperimentando questo approccio con la sua nuova campagna per dimezzare il consumo di carne nel paese entro il 2030, una strategia per ridurre le emissioni di gas serra che ha ricevuto elogi da più parti. Oppure si possono vietare del tutto prodotti particolarmente inutili e distruttivi, come l’acqua in bottiglia, come hanno fatto alcune città in Australia e negli Stati Uniti. Altri modi semplici per limitare i consumi possono essere la regolamentazione delle carte di credito, l’aumento delle imposte sui prodotti di lusso e la proibizione attraverso leggi apposite dei metodi di «obsolescenza programmata» da parte dei fabbri- canti, che cercano di accrescere il ritmo di ricambio costruendo prodotti scadenti, usa e getta.

Ma l’occupazione? Se ridimensionassimo la produzione e i consumi, non si scatenerebbe una crisi di disoccupazione? […] Una ricerca della New Economics Foundation di Londra indica che una settimana lavorativa più corta non solo riduce i malesseri fisici e psicologici associati al troppo lavoro, ma contribuisce anche a ridurre i consumi e le emissioni di gas serra. Lavorare meno significa avere più tempo per fare cose come accudire i bambini o i parenti anziani, coltivarsi il cibo da soli e cucinare, pulire, fare giardinaggio e altre attività che spesso a diamo a imprese. Permette di fare conoscenza con i vicini, creando opportunità per condividere competenze e averi.

Un’altra idea – che fa molta presa sull’opinione pubblica negli ultimi anni – è quella di introdurre un reddito minimo di base. Il reddito di base viene proposto per molte ragioni diverse, ma il più delle volte come strategia per ridurre la povertà. […]

Un reddito di base potrebbe essere finanziato in tanti modi diversi, per esempio con una tassazione progressiva sull’uso commerciale dei terreni, come l’imposta sul valore fondiario resa famosa dall’economista americano Henry George, o tasse sulle plusvalenze, sulle transazioni in valuta estera e sulle transazioni finanziarie, come la «Robin Hood tax», o «Tobin tax», proposta dal premio Nobel per l’Economia James Tobin. Un altro approccio potrebbe essere quello di tassare i 32 000 miliardi di dollari di ricchezza privata attualmente occultati in paradisi scali offshore, e usare i proventi per trasferimenti monetari diretti.

Nello stato americano dell’Alaska, le risorse naturali sono considerate un bene comune, perciò ogni residente riceve un dividendo annuale dei proventi del petrolio estratto nello stato sotto forma di reddito di base. Il modello dell’Alaska è popolare ed efficace, e gli studiosi hanno sottolineato che lo stesso approccio potrebbe essere applicato ad altre risorse naturali, come le foreste e le zone di pesca. Potrebbe essere applicato perfino all’aria, con una tassa sulle emissioni i cui proventi verrebbero distribuiti a tutti come reddito di base.

Rigenerare la speranza

Sfortunatamente, è improbabile che la decrescita avvenga con la rapidità di cui avremmo bisogno. Il cambiamento sociale a volte procede lentamente. L’idea sta gradualmente prendendo piede, ma potrebbe volerci una generazione per spostare la nostra coscienza collettiva su questo argomento, e non abbiamo così tanto tempo a disposizione. Detto questo, dobbiamo trovare una via d’uscita. E dobbiamo cercarla nel suolo. […]

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ph. Emily Morter

L’agricoltura rigenerativa rappresenta forse la nostra chance migliore per raffreddare realmente il pianeta. E si porta dietro un utilissimo effetto collaterale: i metodi rigenerativi producono rese più elevate dei metodi industriali, nel lungo periodo, perché potenziano la fertilità dei terreni e li rendono più resistenti a siccità e inondazioni. Perciò, quando i cambiamenti climatici renderanno più difficile coltivare la terra, questa potrebbe essere la nostra chance migliore anche sul piano della sicurezza alimentare.

Naturalmente l’agricoltura rigenerativa non offre una soluzione permanente alla crisi climatica, perché i terreni possono trattenere solo una certa quantità di carbonio. Dovremmo comunque liberarci dei combustibili fossili più in fretta che possiamo, e soprattutto sbarazzarci della nostra ossessione per una crescita esponenziale senza fine, ridimensionando la nostra economia materiale per riportarla in sintonia con i cicli ecologici. Però potrebbe farci guadagnare abbastanza tempo per riuscire a organizzarci. […]

Se i paesi ricchi organizzeranno un ridimensionamento pianificato delle loro economie materiali, con lo scopo di mantenere e perfino migliorare la loro qualità di vita, si libererà lo spazio ecologico di cui i paesi poveri hanno bisogno per raggiungere standard elementari di benessere umano. Ma anche così, il Sud del mondo avrà ancora una decisione di fronte a sé: seguire il modello di sviluppo standard stabilito dall’Occidente e focalizzato su estrazione, consumo e crescita? O cogliere l’occasione per iniziare una strada completamente diversa? […[

Chi sa dove potrà condurre tutto questo? Una volta che la gente inizierà a rifiutare la storia unica dello sviluppo, il futuro sarà fertile e ricco di possibilità. Dobbiamo solo avere il coraggio di inventarlo.


Immagine di copertina: ph. Andrés Gerlotti da Unsplash