Il politicamente corretto: un falso mito creato dalla destra per attaccare la sinistra

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Valigia Blu.

Tormentoni come “per colpa del politicamente corretto non si può dire nulla” o “dittatura del politicamente corretto” sono ormai una costante del dibattito pubblico, a livello internazionale, per denunciare una sorta di polizia morale della sinistra. In questa narrazione, chi sta dalla parte del “politicamente corretto” è spesso etichettato in modo negativo – “nazifemminista”, “buonista”, “radical chic” (meglio se “ipocrita”), “moralista”, “talebano”. A queste etichette vanno aggiunte due ampiamente usate in Gran Bretagna e Stati Uniti, e che timidamente si stanno affacciando anche in Italia: “social justice warrior” e “woke”. Etichette, quest’ultime, che nella loro accezione dispregiativa sono peculiari.

La prima scimmiotta il concetto di giustizia sociale, per cui i SJW sarebbero degli zeloti in perenne lotta e polemica. La seconda etichetta è a tutti gli effetti un’appropriazione culturale: termine in voga nel gergo afroamericano, “stay woke” vuol dire “stare vigile” rispetto a temi sociali e all’antirazzismo, così come “woke” è colui che è attento su questi temi. Ora invece “woke” è spesso usato per indicare gli attivisti di sinistra, con accezione ironica o denigratoria, ed è quindi impugnato come arma retorica dalle classi dominanti – a maggioranza bianca. Giocano sullo svuotamento di senso e sul ribaltamento anche le metafore che, nel denunciare gli eccessi del “politicamente corretto”, evocano violente oppressioni  – “linciaggio”, “caccia alle streghe”, “neomaccartismo”. La tendenza è di attribuirle a gruppi sociali che storicamente hanno magari subito quelle forme di oppressione (“basta con la caccia alle streghe del #metoo”, dichiarava nel 2018 il regista austriaco Michael Haneke).