Videogiochi e blockchain: il gaming al tempo di Axie Infinity
Avete già sentito parlare di Axie Infinity? Si tratta di un videogioco di ruolo esploso quest’anno, nel quale il giocatore è chiamato ad allevare delle creature fantastiche – dette Axie, appunto – per farle poi combattere, in un sistema 3vs3, contro altre creature gestite dall’intelligenza artificiale o da altri giocatori. Messa così diventa difficile non inquadrarlo come uno dei tanti tentativi di imitazione di uno dei videogiochi più famosi della storia, e cioè i Pokemon; la verità, però, è che gli Axie sono unici. E non lo dico in senso encomiastico, ma perché tecnicamente lo sono davvero: ognuno di questi esseri virtuali costituisce infatti un NFT (non fungible token), ossia un contenuto digitale riconosciuto come unico e autentico grazie alle operazioni crittografiche della blockchain. In parole povere, ciò significa che ogni Axie ha un proprio valore economico che varia in base alla rarità delle sue qualità, e chi li possiede può quindi scegliere di rivenderli, ibridarli per generarne altri dal valore più alto, oppure condurli in battaglia per ottenere ricompense, anch’esse rivendibili; non per soldi immaginari e interni al gioco, tuttavia, ma sul serio, per soldi veri – e cioè in criptovalute, se non si fosse capito.
Proprio la possibilità di guadagnare giocando rappresenta la caratteristica principale di un filone di videogames – i cosiddetti play-to-earn – che va molto forte fra coloro che frequentano le piattaforme e le app legate alla blockchain, e di cui Axie Infinity è l’ultimo esponente di spicco. In un pezzo dello scorso ottobre dedicato al successo che ha ottenuto negli ultimi mesi – periodo in cui è arrivato a contare circa due milioni di giocatori attivi al giorno – Casey Newton (noto giornalista statunitense ed esperto di social, piattaforme ed economia digitale) si domandava se alla fine non saranno i videogiochi a facilitare il salto di popolarità decisivo della sfera cripto, portandola nel mainstream. Naturalmente, dato l’elevato numero di variabili da tenere in considerazione quando si analizza il fenomeno blockchain, non è semplice rispondere a tale quesito; tuttavia, a partire da esso e dall’enorme partecipazione che queste applicazioni stanno generando, è forse possibile fare delle considerazioni – o meglio, porsi altre domande – su questa ennesima deriva del gaming online e sulle conseguenze della sua fusione con meccanismi cripto-finanziari.
Il fascino discreto del videogioco
Come immagino non sarà sfuggito a molti, viviamo tempi in cui non va proprio tutto alla grande: pandemie, eventi climatici estremi, crisi economiche, tensioni sociali e Grande Fratello VIP ancora in tv. La realtà, possiamo dirlo, è un gran casino, e perciò non sorprende che fra i pochissimi attori a vedere i propri ricavi aumentare esponenzialmente nell’ultimo anno e mezzo vi siano soprattutto quelle grandi aziende del digitale che si sono rivelate maggiormente in grado di intercettare i desideri di semplificazione ed evasione delle masse.
Una delle tecniche di marketing più impiegate da questi attori, proprio nell’ottica di rispondere all’urgenza escapista delle nostre società, è quella della gamification. Si tratta di una strategia che viene studiata, applicata e dibattuta da almeno un decennio, per cui non credo necessiti di particolari presentazioni; ad ogni modo, per spiegarla alla svelta può tornare utile la definizione che ne dà Treccani (del cui dizionario online è entrata a far parte come neologismo già dal 2013):
Utilizzo di meccanismi tipici del gioco e, in particolare, del videogioco (punti, livelli, premi, beni virtuali, classifiche), per rendere gli utenti o i potenziali clienti partecipi delle attività di un sito e interessarli ai servizi offerti.
Una pratica che ha finito per influenzare profondamente il design di tutte quelle applicazioni che generano assuefazione attraverso la ripetizione di piccole azioni in cambio di micro-gratifiche. Ormai lo sappiamo bene: le app per fare sport o per leggere di più sono strutturate come giochi a livelli, aprire una notifica è come tirare una leva per scoprire quanti like o visualizzazioni hai vinto, se pubblichi tante recensioni vinci un badge virtuale e così via.
Insomma, offrire un’esperienza di gioco – o meglio: offrire un’esperienza camuffata da gioco, che magari da questo abbia mutuato anche solo pochi, ma decisivi elementi – paga. Del resto, non è certo necessario riflettere sull’impiego della gamification per convincersene: basta guardare al successo di chi più di tutti conosce e attinge a piene mani dai “meccanismi tipici del videogioco”, e cioè – banalmente – i produttori di videogames. C’è un semplice dato a rendere l’idea delle sue proporzioni: lo scorso maggio, la società di consulenza e analisi di mercato Newzoo ha previsto che il settore del gaming avrebbe chiuso il 2021 con un fatturato di circa 175.8 miliardi di dollari, per un numero complessivo di giocatori nel mondo pari a 2.9 miliardi. Sono numeri da capogiro, che servono a darci un’idea di quanto il videogioco – in tutte le sue forme, dall’app di Candy Crush all’ultimo FIFA per la PS5 – abbia ormai raggiunto dei livelli di pervasività nelle nostre vite mai toccati prima.
In un certo senso, allora, non è affatto strano che le logiche del medium videoludico abbiano finito per radicarsi anche nel variegato ecosistema delle cripto, in continua espansione proprio grazie alla capacità di far convergere sempre più interessi verso di sé. Proprio nel corso del 2021, ad esempio, molti di noi hanno preso dimestichezza col termine NFT grazie a quelle che potremmo definire ‘figurine virtuali’ dei momenti iconici del basket americano, messe in vendita in edizione limitata sulla piattaforma NBA Top Shot e acquistabili tramite transazioni in blockchain. Non solo: abbiamo scoperto che esistono opere d’arte digitali, e che anche queste possono essere convertite in NFT e rivendute online come pezzi unici o limitati, in aste virtuali che hanno generato fino a decine di milioni di dollari (in criptovalute) per i loro autori. Si tratta di iniziative che sono riuscite a solleticare l’anima collezionista di migliaia di appassionati di sport e d’arte, oltre all’istinto speculatore dei tanti che ci hanno visto un’opportunità di guadagno (acquistare un’opera d’arte per rivenderla successivamente a un prezzo maggiore: cambiano i canali di scambio ma non le strategie di mercato); e che così facendo hanno sì garantito grandi ritorni economici a chi le ha messe in atto (la Federazione NBA, artisti e case d’aste, i gestori delle applicazioni su cui si sono svolte le transazioni), ma anche avvicinato molta gente a un mondo e a una tecnologia sempre alla ricerca di nuove vie per far crescere la popolarità intorno ai propri strumenti.
Quello fra cripto e videogames, pertanto, era un sodalizio annunciato e Axie non ne è di certo il primo esempio: ricordate Cryptokitties, quella sorta di Tamagochi coi gattini che si potevano comprare e rivendere pagando in criptovalute? Ecco, era il 2018, e al suo apice arrivò a generare un quarto delle transazioni effettuate su Ethereum (insieme a Bitcoin, la principale piattaforma di applicazioni realizzate in blockchain). Tre anni dopo, Axie Infinity pare essersi preso la scena, ma lo sfondo è costellato da una miriade di videogiochi che consentono all’utente di guadagnare giocando. Una volta che si guarda meglio a questi prodotti, però, mi sembra impossibile non porsi una domanda: ha ancora senso parlare di ‘videogiochi’?
Il valore della semplicità
Subito dopo aver letto l’articolo di Newton ho preso a perlustrare il web in cerca di informazioni su Axie Infinity, nel tentativo di farmene un’idea più precisa: altri articoli, recensioni, interviste e video – soprattutto video, dato che su Youtube esiste una cospicua quantità di creators che fanno dell’analisi dei giochi play-to-earn il core dei loro contenuti. Ahimè non ho potuto provare a giocarlo in prima persona principalmente per due motivi. Il primo ha a che vedere col fatto che non so un’acca di come ci si muove su queste piattaforme e al solo pensiero di dovermi cimentare seriamente fra wallet digitali, NFT e compagnia cantante, beh, insomma, non ne avevo voglia. Prima o poi dovrò farlo – forse dovremo tutti, lo so – ma not today. Il secondo, nonché principale motivo, è invece legato ai costi di ingresso di Axie Infinity, che – fra l’acquisto delle criptovalute e degli Axies necessari a iniziare – arrivano a sforare quota 1000€. Non proprio una cifretta da nulla, insomma; d’altro canto, non è mica un caso che, in quelle nazioni dove il gioco ha attecchito con più forza, hanno preso a diffondersi forme di finanziamento privato in cambio di una parte dei guadagni successivi del player – ma su questo torneremo più avanti.
La prima considerazione che mi sono ritrovato a fare man mano che visionavo questi materiali, come dicevo, si legava alla qualità del prodotto: Axie Infinity è, da un punto di vista prettamente videoludico, un oggetto terribile. Esteticamente sciatto – le creature saranno pure tutte diverse l’una dall’altra ma il loro aspetto in 2D risulta del tutto anonimo, così come quello delle ambientazioni – e con delle dinamiche di gioco che non hanno nulla di nuovo da dire – si tratta di un gdr molto elementare, coi classici combattimenti a turno e regole rudimentali –, a prima vista si fa fatica a trovare un motivo per cui si dovrebbe preferirlo alle migliaia di app scadenti che offrono esperienze di gioco simili senza dover pagare. Ma, a questo punto è anche un po’ superfluo dirlo, la ragione per cui molti invece scelgono di spendere fior di quattrini per giocarci è che a nessuno frega nulla del gioco in sé.
Sia chiaro, la mia non è una valutazione volta a screditare il titolo (purtroppo non vengo pagato dalla lobby dei Pokemon) né ad esprimere un giudizio di qualsiasi tipo verso chi vi gioca. Si tratta di una riflessione maturata anche osservando le modalità con cui queste applicazioni vengono discusse ed esaminate dai commentatori del settore: dallo youtuber che rivela la strategia da seguire per guadagnare 30 dollari in quindici minuti (“Meno della durata di una puntata di Loki”, dice a inizio video) a quello che spiega ai suoi followers quali tipologie di Axies scambiare per massimizzare i profitti, passando per gli articoli che analizzano i volumi di transazioni in criptovalute generati o la stabilità dei token sul mercato. Ciò che emerge, quindi, è che Axie e tutti gli altri oggetti con le stesse caratteristiche vengono trattati da chi conosce la scena cripto non tanto alla stregua di videogiochi, quanto di puri strumenti finanziari; chi fornisce guide e recensioni lo fa ponendo l’accento sulla possibilità di guadagnare con facilità o meno – praticamente mai, invece, parla di qualità e giocabilità del prodotto.
Insomma, la patina colorata e grintosa da videogioco che viene applicata su questi software, dai loro creatori e dalle piattaforme con cui vanno a interfacciarsi, sembra essere perlopiù un espediente per allargare il bacino di potenziali utenti. Osservandoli da vicino ci si accorge che in realtà la componente videoludica – intesa qui come la capacità di coinvolgere il giocatore attraverso sfide che lo inducano a ragionare, a testare i propri riflessi o ad organizzare le proprie risorse; ma anche a migliorare progressivamente le proprie abilità tramite la ripetizione dei livelli e, perché no, a immergersi in una storia che cresca di pari passo con il superamento degli ostacoli – ebbene tale componente appare ridotta all’osso.
La patina colorata e grintosa da videogioco che viene applicata su questi software sembra essere perlopiù un espediente per allargare il bacino di potenziali utenti.
Del resto, perché Sky Mavis – la compagnia vietnamita che ha lanciato Axie Infinity, nata solo nel 2018 – avrebbe dovuto svenarsi da un punto di vista sia produttivo che di budget per sviluppare un titolo sofisticato quando bastava far leva sull’incentivo più attraente di tutti, e cioè quello economico? Se lo strato videoludico serve perlopiù ad abbellire il nucleo speculativo-finanziario di questi prodotti, quelle caratteristiche che a uno sguardo profano possono apparire come indicatrici della loro scarsa qualità sono in realtà consapevoli scelte di design. La stessa essenzialità, sia estetica che di gameplay, assolve infatti un’importante funzione: quella di non spaventare i potenziali utenti che vi si avvicinano con la sola prospettiva di provare a guadagnare qualche soldo, magari già diffidenti per via delle barriere all’ingresso di questo settore (come riportavo sopra, oltre ai costi iniziali va considerata anche la necessità di studiarsi un minimo il funzionamento di tutti gli strumenti che gravitano intorno alla blockchain, e la naturale ritrosia a farlo di chi è totalmente estraneo a queste dinamiche). Pensateci: giochereste mai a un’app di poker online che promette di offrirvi una sfida particolarmente complessa, o comunque più complessa rispetto alle altre?
Prodotti ibridi, dunque, in falso equilibrio fra videogioco e strumento finanziario, poiché volutamente e nemmeno troppo velatamente sbilanciati verso la seconda. In sintesi: prodotti finanziari gamificati, o camuffati da gioco. Una strategia che fin qui ha funzionato, se è vero appunto che queste applicazioni godono di un ottimo stato di salute e vedono le loro quotazioni in costante rialzo. Ma è questa la loro forma definitiva, o è ragionevole pensare che in futuro le cose possano cambiare? E se sì, in quale direzione – più videogioco o meno videogioco?
Evoluzioni possibili
Arrivati a questo punto urge un disclaimer: l’elementarità delle dinamiche di gioco di Axie non si traduce automaticamente in facilità di guadagno. Trattandosi di prodotti afferenti al mondo della speculazione finanziaria, infatti, le possibilità di accumulare o perdere le proprie cripto dipendono in buona misura anche da fattori incontrollabili, come ad esempio l’oscillazione del valore degli Axies e degli altri token del gioco. In pratica, essere in grado di allenare le proprie creature e battere gli altri giocatori è importante, ma non decisivo. Ciò detto, va comunque registrato che, soprattutto in quelle nazioni dove l’ammontare di un salario medio è particolarmente basso, il tentativo di crearsi un reddito giocando ad Axie ha preso piede in maniera concreta già da qualche mese: ad agosto, riporta Newton, la piattaforma contava 1.8 milioni di giocatori, di cui ben il 40% proveniente dalle Filippine. Nello stato del sud-est asiatico, sempre più persone cercano riparo dalle difficoltà del mondo del lavoro – esasperate dalla pandemia – in queste applicazioni, coprendo le spese iniziali grazie ai prestiti di banche e istituti privati che cavalcano l’onda. Alcuni utenti filippini di Axie Infinity, intervistati dal sito giornalistico Rest of World, hanno descritto la loro esperienza con toni entusiastici, sottolineando come il videogioco abbia permesso loro di sbarcare il lunario (e talvolta anche qualcosa di più) rimanendo a casa, senza dover mettere a repentaglio la propria salute.
Si tratta di un primo, inequivocabile indizio? Del segnale premonitore da cui è già possibile dedurre l’imminente affermazione su scala mondiale di Axie e della categoria dei cripto-giochi in generale? Difficile dirlo, specie considerando la variabilità di alcuni elementi da un luogo all’altro, o anche da un momento all’altro. Innanzitutto va detto che in nazioni come le Filippine (o il Venezuela, secondo maggior bacino di provenienza degli utenti di Axie) a esser basso rispetto ai canoni occidentali non è solo il costo del lavoro, ma anche quello della vita; pertanto, va da sé che il quantitativo di tempo speso a giocare per garantirsi quantomeno vitto e alloggio può differire parecchio, a prescindere dalle abilità del player, da Manila a Milano. Inoltre, come già accennato sopra, è importante ricordare che le possibilità di guadagno dipendono anche da cause esterne agli utenti, determinate dall’andamento delle transazioni e del valore delle criptovalute. Basti pensare allo stake necessario a iniziare a giocare, che – come riportato da Rest of World – è cresciuto man mano che aumentava il numero degli utenti, passando dai 300 dollari di un anno fa (quando i giocatori in circolazione si attestavano intorno alle 7500 unità) agli oltre 1000 richiesti attualmente. L’impossibilità di prevedere con precisione le conseguenze di tutte le variabili in gioco – impossibilità che del resto è intrinseca a qualsiasi fenomeno in ambito finanziario, tradizionale o cripto che sia – potrebbe quindi finire per rallentare l’ascesa di questi prodotti, e proprio qualche settimana fa sono arrivate le prime avvisaglie di difficoltà per il titolo di Sky Mavis, che a quanto pare è entrato in una fase in cui fatica ad attirare nuovi giocatori.
Insomma, magari è un po’ presto per sbilanciarsi in previsioni ma, a prescindere da come la si pensi su questi temi, le attuali tendenze di consumo digitale ci suggeriscono che in tempi di profonda incertezza – sia sociale che economica – queste applicazioni possono prosperare e conquistare larghe fette di mercato grazie alla loro abilità nell’intercettare più bisogni contemporaneamente: quello economico in primis, ma anche quello di evasione e semplificazione della realtà. E se la scarsa qualità da un punto di vista videoludico può indurre a nutrire delle riserve sulla loro capacità di sfondare in quelle aree dove l’incentivo economico risulta per forza di cose meno influente, niente ci dice che la loro natura non possa evolversi, per arrivare un giorno – nemmeno troppo lontano – allo sviluppo di prodotti che sfruttino in egual misura la componente finanziaria e quella di videogioco.
D’altra parte, il panorama del gaming online è già oggi gremito di titoli che si sono affermati proprio grazie all’allestimento di strutture di gioco minimali, sempre più spoglie di meccanismi narrativi, e che puntano tutto sul gameplay e sulla fame di endorfine del giocatore. Senza ripetersi su quei videogames che vengono sempre e inevitabilmente tirati in ballo quando si fanno discorsi di questo genere – ossia giochi à la Fortnite e tutti i vari sparatutto con dinamiche battle royale, che mantengono il player attaccato allo schermo alla costante ricerca di munizioni, uccisioni e rilasci di dopamina – si pensi anche a quei prodotti che sono riusciti a garantirsi una reputazione più ‘tranquilla’, di videogiochi non tossici e addirittura educativi, se vogliamo. Come Animal Crossing, di cui si parla parecchio ultimamente per via della nuova espansione rilasciata da Nintendo, e che deve il proprio successo alla creazione di un vasto mondo virtuale dall’estetica cartoonish, morbida e rilassante, dove chi gioca è libero di perdersi fra le tante attività disponibili (dal collezionare insetti al coltivare ortaggi o interagire coi vari personaggi) ricordandosi però di avere cura della propria isola – ogni giocatore ne acquisisce una a inizio partita –, che va manutenuta e decorata al fine di rendere più cool l’abitazione del proprio avatar.
Un aspetto, quello della personalizzazione dell’isola, che all’interno di Animal Crossing viene implementato per sfruttare dinamiche di gratificazione sociale (il giocatore ne invita altri per mostrare come ha abbellito la propria isola e ricevere complimenti e approvazione, accettando così di visitare a sua volta le isole altrui), ma che alcuni sviluppatori hanno fatto presto a reinterpretare in ottica cripto: nel gioco online Decentraland ad esempio (ma a quanto pare si tratta di una feature che verrà introdotta anche in Axie), il giocatore può comprare porzioni di terreno virtuali pagando in criptovaluta; le lande acquistate vengono convertite in NFT e rese pertanto scambiabili o vendibili in transazioni sui circuiti blockchain. Proprio per questa continua tendenza a imitare meccaniche di gioco già affermate viene facile ipotizzare che, una volta consolidata la loro presenza nel settore cripto, Sky Mavis e le altre case software di nuova generazione potrebbero iniziare a diversificare la loro produzione dando luce a oggetti più complessi, perlomeno da un punto di vista del gameplay e dell’impalcatura grafica.
Altro scenario nient’affatto improbabile è quello per cui, col progressivo sdoganarsi di questo mondo e l’indebolirsi delle barriere all’ingresso – sia economiche che psicologiche – saranno le stesse big del mercato videoludico ad affacciarvisi, introducendo sul mercato play-to-earn i propri titoli più famosi, rimodellati per renderli compatibili con un sistema che richiede la continua creazione di tokens e stimoli per generare operazioni finanziarie. In parole povere: non più Axie che imita Pokemon, o Decentraland che scopiazza Animal Crossing, ma direttamente Pokemon e Animal Crossing disponibili sulla piazza cripto. Oppure Fortnite, con le skin e le armi e altri accessori che vengono trasformati in NFT e scambiati, acquistati e venduti fra i giocatori attraverso transazioni in bitcoin. Riuscite a immaginare il potenziale di una svolta simile in termini di capacità di attirare giocatori, messi finalmente davanti alla possibilità non solo di guadagnare giocando, ma di guadagnare giocando ai loro titoli preferiti?
Verso quale realtà?
So bene che i contesti in cui provare emozioni del genere esistono già, eccome se esistono: la categoria degli e-sport è nata anni fa, la sua popolarità è in costante aumento e sempre più case di sviluppo organizzano manifestazioni dove i giocatori più forti possono sfidarsi e contendersi montepremi esorbitanti. Ma il punto è proprio questo: negli e-sport, ad ambire alla posta in palio c’è un numero ristretto di individui, il risultato di un percorso di scrematura che lascia fuori dalla competizione la stragrande maggioranza dei giocatori. Calare un videogioco dalla legacy conclamata nel sistema liquido dell’economia cripto, invece, significherebbe concedere la possibilità di giocarci per ottenere dei soldi a un pubblico molto più esteso – fra l’altro senza nemmeno rischiare di intaccare il successo o il prestigio degli e-sport che rimarrebbero comunque l’arena per “i più forti”, appunto. Tutta quella galassia di mega-celebrità del web, fatta di giocatori professionisti e streamer famosissimi, potrebbe così muoversi fra entrambe le dimensioni senza cadere in contraddizione – e portando con sé le decine di milioni di follower iscritti ai loro canali Twitch o Youtube…
Magari esagero e sto viaggiando troppo con la fantasia. In fondo, se questi scenari non si sono ancora realizzati un motivo ci sarà. Più d’uno, a dire il vero: all’opera ci sono sicuramente ragioni di distribuzione (accostare le parole gioco e cripto è sempre un ottimo metodo per attirare l’attenzione dei legislatori, specie in nazioni come la Cina), economiche (immagino occorra pensarci parecchio su prima di cambiare un modello di business che fin qui ha funzionato benissimo), ma anche e soprattutto tecniche (non sono un esperto ma coniugare software sofisticati come quelli dei maggiori videogames con un sistema di transazioni intricato e dispendioso come quello della blockchain non dev’essere proprio una cosa da niente). Eppure…
Eppure, è notizia di inizio novembre che Ubisoft, una delle case di sviluppo più famose del mondo, ha annunciato di voler investire con decisione nell’integrazione dei propri videogiochi con la tecnologia blockchain. Lo stesso ha fatto il presidente di EA, altra celeberrima casa software americana, praticamente negli stessi giorni. In generale, la sensazione è che la prospettiva sia ormai cambiata, e la concezione dell’universo blockchain da parte degli investitori assestata su un altro livello: non più una dimensione promettente ma poco solida, in cui i videogiochi potevano avere un senso perlopiù come accessorio – come veicolo di gamificazione dei suoi strumenti –, ma il campo su cui è destinata a spostarsi la competizione per l’attenzione dei giocatori.
E allora, potremmo forse capovolgere la domanda iniziale di Newton che si chiedeva se sarebbero stati i videogiochi a portare le cripto nel mainstream; specialmente in virtù del fatto che la marcia di avvicinamento di queste ultime verso il grande pubblico, la loro trasformazione da elemento outsider a convenzionale della nostra quotidianità, appare ormai quasi inesorabile e ogni giorno che passa la loro popolarità sembra fare un piccolo passo ulteriore. Piuttosto che farci domande su quale impatto il gaming avrà sulla blockchain dovremmo quindi invertire il ragionamento e riflettere su come questa relazione potrebbe finire per rivoluzionare a fondo la nostra concezione di videogioco. E quali effetti questa rivoluzione potrebbe avere, a cascata, sulla realtà per come la conosciamo.
Quel che è certo è che le compagnie impegnate nel tecnologico paiono già pronte a sfruttare appieno questi cambiamenti con idee che, a sentirle, oscillano fra l’ambizioso e il film di fantascienza. À la Ready Player One. Si prenda Zuckerberg, coi suoi progetti futuristici riguardo il metaverso, ossia un mondo alternativo e digitale – la cui realizzazione, nei suoi piani, sarà guidata da lui e dalla sua azienda – dove saremo tutti invitati a passare il nostro tempo in forma di avatar virtuali. Dalle fattezze cartoonish, morbide e rilassanti. Nel video di presentazione di Meta, una sorta di manifesto delle ragioni per cui l’avvento del metaverso è qualcosa di inevitabile, viene dedicato ampio spazio a due argomentazioni molto convincenti: l’opportunità di espandere senza limiti le possibilità del gaming online, e quella di poter guadagnare dalla creazione e dalla compravendita di contenuti digitali autentici. Ma anche gli attori più piccoli dimostrano di voler puntare in alto. Andando sul sito di Sky Mavis ci si imbatte in proclami che definirei quantomeno ‘un po’ altisonanti’:
We’re nation builders. We buid both the virtual worlds of the future and the infrastructure that makes them possible.
Il videogioco, insomma, è al centro dell’agenda delle aziende che operano e investono sul digitale. Tutti gli indizi sembrano dirci che il futuro vedrà aumentare sempre di più gli investimenti sulla sua saldatura con le meccaniche e gli strumenti della sfera cripto, per sfruttare così la capacità di presa su milioni di utenti desiderosi di rifugiarsi in una realtà diversa, meno minacciosa e più stimolante, ma anche auto-sostenibile economicamente. O almeno, questa è la scommessa che questi grandi attori sembrano decisi a fare.
Cosa vorrà dire questo, concretamente, per il mondo dei videogames, come cambierà la loro natura e la partecipazione intorno ad essi? Ne risulterà accentuata la componente sociale, di strumento che favorisce l’avvicinarsi delle persone e l’instaurarsi di legami, o al contrario finirà per stimolare maggiormente l’indole egoista e speculatrice di ognuno? I titoli del futuro saranno in grado di offrire esperienze realmente immersive e coinvolgenti, verranno ancora sviluppati videogiochi capaci di raccontare una storia, di ingenerare una riflessione nel giocatore, o saranno sempre di più solamente dei vuoti contenitori di meccanismi finanziari? Per avere una risposta a tutte queste domande, oggi indecifrabili, potrebbe essere soltanto una questione di tempo.