I primi passi della sindacalizzazione dei tech worker in Italia
“Le città, il territorio, i rapporti umani e sociali, come abbiamo sentito, stanno per essere investiti da un cambiamento che sarà molto più grande e profondo di quello segnato dall’avvento della televisione. Ma questo cambiamento non è già scritto. Molto dipenderà dal grado di consapevolezza con la quale sapremo affrontare le battaglie decisive di questi prossimi mesi.” L’anno era il 1995 e Sergio Bellucci, allora Responsabile del dipartimento nazionale Comunicazione e Innovazione Tecnologica di Rifondazione Comunista, nato da pochi anni, si preoccupava già da un decennio di ciò che la rivoluzione digitale che stava già travolgendo l’Italia – e il mondo – avrebbe voluto dire per i lavoratori. Già negli anni Ottanta, ha raccontato Bellucci l’anno scorso, da delegato della CGIL presso la Fininvest di Berlusconi aveva cominciato a notare come l’arrivo dei computer stesse sconvolgendo la contrattazione sindacale. Quando l’aveva fatto notare, un compagno del Partito Comunista aveva risposto con un incredulo: “Che cosa stai dicendo? Che dovremo lavorare ai contratti di quelli che lavorano ai computer?” Rispondendo oggi, il sindacalista di lungo corso sa che un contratto collettivo di quelli che lavorano ai computer non basterebbe più: “Non possiamo immaginare di affrontare la trasformazione digitale con la cassetta degli attrezzi del conflitto sul salario o sull’orario — non ci porta più da nessuna parte.”