Fare chiarezza sul reddito di base

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    Quando si parla di reddito di base (RdB) è necessario fare chiarezza circa la proposta, perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro). Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come “la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.

    Le giustificazioni teoriche della proposta, che spaziano dalla ricerca della giustizia redistributiva (Rawls), alla libertà dalla povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), alla riappropriazione dei frutti della cooperazione sociale (Negri), evidenziano come il RdB sia una proposta di redistribuzione (del reddito ed, eventualmente, della ricchezza). Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita postbellica si deve alle componenti autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale ed in un situazione internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al mito fordista, i salari sono stati trascinati e, quando le lotte salariali hanno morso, il modello è saltato.

    Il RdB non va ad intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Vorrebbe, semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Misure come il Rdb possono, forse, rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali, al di fuori di una pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di disoccupazione e precarietà, cercando di miglioralo. Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.

    Diverse sono le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB, a seconda di come è esplicitato: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che definisco incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri), universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto, il Rdb incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza sociale da distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri: la classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland. I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice percepisce già una forma di reddito. L’impresa assume, riducendo il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è il RdB.

    È, inoltre, doveroso ricordare che i paesi che hanno un introdotto un RdB incompatibile si contano sulle dite di una mano monca. La maggior parte delle esperienze concrete si limitano ad un sostegno al reddito, spesso, condizionato. È il passaggio dal welfare state al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare, quindi, vincola i sostegni alla disoccupazione alla dimostrazione di una volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel primo caso, ci si preoccupava che la forza lavoro trovasse un’occupazione; nel secondo, che gli individui abbiamo le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro e poi sarà il mercato a conciliare domanda ed offerta di lavoro.

    In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, vorrei evidenziare due problemi, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è riuscito pienamente ad indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato (cosa successa con l’approvazione, nel settembre 2017, del reddito di inclusione sociale).

    Non si capisce perché il RdB venga proposto sempre in contrapposizione ad altre rivendicazioni: si propone il RdB come risposta all’insicurezza sociale, mantenendo inalterate tutte le altre componenti del sistema che concorrono a creare tale insicurezza. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, ma anche con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante. Ridurre l’insicurezza sociale ad una questione meramente monetaria cancella un po’ di problemi. Si ragiona come se il RdB da solo dia accesso ai beni/servizi e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda finanza e domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione, consumo reale, quantità e qualità del lavoro.

    Personalmente ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita in un quadro più ampio. Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione di tutta legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito (penso, per esempio, alla sanità, all’istruzione, ad una mobilità sostenibile, al diritto all’abitazione, a tutti i servizi sociali che hanno una connotazione di genere, etc.), accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: come “la soluzione” di disoccupazione e precarietà. Una politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. Tali proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salaristi” dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita oggi.

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