Ciao lavoro, ciao. Lavoretti per un futuro senza welfare

I fattorini di Foodora, gli influencer, gli stagisti perenni, i licenziati di Mirafiori e dell’industria del Midwest statunitense, i social media manager, i pedalatori che portano pacchi su e giù per le città di tutto l’Occidente, gli autisti di Uber, i freelance sottopagati e poi addirittura i bigliettai e i cassieri, che vengono progressivamente rimpiazzati da apparecchi automatici: sono questi i nuovi arrivati tra i personaggi della millenaria epopea del lavoro. Certo, in passato ci sono stati attori di questa storia con ancora meno fortuna, come i costretti al lavoro forzato, i servi domestici, i vassalli del periodo feudale o gli schiavi (che a dire la verità ci sono ancora); eppure, ai nostri occhi occidentali, il panorama lavorativo odierno continua ad apparire desolante.

E succede per delle ottime ragioni, in Italia, per esempio, la disoccupazione è all’11% (quella giovanile al 32,7%) e la qualità dei lavori spesso lascia a desiderare. Il mantra contemporaneo (difficile da verificare) vuole che la generazione dei cosiddetti millennial abbia prospettive economiche peggiori rispetto a quelle della generazione precedente, con un’occupazione (questo è certo) più precaria e meno tutelata.

I motivi sono vari: l’automatizzazione di molti mestieri, la delocalizzazione della produzione e la difficoltà, nell’era del web e dell’economia delle piattaforme, di tassare le aziende stanno indebolendo il tessuto economico occidentale. Potremmo prenderla con filosofia, vederla come una ridistribuzione della ricchezza su scala globale (per ora a beneficio quasi esclusivo di Cina e India), ma il risultato a lungo termine potrebbe essere un futuro senza welfare e pensioni, che dal punto di vista politico (quindi sia sociale che economico) potrebbe tradursi in una parola sola: collasso.

A peggiorare la trama della fiaba lavorativa contemporanea c’è anche un lupo cattivo in piena regola, di quelli sfuggenti, ma a cui non si scappa se non a dramma consumato: la possibilità che l’avanzata dell’economia digitale distrugga più lavori di quanti non ne crei, e che quindi non solo la disoccupazione attuale non sia semplicemente l’effetto momentaneo della crisi cominciata nel 2008, ma sia strutturale, l’inizio di un percorso storico che si preannuncia paradossale: con meno occupazione ci sarà bisogno di più sussidi e più welfare, ma ci saranno meno soldi per garantirli.

Il problema sembra nuovo, ma secondo alcuni non lo è per niente: si tratterebbe della caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè il calo della percentuale di capitale guadagnato rispetto a quello investito. Il celebre concetto di economia marxiana secondo cui i continui investimenti nelle macchine (e non nei salari) riducono progressivamente il “valore del lavoro”. Per il barbuto padre del socialismo questo era un effetto diretto della concorrenza: la presenza di più imprenditori sul mercato porterebbe infatti a una diminuzione del plusvalore perché la competizione induce a cercare metodi più efficienti per produrre.

Ed è proprio sul concetto di efficienza economica che i neomarxisti vedono spiaggiata l’inesorabilità del declino dei diritti di chi lavora. Ma torniamo a noi, se ci chiedessimo con fare rigoroso se ci sono delle prove inconfutabili che l’era digitale sarà all’insegna della disoccupazione endemica, dovremmo rispondere di no. Questa è l’obiezione più comune: i cicli economici, sin dalla prima rivoluzione industriale, hanno dapprima automatizzato certe mansioni, rendendo innecessarie alcune categorie di lavoratori, per poi riassorbire successivamente quella disoccupazione (tutta o in parte) creando nuove occupazioni prima inesistenti.

Prendiamo per un attimo per buona questa opzione “ottimista” in cui sì, i mestieri saranno solamente trasferiti su altre mansioni, bisogna comunque domandarsi in quanto tempo e come questo avverrà. Che non sono due variabili da poco.

Oppure, messo da parte l’ottimismo, chiediamoci se una parte di quei lavori siano invece non-riconvertibili, e quindi vadano considerati estinti. In termini pratici toccherà chiedersi se: i vari Napster, Myspace, Soundcloud e Spotify hanno creato più o meno posti di lavoro di quanti non ne abbiano distrutti nei cari vecchi negozi di dischi. Idem con l’informazione online: i nuovi broadcaster hanno eliminato definitivamente una certa mole di occupazioni giornalistiche o siamo solo in una fase di transizione in cui, una volta trovato il modo di far pagare le informazioni via web, quei giornalisti saranno solamente passati dal cartaceo all’online? E così con tutti i tipi di automazione.

Altro esempio: le automobili a guida autonoma elimineranno con tutta probabilità mestieri come autisti, tassisti e camionisti, ma il numero dei lavori scomparsi sarà superiore, inferiore o uguale a quello dei programmatori, ingegneri, avvocati ed esperti di IA assunti per la loro produzione e messa in commercio? Mistero (intanto, però, la tendenza alla gratuità dei servizi e dei prodotti in nome della concorrenza gode di un certo successo, come nel low cost o nella vendita sottocosto di Amazon).

Tutte queste transizioni, che in termini occupazionali siano a somma negativa, zero o positiva, avranno in ogni caso dei tempi: quali? Non si sa, ma abbozziamo questa equazione: più i tempi di transizione saranno lunghi più la politica faticherà a tenere a bada la rabbia dovuta a indigenza e inoccupazione. Insomma, che siano solo scosse di assestamento passeggere o che ci si debba rassegnare a vivere in un territorio perennemente scandito da fenomeni sismici, si rischia che la paura del fenomeno faccia più danni del fenomeno stesso. Le tendenze elettorali favorevoli ai populismi sono, in questo senso, un danno collaterale piuttosto prevedibile che risponde alla logica di non accettazione del peggioramento delle condizioni di vita o della delusione delle aspettative di crescita.

Tra i libri che analizzano il fenomeno della ritirata del lavoro è appena uscito Lavoretti, di Riccardo Staglianò, dove l’autore individua tre periodi simbolo (e causa) della situazione occupazionale attuale. Tre periodi legati a tre tendenze: finanziarizzazione, delocalizzazione e recessione. Il giornalista di Repubblica già autore di Al posto tuo, così web e robot ci stanno rubando il lavoro, indica altrettante fasi storico-economiche che hanno portato al periodo di scarsità lavorativa di cui parliamo. I tre momenti sono il 1979, il 2000 e il 2008.

Il primo è quello in cui la globalizzazione ha iniziato a fare in modo che si delocalizzasse la produzione con una certa facilità (a cui è corrisposta una certa frequenza). Il secondo corrisponde alla finanziarizzazione dell’economia che, scrive Staglianò, “ha cominciato a guardare ai lavoratori con una prospettiva diversa: da risorse a costi fissi”. Il terzo, e ultimo, periodo che ci avrebbe portati al declassamento del lavoro da mestiere a lavoretto, è l’automazione. Quella dei robot, dei computer e delle intelligenze artificiali che hanno permesso all’economia, in molti casi, di fare a meno dei lavoratori umani – o comunque ridurne il numero in modo sostanziale.

Dall’ultima crisi, quella del 2008, verrebbe la cosiddetta gig economy, quella che non ci sostituisce (ancora), ma paga i lavoratori un’inezia (anche quelli che per ora non sono sostituibili nel processo produttivo) e non li riconosce come controparti degne di diritti.

Quando si dice “crisi” si immagina un periodo di stallo, un momentaneo blocco di un meccanismo oliato e ben rodato. Gli oscillamenti economici, visti su un piano diacronico, suggeriscono però che le crisi siano una parte integrante del meccanismo, che esista una complementarietà tra boom e crisi, tra i periodi di grassa e quelli di magra. Insomma, la preoccupazione occidentale non dev’essere quella di un’economia che deve ripartire, perché non è l’economia a essersi fermata, è solo il suo aspetto funzionale ad averla dirottata verso produzioni a est, sedi legali in Olanda, conti alle Cayman, uffici in Irlanda e filiere di assemblaggio in Cina.

È precisamente la performanza economica ad aver fatto sì che i paesi occidentali si siano visti sfuggire da sotto il naso fette consistenti di gettito fiscale e occupazione. Per ora il welfare regge, un po’ come un corpo sano, con tutte le riserve di grasso e vitamine al loro livello ideale, che una volta vista diminuire la razione di cibo quotidiana si adatta, stringe la cinghia, limita gli sforzi, rimane in forma nonostante qualche calo di zuccheri. Ma sul lungo periodo si delinea la preoccupazione di arrivare a un limite fisiologico sotto il quale il corpo si ammala, e con la salute del corpo non si scherza, perché da quella dipende quella mentale.

Come invertire la tendenza e far aumentare il cibo? Come attrarre capitali? Come convincere Tim Cook a versare le tasse e non minacciare l’Europa (facendo leva proprio sull’occupazione) quando la sua azienda viene multata per 13 miliardi di euro per evasione fiscale? Come convincere l’Irlanda, il Lussemburgo, Cipro, l’Olanda e molti altri stati e staterelli a smettere di cavalcare un difetto strutturale dell’economia globalizzata? Convincere i pochi che guadagnano da un problema a considerarlo tale è difficile.

Quindi? Quindi l’economia si è trovata alle strette, ed è per questo che è nata la sharing economy, un mercato che ha cercato nuove vie nell’ottimizzazione del già esistente, un modo funzionalista di vedere le possibilità di mercato che però lascia i problemi dell’occupazione e del gettito fiscale tristemente irrisolti. La sharing economy (per i nemici anche “gig economy”) è decollata, ma le sedi sono a San Francisco, gli uffici a Dublino e nonostante giganti come Facebook o Google facciano introiti in paesi come il nostro, le tasse non ci sono. In breve: un’economia che ha nel DNA la tendenza ad avviare minuziose ricerche per trovare “nuovi mercati” si è spinta fino a cannibalizzare la lotta agli sprechi, e mettere a profitto le stanze per gli ospiti, i salotti, i sedili vuoti della nostra macchina durante i viaggi fino al cibo che abbiamo comprato, ma non useremo. L’economia della condivisione, che in teoria sarebbe ideale perché verde e a misura d’uomo, de facto non lo è perché la sua fortuna va a scapito del reddito e della sostenibilità dello stato sociale.

Ecco che anche se l’economia e la tecnologia galoppano, c’è qualcosa che rimane indietro ed è proprio il lavoro inteso come quantità e qualità delle mansioni svolte da esseri umani. Occupazioni che in nome della dinamicità, essenziale per qualsiasi azienda in tempi di competizione globale, si precarizzano, diventano instabili, e così chi lavora si ritrova sul filo del ricatto: o precario o disoccupato. Questo ricatto (con buona pace della sinistra e degli slogan anti-padroni) non lo ha deciso qualcuno a tavolino, è arrivato da sé: per quanto paradossale l’economia e la tecnologia, oltre che creare lavoro, ne hanno anche eliminato. Di nuovo: non si sa se si tratta di una sparizione di una fetta di occupazione o di una transizione (la questione è così discussa e banalizzata che in questo sito della BBC potete controllare che percentuale di rischio di sostituzione ha il vostro mestiere), intanto però Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, entrambi economisti del MIT, hanno calcolato che per ogni nuovo robot introdotto in fabbrica ogni mille lavoratori, almeno in sei perderanno il posto e i salari si saranno ridotti dello 0,75 per cento.

Affrontando qualsiasi aspetto di questo enorme discorso che comprende tecnologia, occupazione ed economia delle piattaforme si rischia di rientrare in due calderoni uguali e contrapposti: quello pessimista e quello ottimista. Due poli opposti dove da un lato siedono i catastrofisti, che, una volta abbandonato il beneficio del dubbio e la complessità degli argomenti economici, tagliano corto cercando di riportare in auge la lotta contro le macchine, versione lucidata (ma comunque luddista e arcaica) della lotta contro i “padroni”. Dall’altra parte invece i sorrisi perpetui e inscalfibili degli ottimisti perenni che al principio di realtà hanno sostituito gli slogan motivazionali da marketing, quelli che etichettano come paranoica qualsiasi ipotesi sui rischi dell’attuale rapporto tra nuove tecnologie e società. Come spesso accade, è nella moderazione tra le due posizioni che si riescono a contemplare costi e benefici, aspetti positivi e negativi che risultano, come al solito, essere complementari.

Alcune soluzioni concrete esistono, e sono partorite soprattutto nel Regno Unito, dove si discute, per esempio, dell’idea di Corbyn di stabilire per legge che fino a prova contraria un lavoratore sia sempre dipendente (e quindi tutelato) in modo da obbligare i giganti delle piattaforme a garantire ai lavoratori i diritti per cui i sindacati hanno già vinto in passato.

Più a monte, nonostante la moderazione e l’ottimismo, il sapore che lascia la lettura di questi temi è amaro e determinista: come se oggi avessimo molto, ma fosse destinato a sgretolarsi. Come se il massimo dell’utopia che ci possiamo permettere immaginando il futuro è che tutto resti immutato, una specie di dieta di mantenimento – che poi non è altro che la tanto detestata austerità. Ma per la stessa specie animale sognatrice che ha inventato Dio e la metafisica arrendersi al presente è insopportabile, così il rischio rimane quello di uno scontento in crescita da parte di chi pur di sognare in grande immagina sovranismi, guerre contro Bruxelles e rimpatri di massa.

In questo contesto in cui il vento della storia sembra esserci avverso, ideologie totalizzanti come ottimismo e pessimismo non sembrano essere utili, servirebbero accordi, regolamentazioni, piani per lo sviluppo e diplomazia efficace. Per usare le parole di Staglianò: “una soluzione dev’esserci, ma non cadrà dal cielo”.