Dalla città funzionalista alla città foresta

Pubblichiamo un estratto da Il giardino biopolitico. Spazi, vite e transizione (Donzelli). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Più volte, osservando i disegni del suolo della Ville Radieuse o, ancora, osservando gli schizzi di Hilberseimer o di Alvar Aalto, mi sono chiesta le ragioni di queste rappresentazioni e mi sono soprattutto chiesta di cosa concretamente fosse fatto il «vuoto» della città moderna e, infine, in che senso questo «vuoto» avesse a che fare con l’approccio funzionalista o, meglio, se esistesse una qualche coerenza tra la forma dello spazio aperto e l’idea di funzione. In modo più allargato, questo ragionamento mi ha portato a dubitare della possibilità di dare un’interpretazione dello spazio urbano moderno e pre-moderno sottovalutando l’importanza delle idee, delle forme di rappresentazione dello spazio aperto.

Detto altrimenti: comprendere la città richiede di affrontare contemporaneamente differenti piani di riflessione, ben al di là del rapporto semplificato figure-ground.

Non esiste ancora una storia della città e del territorio che nasca dal far procedere parallelamente la trattazione degli aspetti più rilevanti di ciascun piano e di ciascun punto di vista.

In modo limitato e prendendo come campo quello definito dagli schizzi di Le Corbusier1Charles Jencks (2000), in particolare la terza parte Back to Nature. , o dalle immagini di villa Savoye, le mie considerazioni partono dalla constatazione di qualcosa di mancante, di espunto dal quadro e sono seguite dall’ipotesi che l’interpretazione corrente delle superfici a «verde» contenute nei disegni degli architetti e degli urbanisti del Movimento Moderno – il «verde» come dispositivo di separazione delle funzioni e funzione esso stesso, spazio del loisir e dello sport attrezzato per le diverse età – sia ancora insufficiente a chiarire le ragioni della loro presenza. Esistono altre ragioni che allargano la comprensione del loro ruolo e che riportano, ancora una volta, al funzionalismo.

Un vuoto utilitaristico e funzionale

Come ho già scritto, mantenendo separate le due riflessioni che da sempre orientano la costruzione della città e del territorio, quella urbanistico-architettonica e quella sul paesaggio e sull’ecologia del paesaggio, è molto difficile, se non impossibile, capire in profondità le ragioni dello spazio moderno e non solo. Molto è stato scritto in questi anni su questo tema, ma qualcosa può ancora essere aggiunto.

Se Constant oppone la città del gioco alla città utilitaristica, conviene forse capire meglio in che senso il «vuoto» della città moderna possieda i caratteri di spazio utilitarista e funzionale. Neologismo inglese introdotto da Bentham (utilitarian, 1781) per descrivere la sua nuova filosofia dell’interesse generale, «utilitarista» venne immediatamente, e anche oggi, utilizzato in senso peggiorativo, molto distante dagli obiettivi filosofici che Bentham si proponeva2«La reconnaissance, comme critère du bien et du mal, du plus grand bonheur pour le plus grand nombre, chacun comptant de manière égale (Bentham 1789)» (Cassin 2004, p. 1334). Come cerca di precisare J. S. Mill in Utilitarianism (1863), il tentativo è quello di tro- vare un principio morale, in grado di sostituire l’opinione, l’interesse particolare, il potere e che consenta di distinguere tra il bene e il male. In questo senso «L’utilità è collettiva o non è» (ibid., p. 1335). . Qualche anno dopo la pubblicazione di An Introduction to the Principles of Morals and Legislation (1789) Humphry Repton, nel suo trattato An Enquiry into the Changes of Taste in Landscape Gardening (1806), sostiene il principio utilitarista e funzionale nell’organizzazione del parco e del giardino3«Park and gardens a sconvenient extension of the social space of their houses are typical of the Reptonian philosophy. Fanny Price “admiration of the Grants” shrubbery (“it would be difficult to say whether most valuable as a convenience or an ornament” (p. 174), and the musing on change and memory which gives rise to, share Repton’s confidence that good design makes a social and moral appeal to the understanding», nota 2 al cap. VI di Kathryn Sutherland a Austen (1996). .

Estensione dello spazio sociale dell’alloggio, spazio utile e funzionale a molte pratiche individuali e collettive, utile anche perché produttivo: il verde funzionale si carica di tutti questi significati. Ad essi va aggiunta la riflessione sul funzionamento dello spazio naturale in senso ecologico, un aspetto, questo, non ancora sufficientemente approfondito. Non si tratta soltanto dell’idea di connessione ecologica che viene messa a punto e utilizzata in molti progetti di città funzionale, a partire dal piano della Grande Berlino di Jansen (1910)4Secondo un approccio pienamente moderno, Jansen introduce principi di organizzazione funzionale nel disegno della città, come sistema di funzioni sociali, tecniche e biologiche. Si veda Borsi (2015).  o della Grande Helsinki di Saarinen (1918) e non si tratta solo del ruolo importante di alcuni paesaggisti come Leberecht Migge nella progettazione delle più interessanti siedlungen tedesche degli anni venti (Haney 2010), ma di una svolta più profonda nella concezione dello spazio e del ruolo della Natura nella città moderna che partecipa in modi del tutto coerenti all’ideologia funzionalista, all’idea di costruzione di una società diversa ispirata dal paradigma evoluzionista.

La ricostruzione della Natura

Le più importanti esperienze di costruzione della città moderna, la città socialdemocratica svedese (tra queste le realizzazioni a Stoccolma negli anni trenta) e i progetti legati al Piano di Amsterdam di van Eesteren, sono legate a questa svolta. Il parco funzionalista si propone di esprimere il nuovo sistema sociale utilizzando una nuova idea di Natura.

Il parco svedese tra fine Ottocento e primi Novecento è influenzato dalla tradizione tedesca di percorsi ondulati e di orticultura, a sua volta riduzione della tradizione e semplificazione del parco inglese. Sono i botanici come Rutger Sernander (1866-1944, tra l’altro anche geologo e archeologo) a riflettere sulla necessità di uno spazio verde, di un parco più in accordo con le forme del paesaggio esistente. Attorno all’idea del ritorno della natura in città si forma la Scuola di Stoccolma (Andersson 2002) che avrà grande influenza sul disegno dello spazio aperto moderno europeo.

Nelle proprie realizzazioni essa segue due direzioni fondamentali. La prima è fortemente aderente ai luoghi, all’individuazione delle loro possibilità, all’esaltazione delle loro potenzialità. Le condizioni interne e specifiche di ciascun sito sono sfruttate «con enfasi e semplificazione». La seconda riguarda il comfort, la ricreazione, il piacere: in questo senso il parco è utilitarista, il bene per il maggior numero di persone considerate come eguali. Per Erik Glemme, chief designer del Park Department di Stoccolma dal 1936 al 1956, o per Holger Blom, urbanista e direttore dei parchi di Stoccolma dal 1938 al 1971, il programma sociale del parco è importante tanto quanto quello naturale e riflette la convinzione che la città sia un’istituzione profondamente democratica.

La differenza tra parco all’inglese e parco funzionalista veniva così stigmatizzata: se William Kent poteva scrivere «all Nature is a Garden (Horace Walpole, alla metà del XVIII secolo)», per il movimento funzionalista svedese degli anni trenta «all gardens are Nature». Questa citazione contribuisce a chiarire anche la precedente riguardo all’enfasi e alla semplificazione: il parco funzionalista svedese ricrea in luoghi marginali e in modi rafforzati (enfatici) le caratteristiche del paesaggio regionale dentro la città. Ricostruisce la Natura là dove essa non esiste più e lo fa attraverso i suoi archetipi: il terreno roccioso dell’arcipelago, la foresta di pini, paesaggi semplici che riappaiono dentro la città.

Si conclude la stagione del parco come orticultura e collezione di specie; si apre la stagione del parco come ricostruzione della natura all’interno dello spazio abitabile, non più separata da esso. In questo percorso anche la terza delle tre nature declinate da John Dixon Hunt – il giardino – scompare, lo spazio verde si infiltra nella città, non stabilisce alcuna distanza con essa, diventa parte integrante del tessuto urbano5 Come chiarisce in modo eloquente il titolo del bel saggio di Andersson, il contributo originale dato dalla cultura svedese all’elaborazione dello spazio della città funzionale è «the explicit utilization of a natural landscape as a garden or a park»  e spazio attivo nel quale si collocano molte delle pratiche dei suoi abitanti.

La foresta assume un nuovo ruolo nel progetto dello spazio verde, reso possibile in Svezia dal senso profondo della natura che pervade la cultura nordica nella quale la foresta è luogo da abitare e non da fuggire, più calmo e sicuro della città6.

Nei parchi Fredhäll (realizzato tra il 1936 e il 1938) nel centro di Stoccolma e Norr Mälarstrand (1941-43), una fascia larga solo 15 metri lungo il lago Mälaren che gli abitanti di Stoccolma ritengono essere un’area naturale preservata dentro la città e invece è il risultato di un progetto di ricostruzione della natura, si rappresenta una nuova idea di città funzionale, in senso ecologico e spaziale.

La funzione rappresentativa del parco non si perde nel progetto moderno, soprattutto negli esperimenti più interessanti e consapevoli come ad esempio la realizzazione del bosco di Amsterdam, elemento centrale del piano di van Eesteren, su terreno conquistato al mare e trasformato in nuova Natura.

Jacobus Pieter Thijsse, biologo nato a Maastricht nel 1865 (Woudstra 1997), attento alla conservazione delle ultime aree naturali rimaste e propugnatore del giardino naturale, influenza profondamente il disegno del bosco di Amsterdam di van Eesteren e Mulder (Daalder 2003). A fine Ottocento, l’apprezzamento della wilderness non apparteneva alla cultura olandese: gli ultimi disboscamenti delle foreste native sono del 1870, le bonifiche riducono drasticamente le aree paludose, il Piano per Amsterdam di Niftrik del 1866 che propone un sistema di parchi viene rigettato. Thijsse, senza rivestire le sue ricerche di coloriture ideologiche del tipo di quelle che negli stessi anni stavano crescendo in Germania, dà inizio insieme a Eli Heimans ad un lungo lavoro di ricognizione e recensione degli elementi naturali rimasti e alla pubblicazione della rivista «De levende natuur» (Natura vivente) che popolarizza il tema della natura. Elabora l’idea di instructieve plantsoenen, parco istruttivo da realizzarsi in ogni città per portare ogni cittadino a fare esperienza della natura (Woudstra 1997).

È con Berlage e il Piano per Amsterdam sud che la discussione sul progetto di una struttura di spazi aperti si estende alla discussione pubblica; Thijsse partecipa con articoli nei quali chiede la realizzazione di parchi e di una grande foresta a sud della città. Essa è inclusa nel nuovo Piano di Amsterdam dopo che, nel 1921, il territorio urbano era stato ampliato da 2100 a 17 500 ettari e una modifica al Woningwet aveva allargato la competenza del Piano non solo ad aree residenziali e strade, ma anche alle aree verdi.

Una Boschcommissie dettaglia i requisiti del nuovo parco, dapprima cercando riferimenti in altri paesi, essendo il progetto di un nuovo bosco ricreativo del tutto originale in Olanda, chiarendone il fondamentale ruolo sociale e prescrivendo, sotto l’influenza di Thijsse, l’utilizzo di specie vegetali autoctone e la proporzione 1:1:1 tra prato, acqua, bosco. Con l’apporto di Jacoba Mulder, J. L. Smit e l’appoggio di J. T. P. Bijhouwer, chairman della Società dei paesaggisti olandesi che introduce lo slogan «back to nature and native art», Cor van Eesteren, urbanista, realizza il primo grande progetto di spazio verde moderno (il disegno definitivo è del 1935).

L’approccio che guida la costruzione del progetto coniuga il principio funzionale (i diversi programmi presenti nel parco) e l’attenzione alle funzionalità ecologiche. Non solo le diverse attività danno forma al parco, ma le piante contribuiscono alla bonifica dei terreni, il sistema di drenaggio si appoggia a tutti i segni d’acqua esistenti e creati, dai fossi ai ruscelli, ai bacini, ai laghi, consentendo lo sviluppo di processi biologici e della biodiversità.

Reinterpretazione del parco inglese, l’Amsterdambos è stato definito «the definitive democratic city park of the twentieth century»6Alan Tate, citato da Remco Daalder (2003). Si veda anche http://www.amsterdam. info/parks/amsterdamse-bos/history/. ed è una delle espressioni più importanti di un funzionalismo allo stesso tempo ecologico e spaziale.

Alla base dei due progetti di spazio moderno si trova l’idea che un ecosistema «funzioni» e che le funzioni ecosistemiche siano da mettere in relazione alle sue parti costitutive, al loro ruolo e qualità e ai loro effetti sugli stessi ecosistemi, concetti derivati da autori come Darwin e Charles Elton7Charles Darwin, The Origin of Species (1859); Charles Elton, Animal Ecology (1927). . La possibilità di costruzione di nuova natura e di uno spazio aperto e verde nel quale abitare trova in alcune esperienze iniziate negli anni cinquanta del Novecento e proseguite nei decenni successivi alcune realizzazioni esemplari.

La città foresta

L’influenza del modello di città giardino nel dibattito sulla città del futuro, sulla città sostenibile e della transizione ecologica è ancora oggi enorme. Nonostante le critiche delle quali è stata fatta oggetto nel corso del tempo, rimane un riferimento chiave nel discorso contemporaneo sulla città, mostrando una resilienza concettuale che, come sempre, sollecita l’approfondimento. Nel contesto di questo libro, la sua comprensione nei termini di spazio biopolitico fa del modello della città giardino un caso esemplare della reform economica, sociale e corporale moderna. Molta letteratura recente si è adoperata a rivelare lo spesso strato biopolitico incorporato nel suo progetto. L’ideologia della salubrità naturale della campagna, o della natura come sorgente di salute, ricchezza, conoscenza, è contrapposta alla degenerazione urbana e all’indebolimento della nazione, fino a legittimare la scelta di tipi di materiali e di architetture (Clevenger – Andrews 2017).

Tapiola, città giardino, sobborgo nel verde, residenze d’autore, è una città foresta realizzata a partire dagli anni cinquanta del Novecento a Helsinki. È un luogo di elevatissima e diffusa qualità architettonica e ambientale, è un monumento e di questo ha pregi e difetti. È anche un luogo contemporaneo dell’abitare, abitato come si abita un monumento. Tapiola oggi è diversa dalla città costruita negli anni cinquanta e sessanta: immaginata nel secondo dopoguerra entro un orizzonte di scarsità – scarsità di alloggi, di risorse economiche, di materiali – è ora inserita in una delle aree più vivaci e ricche della Finlandia, la città di Espoo, della quale rappresenta solo una parte assai modesta.

Pianta della città di Tapiola, 1968, Ufficio di pianificazione di Espoo (Tuomi 1992).

Eliel Saarinen, Bertel Jung, decentralizzazione organica della grande Helsinki, 1918 (Saarinen 1958). Otto Meurman, Pianta di Käpylä, 1920-1925 (Tuomi 1992).

 

Ciclicamente, la cultura architettonica e urbana torna ad osservare Tapiola, ogni volta chiedendosi, come si chiese in un importante seminario nel 1967 a Helsinki, cosa abbia da insegnare. In quell’occasione la critica alla città foresta fu radicale e si rappresentò nel corso degli anni settanta e ottanta in alcuni interventi che negavano un particolare, ma fondamentale aspetto di Tapiola: il suo spazio.

Da allora la cultura architettonica e urbanistica è tornata ad interessarsi di Tapiola in diverse occasioni: per criticarla, alla fine degli anni sessanta, per occuparsene in quanto patrimonio8Icomos, Dangerous Liaisons. Preserving Post-War Modernism in City Centers, Confe- renza, 15-17 febbraio 2001, Helsinki, in particolare si veda il testo di Mustonen Tapani (2001). 10 Il convegno che ha accompagnato la celebrazione del cinquantenario aveva per titolo: Roots and Seeds of the Garden City, in www.weegee.fi/tapiola50., per ricordarne a distanza di cinquant’anni la fondazione avvenuta nel 19539Paolo Sica descrive il piano di Saarinen come la prima applicazione dell’idea di città giardino ad una grande città (Sica 1985)..

Oggi Tapiola sopravvive al proprio mito e testimonia di un periodo nel quale il quotidiano aveva assunto una dimensione eroica. Tornare a Tapiola oggi significa indagare uno spazio sperimentale, innovativo, e ripercorrere un episodio rilevante di una lunga tradizione di riflessione sulla «Reverse City» (Viganò 1999). […]

Il progetto di Tapiola, nel quale si realizzano le teorie di Otto Meurman (allievo di Saarinen ed esponente con quest’ultimo del movimento definito «social city», Deland 2001), è fortemente voluto da Heikki von Hertzen alla guida della Finnish Population and Family Welfare Federation. Obiettivo della fondazione è la promozione di insediamenti dispersi, salubri e variegati.

Nel pamphlet Case o baracche per i nostri bambini? (Koti vaiko kasarmi lapsillemme), pubblicato nel 1946, von Hertzen addita come negative le situazioni urbane tradizionali e tra i quartieri di Helsinki segnala il buon esempio di Käpylä, progettata da Meurman. Un team interdisciplinare è ideato per l’occasione: si tratta di urbanisti, architetti, paesaggisti, ingegneri, esperti di economia domestica, sociologi, avvocati.

Nel 1945 Meurman predispone un piano per 12000 nuovi abitanti a Hagalund sulle terre che saranno poi acquistate dalla Finnish Population and Family Welfare Federation. L’idea è quella di insediare una nuova città giardino composta di cellule residenziali alle porte di Helsinki, a questa collegata da una linea di tram. Alcuni percorsi utilizzati durante la prima guerra mondiale per il trasporto di artiglieria forniscono il tracciato delle nuove strade. La loro localizzazione nel primo nucleo di sviluppo, ad est, è tra le ultime parti del progetto ad essere definita. Il problema di minimizzare i costi porta ad evitare il passaggio su letto di roccia e quindi a collocare le strade su fasce sabbiose, con- sentendo il facile passaggio degli impianti a rete. Secondo il progetto di Meurman le fasce laterali dovevano appartenere alla collettività.

Nel 1952 Arne Ervi, Viljo Revell, Aulis Blomstedt e Markus Tavio sono coinvolti nel disegno degli alloggi e di alcune parti di Tapiola. Il gruppo aveva anche un ruolo di primo piano nel programma di ricostruzione del dopoguerra10Il problema grave e urgente riguardava la vicenda dei 400000 finlandesi esuli dalla Carelia divenuta sovietica. ed era interessato a sperimentare processi di prefabbricazione e di standardizzazione dell’edificio. Il rapporto con Meurman sconta il salto generazionale: all’idea romantica delle case basse nel bosco, gli architetti, influenzati dall’opera di Le Corbusier, contrappongono l’uso di edifici pluripiano, nuovi punti di riferimento nel paesaggio. Meurman, scrive Riitta Nikula, «thought a good town could be built by organizing basic everyday needs in a sensible way» (1993, p. 140) ed è proprio questa aderenza al quotidiano, la mancanza di enfasi e di emergenze, la cura nella scelta del luogo, l’attenzione al microclima che saranno fortemente criticate a partire dalla fine degli anni sessanta.

La necessità di alloggi di piccole dimensioni, la diminuzione del numero di case a schiera e di case isolate previste nella prima parte del progetto inducono Meurman, che non condivide le scelte e le modifiche apportate, a rassegnare le proprie dimissioni. Il suo ruolo viene affidato a Martti Välikangas, il progettista delle case di legno di Käpylä.

Dopo la rinuncia di Meurman, nel 1954, Aarne Ervi propone di spostare lungo il margine orientale la strada principale che avrebbe dovuto attraversare da nord a sud Tapiola, evitando il traffico a prossimità delle aree residenziali. Questi e altri cambiamenti lasciano la prima parte degli insediamenti priva di strade locali, aspetto che sarà successivamente criticato e che legittimerà il ricorso ad impianti insediativi organizzati da una chiara griglia ortogonale.

Aarne Ervi, progetto per il centro di Tapiola, 1967 (Tuomi 1992).
Juutilainen, Mikkola, Kairamo, Pallasmaa, progetto per l’estensione per l’estensione del cen- tro di Tapiola, plastico A, 1967 (Aa.Vv. 1973).

 

Lo stesso Ervi vince nel 1954 il concorso per il centro di Tapiola ispirandosi a St. Dié di Le Corbusier e al modello del civic centre delle new towns inglesi. Una piazza coperta, un centro commerciale, uffici affacciati su un lago artificiale: alle critiche per la mancata densità nel centro di Tapiola Ervi risponde di avere cercato di mantenere l’atmosfera della garden city e la flessibilità per futuri interventi. Nel corso degli anni sessanta matura l’idea che Tapiola possa diventare un polo regionale più importante e, insieme, che le aree limitrofe a Helsinki debbano essere abitate più densamente. I vincitori del concorso del 1967 per l’estensione del centro (Juutilainen, Mikkola, Kairamo, Pallasmaa) affermano la necessità di affiancare il vecchio centro con uno nuovo ispirato allo strutturalismo architettonico anglosassone e olandese (in particolare ai progetti di Van den Broek e Bakema). Anche in questo caso, come nel progetto per la parte settentrionale di Tapiola, vinto da Pentti Ahola nel 1958, è la griglia ortogonale ad organizzare l’insediamento.

Il nuovo centro si realizza nel corso degli anni settanta man mano distanziandosi, non solo dalla città giardino, ma anche dal progetto di concorso, diventando luogo di conflitti e di contraddizioni. Alla fine degli anni ottanta, sul sito del teatro indicato da Ervi, l’Espoo City Cultural Centre è realizzato da Arto Sipinen.

Il supporto ideologico abbondantemente fornito da Heikki von Hertzen e l’insistenza sulle funzioni biologiche del progetto urbanisti-co contribuiscono alla realizzazione di una situazione insediativa unica. La foresta è lo spazio di una natura che protegge e accoglie, è spazio mitico e insieme attuazione del progetto biopolitico moderno.

 

Immagine di copertina da Unsplash di Elimende Inagella