Crowdfunded Journalism. È la stampa bellezza

La buona notizia è che, a oggi, si è già trovato un modello che renda l’informazione sul web economicamente sostenibile per la società editrice; la cattiva notizia è che questo modello è quanto di più lontano dal giornalismo di qualità si possa immaginare: redazioni ridotte all’osso; una pletora di giornalisti freelance affamati (più o meno metaforicamente) che scrivono articoli a velocità inaudite, per compensi irrisori e senza mai muoversi da casa. La priorità assoluta è quindi data ad articoli potenzialmente virali da dare in pasto alle centinaia di migliaia di fan su Facebook, conquistati tramite campagne acquisti condotte puntando sul pubblico il più generalista possibile.
In seconda battuta, la competizione tra le testate più agguerrite si trasforma in una lotta per conquistare il migliore piazzamento su Google e monetizzare così il più possibile gli articoli “SEO-oriented”.

Un modello sostenibile, che quantomeno ha garantito a una generazione di freelance, che si è vista sbattere in faccia le porte dei grandi quotidiani, di lavorare e, a volte, mettere insieme un vero stipendio. Ma se nessuno di questi giornalisti del web esce di casa (che è un lusso che non ci si può concedere), le notizie da dove saltano fuori? In parte dai canali classici, ovvero selezionando e riaggregando quello che esce sulle agenzia di stampa; dal web stesso, visto che lo spostamento della comunicazione dei politici su Facebook e Twitter agevola parecchio il lavoro; lanciando nel mare di internet opinioni il più possibile forti e controcorrente in modo da farle circolare e condividere; ma anche cannibalizzando le testate storiche, quelle che ancora escono su carta, che ancora hanno i reporter sul posto e che quindi sono in grado di fornire notizie di primo mano. Il problema, evidentemente, è che questo modello non può essere a lungo termine: più i giornali chiudono a causa dell’informazione online gratuita, più per l’informazione online gratuita è difficile reperire notizie da riciclare. Senza contare che il modello virale basato sulle visualizzazioni a ogni costo, alla lunga, stanca e assuefà il pubblico (e alcuni trucchetti da Facebook a base di “Clamoroso! Clicca qui” hanno già il fiato corto).

Il problema, però, è che questo modello è l’unico che al momento si sia dimostrato sostenibile: costi bassi nella produzione della notizia, numero esorbitante di articoli prodotti, milioni di pageviews, introiti pubblicitari sufficienti a sostenere la macchina. Tutto il resto, per ora, è un fallimento: il paywall (il piccolo obolo da versare via paypal o altro per leggere integralmente un articolo che si è reputato interessante) si è dimostrato un muro insormontabile ed è stato abbandonato da quasi tutti; le edizioni digitali dei cartacei stanno iniziando a macinare (stando almeno ai numeri noti finora, da prendere molto con le pinze), ma sono assolutamente insufficienti a coprire le perdite della carta stampata (anche se sarebbe necessario un approfondimento sul numero di copie cartacee che una sola copia digitale copre, stante la differenza enorme di costo di stampa e distribuzione e il prezzo di vendita pressoché uguale). E infine la trasformazione della rivista in un “brand”, da tenere sottobraccio per esibire l’appartenenza a una certa comunità, che può funzionare per determinati mensili, settimanali, anche quotidiani molto connotati (l’esempio classico è quello di Internazionale), ma è congeniale a un numero molto limitato di testate di carta e può essere semmai complementare al web.

Anni passati a spaccarsi la testa per trovare un modello sostenibile per il giornalismo di qualità, in un mondo online che sta lentamente uccidendo la carta stampata, non hanno ancora portato risultati definitivi. Nel frattempo le testate native digitali dal marchio più forte chiudono i bilanci con passivi pesantissimi e i giornalisti freelance cercano di resistere all’estinzione nell’attesa che il cubo di Rubik sia finalmente risolto.

L’unica certezza è che si continua a sperimentare e che alcune di queste sperimentazioni stanno dando risultati. Qualche luce in fondo al tunnel inizia a intravedersi. Uno dei casi più celebri è quello di Mediapart, testata online francese che ha nel giornalismo investigativo il suo fiore all’occhiello. Fondata da Edwy Plenel dopo 25 anni a Le Monde (di cui 8 da direttore) assieme ad  altri soci, Mediapart è riuscita nella missione impossibile per definizione: convincere una platea sufficientemente consistente a pagare per leggere articoli su internet. Più di 100mila persone pagano 90 euro l’anno per leggere le inchieste su un sito che può permettersi una redazione di trenta giornalisti pagati con lo stesso stipendio che prendevano nelle testate tradizionali di provenienza. Niente video di gattini, niente soubrette alle prese con abiti dispettosi, niente pubblicità che “spinge verso il basso la qualità per raggiungere l’audience più ampia”, come ha raccontato Plenel nel suo intervento al Festival di Internazionale la scorsa estate.

Il trucco sta tutto nella creazione di reportage e inchieste interessanti da leggere (è stato Mediapart a fare lo scoop dello scandalo Bettencourt sui finanziamenti segreti a Sarkozy, per dirne uno). Pagando un euro si ha accesso al sito per un mese e mezzo, dopodiché nove lettori su dieci decidono di estendere l’abbonamento all’intero anno. Il risultato è che  nel 2013 Mediapart ha fatto segnare utili del 15% e ha fatto anche registrare il sorpasso simbolico su Le Figaro, al netto delle copie omaggio. Soprattutto, ha dimostrato che una via per guadagnare con il giornalismo investigativo, con pezzi lunghi e seri, senza cedere ad alcun compromesso da “colonna destra” esiste anche online. Quella seguita da Plenel è una strada, quella che ci si era immaginati fin dall’inizio senza che nessuno riuscisse a renderla profittevole. Un solo caso di successo, a fronte di centinaia di insuccessi, alcuni dei quali  clamorosi (chi si ricorda di The Daily, il quotidiano per iPad pensato da Rupert Murdoch e chiuso dopo una brevissima esperienza?).

Al di là di casi che rimangono, per il momento, un unicum, il problema per editori e giornalisti freelance è sempre lo stesso: perché pagare per un reportage dalla Siria quando rilanciare un tweet di Gasparri che dice assurdità su Vanessa e Greta garantisce molte più pageviews a costo (quasi) zero? Finché il modello è solo quello pubblicitario, non c’è via d’uscita.

Allo stesso tempo, però, non si può ignorare che c’è un numero importante di persone che vogliono leggere reportage e inchieste. Un numero forse non sufficiente a convincere un editore a sborsare una cifra molto alta per pubblicare quel reportage, ma un numero che può bastare a raccogliere i fondi necessari affinché il freelance si paghi il biglietto aereo, indaghi laddove deve indagare, si prenda il suo tempo per scrivere e infine pubblichi. Dove quell’articolo sarà pubblicato, a questo punto, è secondario, perché i lettori che quell’articolo leggeranno saranno in linea di massima quelli che lo hanno finanziato.

Se mille lettori potenziali non possono essere sufficienti a convincere un editore online a sborsare 5mila euro per un reportage dalla Siria, quello stesso numero può essere però sufficiente a realizzare quello stesso reportage nel momento in cui ognuno di loro si impegna a versare in media 5 euro. Il modello, evidentemente, è quello del crowdfunding. Applicato al giornalismo diventa il crowdfunded journalism, ormai anche noto come Kickstarter journalism, visto che è la piattaforma regina della raccolta fondi – Kickstarter, appunto –  a essere stata utilizzata per prima come mezzo sistematico per ottenere i finanziamenti necessari.

Nel 2014 sono stati finanziati via Kickstarter più di 200 progetti legati al giornalismo: nuove testate cartacee, testate online, radio, foto-reportage, riviste studentesche e, soprattutto, inchieste e reportage. 4.200 dollari raccolti da una sessantina di “backers” per permettere a due reporter di raccontare il lavoro delle ong che si occupano di seguire i bambini traumatizzati di Gaza; 8.500 dollari raccolti da 138 supporter per documentare la scomparsa del Rio Grande; 1.500 dollari raccolti da un sessantina di persone per raccontare la miseria negli Stati Uniti viaggiando nelle cinque città più povere degli USA (Beatyville, KY; Tchula, MS; Jamestown, TN; Yanceyville, NC e Campti, LA).

Un modello dal basso, che permette di avere una somma giusta a disposizione per un lavoro ambizioso. Il limite sta semmai nella disorganicità e nella confusione del metodo crowdfunding applicato al giornalismo su Kickstarter: una marea di progetti, il cui successo è legato più o meno al caso (alcuni che a una prima occhiata sembravano validissimi non hanno raccolti i fondi necessari, altre volte va al contrario), di cui spesso non si sa nemmeno dove saranno pubblicati e che, in caso di pubblicazione su un blog (cosa che ovviamente avviene spesso), potrebbero avere poco più lettori degli stessi sottoscrittori (o addirittura meno, visto che versare 2 dollari richiede molto meno tempo della lettura di un articolo long-form). Insomma, il giornalista viene pagato per fare il suo lavoro, e questo è l’aspetto positivo, ma poi questi articoli chi li legge, dove appaiono, che valore hanno?

Un limite strutturale, che viene però superato nel momento in cui si accede a Beacon Reader, la fusione tra un magazine online e una piattaforma di crowdfunding. Il meccanismo non è molto diverso: il giornalista si iscrive alla piattaforma, descrive qual è il suo ambito di interesse e il suo progetto e aspetta che la raccolta fondi abbia raggiunto il 100% permettendogli di iniziare il lavoro. La differenza è che i sottoscrittori supportano direttamente il giornalista (con un abbonamento annuale che va dai 5 ai 25 dollari al mese), ma pagando questa somma si sbloccano tutti i contenuti pubblicati su Beacon. Visto il meccanismo, viene da chiedersi se non era più semplice creare un semplice abbonamento al magazine. Ma stando ai tre fondatori (Adrian Sanders, Dmitri Cherniak, Dan Fletcher) il fatto che il supporto vada direttamente al reporter permette di avere una maggiore consapevolezza di come siano investiti i propri soldi e di come stiano finanziando direttamente un progetto che piace. Un po’ più cinicamente, si potrebbe pensare che in questo modo l’onere di trovare i soldi per portare avanti il proprio lavoro viene delegato al giornalista e non spetta all’editore.

Fatto sta che con Beacon i  limiti prima sottolineati vengono superati: gli articoli li possono leggere tutti coloro i quali sono abbonati a Beacon Reader (si parla di parecchie migliaia, ma i numeri non sono noti), non rischiano di finire su un blog sperduto e il fatto che i giornalisti garantiscano un lavoro continuativo, ovviamente, sul lungo termine premia chi offre un lavoro di qualità. Al momento sono circa 150 i giornalisti che scrivono per Beacon, alcuni dei quali ricavano dal lavoro su questo sito un vero e proprio stipendio. Il progetto è ancora alla voce start up essendo nato nel settembre 2013, ma l’ostacolo più grosso per questo tipo di progetti (finché non ci sono scrittori non ci sono lettori e viceversa) sembra essere stato superato. Il meccanismo dei finanziamenti è meno semplice di quanto sembri a un primo impatto (c’è una differenza misteriosa tra subscribers e supporters e un’altrettanto misteriosa differenza tra il supporto a un progetto e a un giornalista), ma guardando ad alcuni numeri si capisce come il tutto possa effettivamente funzionare: Climate Confidential, pseudonimo di un gruppo di sei giornaliste che si occupa di ambiente, ha pubblicato 60 articoli; ha 821 supporter, 243 subscribers e ha raccolto 66mila dollari per finanziare il suo progetto; di cui 1.149 sono di abbonamento mensile considerato quindi come il suo effettivo guadagno. Un caso abbastanza unico in una sequela di giornalisti (molti stranieri, molti che hanno precedentemente lavorato anche per testate prestigiose) che non sembra guadagnare cifre enormi con Beacon, ma il tutto è appena all’inizio e l’esperimento ha le potenzialità per funzionare e diventare un modello riproponibile ovunque.

 

 

E in effetti anche in Italia c’è qualche esperimento in questo senso. Tempo fa si era parlato di Andrea Marinelli e della sua raccolta fondi attraverso il blog per continuare a seguire le elezioni statunitensi del 2012. Raccolta che gli aveva fruttato 5mila dollari, grazie ai quali aveva potuto continuare ad aggiornare il suo blog e  autopubblicarsi il libro L’Ospite. L’unico caso sistematico che si è visto in Italia è però quello de Gli Occhi della Guerra, creato e sostenuto sul suo sito da Il Giornale. Nato nel dicembre 2013, ha un meccanismo sicuramente più intuitivo del Beacon Reader: viene promosso un reportage completo, fatto di più articoli, su un tema specifico (“Cristiani perseguitati”, “Afghanistan”, “Libia”), da parte di un solo giornalista; si segnala la quota da raggiungere (per “Cristiani perseguitati” 25mila euro abbondantemente superati), dopodiché i vari articoli vengono pubblicati utilizzando anche ilgiornale.it come veicolo di diffusione. La grossa differenza con gli altri modelli è che chiunque può leggere il reportage in questione, non è necessario averlo sostenuto. Ai sottoscrittori, spettano bonus diversi a seconda di quanto hanno versato: da un ringraziamento sulla pagina Facebook, a una foto scattata sul teatro di guerra, alla possibilità di organizzare una conferenza e invitare il reporter a raccontare la sua esperienza (se si sono versati più di mille euro).

Il paradosso di una testata tradizionale (il legame tra Gli occhi della guerra e Il Giornale è strettissimo) che dà vita a raccolte fondi per pagare i propri giornalisti è abbastanza evidente. Il punto però è un altro: fatta l’eccezione di Mediapart ed escludendo il modello pubblicitario con tutti i suoi limiti, la via del crowdfunding mirato a sostenere un singolo progetto (o anche un singolo giornalista) potrebbe essere la via per ridare fiato a una categoria – quella dei reporter investigativi o di guerra – che più di ogni altra sembra messa all’angolo dall’evoluzione dell’informazione online e dalla crisi della stampa. È tutto ancora un esperimento, è tutto ancora all’inizio, ma il modello è perfettamente coerente con le caratteristiche di internet e potrebbe anche funzionare. A tre condizioni, quelle segnalate da Robert Cottrell (editor di The Browser) in un suo pezzo su Medium intitolato The golden age of paid content: che il contenuto valga la spesa, che il prezzo sia basso, che la transazione sia il più facile possibile.

@signorelli82

Foto di Ashni su Unsplash