Il vuoto condiviso. La residenza collettiva
Il Giappone ha visto realizzare nel suo territorio, tra gli anni ottanta e novanta del Novecento, alcune esperienze progettuali molto significative nel campo dell’architettura residenziale, capaci poi di far scuola nel resto del mondo. Qui, in Estremo Oriente, si sono felicemente combinate sensibilità particolari, un grande valore attribuito al progetto particolareggiato fino al dettaglio e un profondo rispetto rivolto alla natura e ad alcune tradizioni millenarie. Ecco che la residenza collettiva, anche quando è stata pensata e affrontata dai loro migliori progettisti come contenitore in grande scala, è sempre stata espressione di un rapporto rispettoso nei confronti della natura circostante ponendosi anche in continuità con i valori e con i rituali di una tradizione domestica consolidata.
A volte – lo segnaliamo con un pizzico d’invidia – si intuisce che regolamenti edilizi meno restrittivi che in Europa hanno determinato una sperimentazione ancora più intensa e ricca di buone soluzioni nel raggiungimento di un effettivo comfort domestico anche dentro enormi blocchi edilizi.
Pubblichiamo un estratto da Il vuoto condiviso (Marsilio) di Edoardo Narne e Francesco Cacciatore
Qui si è saputo effettivamente mettere al centro della ricerca spaziale la figura umana con le sue proporzioni, uno studio attento delle relazioni prossemiche tra gli individui e una rivisitazione aggiornata delle ritualità che da sempre hanno contraddistinto la spazialità fluida delle residenze nipponiche.
Come amava ripetere spesso Le Corbusier: «non si progetta per assecondare gli aridi regolamenti edilizi, ma si opera per il bene dell’uomo». Una lezione da tenere sempre a mente per non dover accettare passivamente le normative, ma, anzi, per poter contrastare le imposizioni vuote e ottuse di una certa visione iper-razionalista e burocratizzata del buon vivere.
E chi meglio di Tadao Ando sembra aver saputo rileggere tutta l’intensa esperienza del maestro svizzero, introiettando nella propria rigorosa ricerca professionale anche la fine sensibilità del popolo giapponese nell’interpretazione di luoghi e tradizioni?
Il suo complesso del Rokko Housing ci ricorda quanta attenzione e senso di responsabilità bisogna offrire ai fragili contesti nel confronto con le proprie costruzioni. Un progetto modulare strutturato sulla linea di sezione del crinale della montagna su cui si appoggia. Non un violento e perentorio parallelogramma, ma piuttosto un piccolo villaggio, tanto “brutale” nell’uso del cemento armato, quanto delicato nel sapersi adagiare con sereno rispetto alla topografia a del terreno e alle piantumazioni circostanti.
Al suo interno una varietà di tipologie edilizie, ricche di relazioni complesse e di vuoti condivisi, trova spazio rivolgendo anche un dialogo disteso con il paesaggio mediante l’utilizzo di logge e grandi terrazzamenti sovrapposti.
Sempre all’interno degli appartamenti, le stanze col tatami ci ricordano che la percezione e il godimento degli spazi nelle case giapponesi, così come quasi in tutto l’Oriente, avviene da una quota molto ribassata: all’incirca dai 70 centimetri della posizione dell’occhio della figura seduta direttamente sulle stuoie e non dai 110 classici della tradizionale postura europea di una persona seduta su una sedia. Questi 40 centimetri di differenza modificano effettivamente il nostro rapporto con lo spazio, spostando l’attenzione focale su un altro orizzonte.
Shigeru Ban con simile sensibilità è riuscito a collocare un blocco edilizio di undici unità in un contesto altrettanto delicato, sfoggiando un uso virtuoso di elementi compositivi e strutturali. All’interno di un giardino rigoglioso, ricco della presenza di ventisette alberi, ha impostato una maglia strutturale triangolare di pilotis su cui fa appoggiare un volume compatto eroso in vari punti da alcuni patii a geometria elissoidale. Questi permettono la sopravvivenza di tutte le piante sull’area e la possibilità di sviluppare i singoli alloggi in duplex intorno ad un vuoto pregno di vita, di colori e di suoni.
In un contesto fortemente urbanizzato si è inserita Kazuyo Sejima, con un blocco teso e dalle proporzioni molto sbilanciate rispetto ai nostri standard distributivi: all’incirca un centinaio di alloggi posti su 10 livelli, collegati da ballatoi e tra loro combinati verticalmente secondo un modello “a tetris”.
All’interno degli appartamenti si respira un’atmosfera rarefatta caratterizzata in alcune zone da verticalismi pronunciati e in altre da un’infilata in successione di ambienti giapponesi tradizionali.
A Fukuoka, in un quartiere pensato nelle sue premesse per offrire nuove sperimentazioni abitative, Steven Holl raggiunge, a parer nostro, uno dei vertici non solo della sua produzione ma di tutto un filone di ricerca del Novecento.
Ventotto appartamenti, tutti differenti, con sviluppo interno in Raumplan, vengono sapientemente impilati, anche qui sul modello “a tetris”, e disposti a formare una cortina edilizia articolata a pettine. Intervallando pieni e vuoti, Holl è abile a riportare la tradizione dei giardini giapponesi, evocandone, proprio negli stessi spazi vuoti, la dimensione silenziosa e sospesa, mediante l’utilizzo di quattro lame d’acqua poste sopra i solai dei negozi al piano terra.
All’interno degli alloggi continua la rievocazione della spazialità giapponese tradizionale aggiornando il sistema dei pannelli scorrevoli con un ingegnoso utilizzo di panelli “a elle” incernierati sull’angolo a formare, nella varie conformazioni planimetriche, differenti disposizioni interne degli alloggi.
Un progetto, questo di Fukuoka, che fa intendere come possano essere rivitalizzate tradizioni storiche millenarie senza rinunciare alle altre conquiste raggiunte dal Novecento. In quest’opera è possibile assaporare insieme varie invenzioni loosiane, ricerche distributive del costruttivismo russo e alcune sperimentazioni audaci sull’uso dei materiali tipiche del periodo brutalista degli anni sessanta. Davvero un’opera capace di porsi come sintesi di patrimoni di esperienze e di proporsi anche come ponte tra più civiltà. Un edificio per vari aspetti singolare, certamente difficile da analizzare e da catalogare, ma che, ne siamo sicuri, potrà offrire sempre suggestioni importanti ai migliori interpreti a venire della nostra disciplina.
Negli ultimi vent’anni, grazie all’impulso dato da concorsi rivolti ai più giovani (europan), al rinnovamento di alcune scuole di architettura e al così detto fenomeno Erasmus che ha permesso di migrare ad una intera generazione di inquieti e validi progettisti, abbiamo assistito in Europa al moltiplicarsi di esperienze di grande interesse legate alla progettazione di rinnovate forme di abitare. Una nuova generazione ha saputo raccogliere l’eredità dei maestri del secolo passato attualizzandone con freschezza molti enunciati. A volte hanno addirittura cercato di rilanciare la sfida, riuscendo non solo ad offrire costruzioni ricche di relazioni interne, ma anche a dar vita a nuovi piccoli quartieri residenziali capaci di superare le difficoltà e gli errori provocati da metodologie di lavoro n troppo ideologizzate.
Ecco che, a un grado minimo, gli spagnoli Aranguren y Gallegos rileggono la strategia di Utzon e Correa adottata per differenziare con piccole variazioni di quota gli ambienti interni, restituendoci un complesso di residenze popolari a Madrid, carico di complessità spaziale, ma anche ricco di contaminazioni culturali con altre tradizioni costruttive. Alla scala delle grandi strutture il gruppo danese dei plot riesce a rielaborare le invenzioni di Le Corbusier e arricchirle di nuove intuizioni tipologiche.
E poi tutto un filone di giovani progettisti, dalla Slovenia alla Svizzera, dall’Austria all’Olanda e ancora dalla Spagna, che si cimenta con divertite e ricche varianti della trasposizione del gioco del Tetris alla scala della residenza: virtuosi contenitori, più o meno felicemente controllati alla scala urbana. Tutte ricerche, espressioni di un’energia nuova che speriamo permettano un effettivo riscatto del progetto residenziale del blocco edilizio, del “condominio”, soprattutto in quei contesti dove l’urgenza d’intervento non è procrastinabile. Ci riferiamo a quelle periferie che hanno visto almeno due generazioni di analisti, politici, economisti, urbanisti e, diciamolo pure, anche progettisti stanchi e disillusi operare indistintamente ad ogni latitudine, senza accogliere le istanze più profonde e universali degli abitanti stessi.
Oggi sembra esserci più consapevolezza dei problemi da risolvere e forse una nuova capacità di reazione. Attenzione però che non si tratterà solamente di rendere efficienti ed energeticamente sostenibili, come pensano in molti, le nuove strutture da realizzare e le vetuste da riqualificare. Noi riteniamo che sarà decisivo affrontare il progetto con un nuovo atteggiamento concentrato sul potenziamento delle relazioni umane dentro e fuori l’alloggio, amplificando, come ben ci avvertiva Giancarlo De Carlo, le opportunità di scambi interpersonali a livello del quartiere intero: «Conta l’orientamento, conta il verde e la luce, ma più di tutto conta vedersi, parlare, stare insieme. Più di tutto conta comunicare».