A Taranto di muri ce ne sono tanti

Taranto

Recentemente con l’università di Bari ho avviato una ricerca su Taranto, che si può sintetizzare come segue: mappare creatività, cultura e innovazione locali per immaginare percorsi di sviluppo locale alternativi alla manifattura pesante e proporre misure di accompagnamento e sostegno di queste pratiche.

cheFare ospita una specie di diario di ricerca che vuole essere tante cose insieme: anzitutto si tratta di una restituzione quasi immediata della mia ricerca sul campo, ma anche un confronto con tutte le persone che incontrerò nel corso dell’esplorazione della città. Questo diario rappresenta anche una prima ed embrionale sistematizzazione dei risultati, ma anche un deposito delle impressioni a caldo sulla città. L’obbiettivo è infine quello di avviare un dialogo aperto e corale su Taranto e sulle pratiche locali di innovazione culturale.


Taranto è la città delle contraddizioni, si dice così ed è vero: una città sul mare che non è città di mare; una città da cui è più facile andarsene che ritornare, dove però tanti tornano; una città di sole e di vento, dove il vento porta diossina e morte; una città su un’isola di 800 metri, che però si estende per 14 kilometri; una città che deve scegliere tra il lavoro e la morte.Io non c’ero mai stata a Taranto, né ci sono arrivata tanto preparata quanto avessi voluto. E così approfitto della mia ingenuità e ignoranza sulla città per farmi raccontare Taranto da Taranto stessa, dai suoi muri e dalle sue scritte. Prende avvio in questo modo il mio percorso di ricerca, leggendo, letteralmente, i muri della città, i suoi segni, le poesie, la rabbia, l’ironia, soprattutto. Comincio col fare di Taranto un’antropologia muraria, graffitara e ruvida, per provare a fare emerge la tarantinità dai mattoni e dal cemento. Riprendendo Foucault, il sociologo Andrea Mubi Brighenti mostra bene come il muro (dispositivo low-tech in una società fortemente high-tech) rappresenta una strategia votata al controllo delle persone attraverso il controllo dello spazio (Brighenti, 2010); l’osservazione dei muri nella città risulta così non solo un esercizio antropologico, ma anche un punto di partenza per una riflessione sulla città all’interno del quadro di una più ampia political economy urbana. Questo pezzo, lo abbiamo già detto, non ha questo scopo, ma può anche essere usato come base empirica per ulteriori riflessioni in questo senso.

Taranto

A Taranto di muri ce ne sono tanti: circondano gli immensi cantieri navali della marina e l’arsenale “come Berlino” impendendo la vista sul mare da gran parte della città.

Taranto

E, come a Berlino, le invettive, le preghiere, la rabbia e la gioia sono indirizzate forse al muro stesso, muro delle meraviglie e delle lotte politiche, muro di rabbia, di amore e di follia e furore, odio, disperazione contro l’Ilva e le morti che questa ha portato.

Taranto

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A Taranto, sull’isola, ci sono tante case abbandonate, vuote, svuotate i cui muri riprendono vita attraverso le scritte, che ci comunicano nascite e morti, che festeggiano insieme a chi li legge. Paolo Inno, sociologo dell’università di Bari, li legge come “muri” di un social network 0.0, come una metafora della metafora, a chiudere il cerchio. Io li vedo come una piazza, uno spazio pubblico vero, vissuto e urlato dove il singolo si unisce alla comunità nel celebrare la sua gioia pacchiana o la rassegnazione a qualcosa che sembra essere capitato a molti.

Taranto  Taranto Taranto Taranto Taranto

Ci sono i muri delle case occupate e i muri delle scuole, dove sembra che l’unica azione possibile sia gridare la rabbia della città e proteggere le nuove generazioni.

Taranto

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E poi ci sono i muri delle case di Tamburi, quartiere operaio a ridosso dell’Ilva dove al posto dei graffiti ci sono soprattutto targhe che ricordano le morti degli operai dell’Ilva. Muri rossi, rossi di polvere velenosa, rossi di morte e di dignità.

Taranto Taranto Taranto

A Taranto non ero sola, sono tante le persone che mi hanno accompagnato e che ho incontrato in questi giorni intensi. Mi hanno aperto le loro case, i loro laboratori, le loro associazioni, i loro teatri e mi lasciano tutti con la promessa di rivederci presto.

A loro dedicherò molte pagine di questo “diario di ricerca”, adesso voglio solo ricordare che se si va a Taranto non si vedono solo muri: si percepisce, quasi fisicamente, sulla pelle, la presenza di un tessuto ricco di pratiche variegate che vanno dall’autocostruzione al cinema, dalla sartoria al teatro, dalle ceramiche al turismo sostenibile. Comincio con citare almeno i loro nomi, ringraziandoli per la fiducia e i racconti che mi hanno dato. Voglio ringraziare e ricordare, in ordine di apparizione: Francesco, Paolo, Maria Grazia, Giovanni, Maristella, Mino, Vincenzo, Giorgio, Mimmo, Carmelo, Angelo, Peppe, Ida, Vanessa.
In una città che sta ancora cercando una sua identità, l’innovazione culturale sembra aver trovato un terreno fertile, magari ancora interstiziale, ma potenzialmente vincente. Forse sono pazzi, ma loro non si arrenderanno di certo!

Taranto

Torno a casa con un taccuino pieno di appunti, indirizzi e appuntamenti; circa 300 fotografie; un libro, una maglietta; una ceramica autoprodotta. Pane fatto in casa e fritturina di pesce per cena.

Bibliografia

Brighenti, Andrea Mubi. “At the wall: Graffiti writers, urban territoriality, and the public domain.” Space and Culture (2010).


Immagini di Marianna D’Ovidio

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