Spazi contesi e politiche urbane

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    Rigenerazione urbana: spazio pubblico o spazio di consumo? La stazione ferroviaria come snodo del diritto di cittadinanza?
    In ogni città, grande o media che sia, ci sono zone particolarmente dense di usi, pratiche, significati e rappresentazioni per via della concentrazione e del continuo incrociarsi di popolazioni urbane e gruppi sociali diversi.

     

    Le stazioni ferroviarie ne sono un tipico esempio. Sono zone di transito e passaggio per definizione ma anche spazi interstiziali della città dove soggetti marginali possono trovare rifugio e risposte ad alcuni bisogni. Intorno alle stazioni, poi, si concentrano spesso attività commerciali e servizi a basso costo, gestiti in larga parte da immigrati e particolarmente attraenti e funzionali ai bisogni della popolazione straniera che vive in Italia. Allo stesso tempo in questi quartieri la gente abita e lavora e nonostante i piani urbanistici stiano puntando ad aumentarne la densità in termini di servizi, ci sono vecchi abitanti che non li hanno mai abbandonati. Se da un lato i quartieri delle stazioni ferroviarie ispirano un forte senso di urbanità, anche romantico, in un’ottica di flânerie, dall’altro sono spesso percepiti come luoghi insicuri, se non pericolosi, da controllare, regolare e disciplinare, ora che sembra impossibile proteggere la città dagli “estranei”, diversamente dal passato quando erano luoghi cinti da mura che proteggevano contro i nemici esterni.

    È proprio il complesso groviglio urbano di queste aree che Claudia Mantovan ed Elena Ostanel hanno esplorato nel libro Quartieri Contesi: convivenza, conflitti e governance nelle zone stazione di Padova e di Mestre che è stato presentato il 13 febbraio all’Università di Padova. Le autrici hanno messo in luce come per gestire situazioni urbane complesse, di insicurezza percepita e potenziale conflitto, sia importante investire su politiche pubbliche che abbiano l’obiettivo di creare spazi includenti per tutti. Sottolineano come i Comuni abbiano un ruolo fondamentale in tal senso, nel proporre progetti e pratiche innovative in grado di superare il frame securitario che domina il discorso mediatico e di promuovere una gestione alternativa dell’insicurezza urbana.

    Il libro affronta questi temi a partire da due casi studio: i quartieri limitrofi alle stazioni ferroviarie di Padova e Mestre. Nella prima parte, dopo una presentazione socio-economica dei due quartieri, vengono esplicitati i frame discorsivi che li caratterizzano nei media, così come nelle voci dei tanti soggetti incontrati duranti la ricerca: residenti, commercianti, politici, amministratori pubblici, operatori sociali, soggetti vulnerabili, pendolari, ecc. Nella seconda parte vengono analizzate le politiche portate avanti dai rispettivi comuni. Così facendo si evidenzia il divario tra il Comune di Padova, che ha portato avanti una “politica delle ordinanze” e quello di Venezia, che si è fatto promotore di un intervento più articolato, tra i pochi esempi di politica integrata per la sicurezza in Italia. La presentazione del libro è stata l’occasione per una riflessione sulle politiche urbane per la sicurezza a più di 20 anni dall’esplosione di questo simulacro discorsivo in Italia. Come ha sottolineato il sociologo Agostino Petrillo infatti, almeno fino agli ‘80 quella della sicurezza urbana è stata una questione prettamente nordamericana. Dalla fine degli anni ‘80 il tema è approdato in Europa e in particolare in Francia, dove si è legato indissolubilmente alle banlieues e ai giovani issus de l’immigration. Sono stati i lavori di Lagrange e Roché a segnare questo passaggio e tuttavia la sicurezza urbana aveva ancora un carattere puntiforme, limitata ad alcuni luoghi circoscritti, quali, appunto, le periferie. È solo alcuni anni dopo che il tema della sicurezza si trasforma in quello che conosciamo oggi.

     

    Con la rottura del patto sociale legato al lavoro, di cui si ha piena coscienza alla fine degli anni ’80,  e con la crisi del welfare state, il problema della sicurezza diventa un fenomeno diffuso, onnipresente ed esistenziale, anche in coincidenza dell’intensificarsi dei processi di globalizzazione e nello specifico dell’aumento dei flussi migratori, al quale si lega fortemente il discorso pubblico sulla sicurezza, particolarmente in Italia. Lo straniero – quello che negli anni ’90 con un neologismo pseudo giuridico veniva definito “extracomunitario” ma che è oggi anche neocomunitario – diventa così il capro espiatorio di un malessere sociale diffuso e multistratificato. Come emerso da tutte le ricerche presentate durante il convegno, che hanno spaziato su diversi contesti urbani, da Milano, a Modena, Verona, Pisa, Reggio-Emilia e Zingonia, oltre che a Barcellona, è la visibilità degli immigrati, così come di gruppi marginali (senza fissa dimora, tossicodipendenti, prostitute, ma anche i giovani, le “gangs” o semplicemente chi appare diverso) a creare allarme sociale, e vere e proprie ondate di “panico morale”. A partire dagli eventi dell’ 11 settembre 2001, poi,  e con gli attentati che hanno colpito alcune città europee negli anni a seguire, viene a cadere la distinzione fra sicurezza interna ed esterna degli stati e il nemico assume le fattezze del terrorista, del fanatico religioso che è però qui, fra noi.

    I recenti eventi di queste settimane, dalla strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo, e la caotica situazione internazionale restituiscono forza all’immagine del nemico interno, alimentano l’islamofobia e danno nuova linfa al mai tramontato frame dello scontro di civiltà. Quello che si preannuncia è una militarizzazione delle città, insieme ad un giro di vite per tutti coloro che vivono ai margini o sono visti come “diversi”, sempre, ben inteso,  in nome della difesa dei valori occidentali di libertà e tolleranza (le legge regionale “Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi” approvata in regione Lombardia il 27 gennaio 2015, e nota come legge “anti-moschee”, è un esempio illuminante di questa ipocrisia).

    Il discorso sulla sicurezza urbana d’altra parte mostra tutta la sua contraddizione proprio quando si riduce al tema del degrado. Degrado non sono, ad esempio, le condizioni infrastrutturali del patrimonio residenziale pubblico, o le condizioni in cui vivono alcune fasce della popolazione, ma le “inciviltà ambientali e sociali”, tutta una serie di usi dello spazio pubblico considerati impropri e illegittimi (dal bere e al dormire per strada,  o semplicemente l’uso troppo intenso dello spazio pubblico). Il tema della sicurezza urbana mostra così la sua componente estetica e si tinge di una connotazione morale, che spesso si traduce in discorsi che rimandano più alle norme di galateo di un ordinamento domestico che alla gestione di una città e della sua dimensione pubblica. In questo quadro, la risposta delle amministrazioni comunali si è spesso tradotta in una politica delle ordinanze, in particolare con l’introduzione del pacchetto sicurezza, nel 2008, che ha portato ad un crescente utilizzo di questo strumento da parte dei sindaci, che lamentavano una scarsità di risorse a loro disposizione per una gestione adeguata dell’insicurezza percepita dai cittadini. A queste si è affiancata una crescente presenza delle forze dell’ordine, non solo della polizia locale ma anche dei militari, spesso in un’ottica di intervento simbolico, come testimoniato spesso dalle stesse forze dell’ordine: si tratta infatti in molti casi di interventi giustificati non tanto sulla base della gestione di fatti criminosi quanto piuttosto dalla necessità di rispondere all’insicurezza dei cittadini con una presenza stabile e rassicurante sul territorio.

     

    Ed è successo in città di diverso colore, anche se è da segnalare che in alcuni casi sono stati sperimentati anche progetti di mediazione, come per esempio a Modena; tali sperimentazioni dovrebbero essere opportunamente valorizzate oltre che valutate criticamente al fine di verificarne la replicabilità e l’efficacia. In questo scenario, mai come oggi, particolarmente in coincidenza con crescenti tagli alle risorse pubbliche, è necessario chiedersi quanto siano auspicabili gli interventi di sicurezza urbana di carattere preventivo e simbolico come quelli descritti sopra. Il tema è tutto di giustizia sociale: queste iniziative infatti portano spesso all’allontanamento dei soggetti indesiderati: immigrati, senza-tetto, tossicodipendenti, emarginati, in altre parole soggetti “estranei”, che incarnano il “nemico”. Contro di loro si scagliano residenti, comitati di quartiere, comitati per la sicurezza, e i media, che spesso riportano le loro voci, ignorando le tante altre voci che restano inascoltate.

    Proprio in questo contesto diventa sempre più rilevante la domanda che Alessandro Baratta poneva in un saggio del 2001: dobbiamo preoccuparci del diritto alla sicurezza o della sicurezza (certezza) dei diritti di tutti? Si pensi all’impatto di progetti come quello di “Cento Stazioni” che punta alla riqualificazione e valorizzazione in senso commerciale di più di 100 complessi ferroviari in Italia e che mette in evidenza il ruolo chiave, eppure spesso sottovalutato o ignorato, che le dinamiche immobiliari hanno sugli scenari urbani: cresce il valore immobiliare dei quartieri intorno alle stazioni, si aprono nuovi negozi, si ristrutturano immobili e allo stesso tempo si spostano gli indesiderati e i servizi a bassa soglia che hanno fornito loro assistenza, per rendere questi spazi sicuri e accoglienti  per chi viaggia e consuma.

    Esistono soluzioni alternative? Riconoscendo il fallimento della stagione delle ordinanze, le autrici sottolineano l’importanza di politiche urbane integrate che affrontino le diversi questioni dei quartieri in crisi con azioni di medio e lungo periodo che coinvolgano gli attori rilevanti sul territorio e diano voce a tutti, anche chi non ne ha o è scarsamente rappresentato.  Si tratta quindi di valorizzare le risorse che esistono sul territorio,  in un processo nel quale però l’attore pubblico assuma un ruolo di “regia” e si faccia garante in prima persona delle politiche,  già che l’eccessiva devoluzione di responsabilità agli attori del terzo settore ha in diversi casi – come quello di Padova – mostrato le sue debolezze. Pur nella consapevolezza che quelle che sono concepite come problematiche legate alla sicurezza urbana si originino ben al di là della dimensione locale, è proprio qui che si possono implementare iniziative di innovazione sociale che promuovano l’inclusione attraverso la valorizzazione delle relazioni sociali e innescando processi di empowerment in particolare dei gruppi marginali (come nel percorso attivato a Reggio-Emilia presentato al convegno).  Va da sé che si tratta di soluzioni che implicano investimenti in termini di risorse economiche e umane da parte del settore pubblico, già che fare affidamento esclusivamente sulla resilienza delle comunità locali è, oltre che poco etico, insufficiente e a volte controproducente (un esempio estremo in questo senso lo offrono le forme di community policing statunitensi). In un panorama di crisi economica e politiche di austerità, si tratta di trovare soluzioni che siano sostenibili e innovative anche dal punto di vista economico, puntando non solo ad una gestione molto oculata delle risorse ma soprattutto fortemente ancorata ad una visione strategica di città inclusiva.

    Quella che si auspica è dunque una prospettiva opposta a quella, escludente e repressiva, delle ordinanze e degli approcci securitari tout court; in questo senso, come già suggeriva Tamar Pitch nel 2001, è forse lo stesso termine di politiche di sicurezza che andrebbe abbandonato, come andrebbero superate le risposte meramente simboliche dei Comuni, che spesso hanno risposto alle percezioni di insicurezza dei cittadini con una crescente presenza delle forze dell’ordine, identificata come unica soluzione efficace indipendentemente dalle specificità dei contesti.

     

    Di questi temi si è parlato il 13 febbraio 2015 al convegno “Spazi contesi convivenza, conflitti e governance nei quartieri multietnici”, organizzato dal Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e dalla Cattedra Unesco dell’Università IUAV di Venezia. La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Cariparo nell’ambito dei Progetti di Eccellenza 2009/2010 e sul progetto “Mediare.com. percorsi di comunità attraverso la mediazione” co-finanziato dall’Unione Europea e dal Ministero dell’Interno sul Fondo europeo per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi (FEI).  Sono intervenuti: Giuseppe Mosconi (Università di Padova), Claudia Mantovan (Università di Padova), Elena Ostanel (Università Iuav di Venezia), Marcello Balbo (Università Iuav di Venezia), Agostino Petrillo (Politecnico di Milano), Alfredo Alietti (Università di Ferrara), Roberta Marzorati (Università di Milano-Bicocca), Tindaro Bellinvia (Università di Messina), Michela Semprebon (Università di Milano-Bicocca), Omid Firouzi (Università di Torino), Franco Corradini (associazione “Porto Franco”, già assessore della città di Reggio Emilia).

    Foto di Maria Teneva su Unsplash

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