Perché restare sui social anche se rischi di diventare stronzo

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Soltanto nelle ultime sei ore ho visto litigare su Twitter due scrittori che conosco e sono bravissimi che se si fossero incontrati dal vivo si sarebbero piaciuti a prima vista e che invece non sono riusciti a riconoscere, mentre si punzecchiavano on line, l’uno i codici linguistici dell’altro (lei era paradossalmente ironica, lui più letterale); mi ha scritto su Messenger una mia amica davvero carissima per dirmi con rabbia che avevo fatto male a difendere una persona che stimo molto su Facebook e che questo mostrava più di una mia debolezza (le ho chiesto perché non mi ha chiamato per dirmelo a voce, visto che mi stava facendo una critica pesante, su cui avrei rimuginato, ma non mi ha risposto); infine sempre su Facebook ho scritto un post molto commentato anche da gente che si proclamava nazista con cui ho cercato di discutere con grande calma finché mi sono arreso e ho pensato che era giusto bannarli, lasciando le persone che commentavano sulla mia pagina prendersela con un tizio che aveva la foto di Goebbels come account, ma che da un certo momento in poi non poteva più rispondere.

In sei ore non sono migliorato in nulla, anzi. E sicuramente non sono migliorati coloro, conosciuti e non, che ho volontariamente o mio malgrado coinvolto. Mi è dispiaciuto vedere come persone intelligenti non riescano a fare un dibattito; domani dovrò telefonare a questa mia amica che mi ha fatto rimanere male per chiederle meglio cosa intendeva nelle sue critiche taglienti; ho dovuto accettare che con alcune persone che provocano è meglio non averci nulla a che fare.

Non sono migliorato in nulla; e questo è quello che capita nella maggior parte del tempo che passo sui social network. Innesco risentimenti, provocazioni, fraintendimenti; oltre perdere del tempo prezioso che avrei potuto spendere per rafforzare dei legami d’affetto o di conoscenza. E allora perché continuo a starci? Questa domanda, in termini ancora più netti, se la fa Jaron Lanier, nel terzo capitolo del suo libro-decalogo su come liberarsi dai social: I social media ti stanno facendo diventare uno stronzo.

La risposta che mi do è molteplice: sono una voce pubblica e mi va di esercitare con razionalità, rigore, costanza, determinazione il mio ruolo di intellettuale (anche se questo porta a tifoserie, schieramenti, litigi); dall’altra parte imparo tanto – anche se in una forma di curiosità bulimica, scriteriata, spesso autoriferita.

Se facessi del tutto a meno di Facebook o Twitter, avrei un carattere migliore, è vero, sono d’accordo con Jaron Lanier; ma forse manifesterei quella strana forma di gentilezza che passa per saggezza ma che alla fine tende a assomigliare sempre un po’ all’ingenuità e alla saccenza.

È difficile confessare le proprie abitudini con i social network, quanto può essere stato difficile farlo con le proprie abitudini con la televisione quando la nostra generazione o quella precedente era videodipendente. Forse fra qualche anno parlerò al passato della mia dipendenza da internet come oggi parlo al passato della mia dipendenza dalla tv. Per una ventina d’anni ho visto una media di otto ore di televisione al giorno. È inimmaginabile pensare alla mia infanzia, alla mia adolescenza, alla mia postadolescenza senza la presenza di un televisore nella stanza. Ho imparato cosa vuol dire raccontare storie, far ridere, innamorarsi, eccitarsi, avere nostalgia, moltissime altre cose, anche e molto dalla televisione: dai cartoni animati, i telefilm sui canali Fininvest, da Drive In o da Fantastico, dagli sceneggiati su Pinocchio o su Marco Polo, dai film che passavano di notte su Fuori Orario o su Tele + d’estate, da tutto. Eppure la televisione con cui sono cresciuto era per la stragrande maggioranza del suo palinsesto anche una televisione commerciale, piena di pubblicità, che dava assuefazione.

In un paio di dibattiti recenti sullo stato dell’arte della critica culturale ho sentito due critici letterari, tra i migliori che ci sono in Italia, parlare delle riviste on line e di come i blog culturali che all’inizio erano un luogo dove si era rinnovato il dibattito oggi nel tempo sono diventati pieni di stronzate, il termine era questo. Il tono di chi è stufo della disruption che è derivata prima dai blog e poi dai social network è che si debba in qualche modo ripristinare delle regole agli spazi della comunicazione, in modo da poter consentire il ritorno di un’ecosistema di autorevolezza che oggi è completamente guasto.

Anche Lanier usa quest’approccio, è convincente, e preparato. Mette nero su bianco una ricetta che funziona. Però.

Però lo fa a partire da un suo personale potere culturale: è un maschio bianco eterosessuale benestante statunitense che ha lavorato e lavora per le company più importanti della tecnologia (ieri a Microsoft, oggi a LinkedIn) e che se vuole esprimere il suo punto di vista e avere ascolto, può farlo in milioni di modi. Quanti nel mondo hanno la stessa possibilità? Tutti gli anni del Novecento e oltre sono stati il tempo dell’allargamento della democrazia, e questo voleva dire che c’era più gente che poteva prendere la parola. Certo le radio libere hanno dato vita anche a radio parolaccia, e l’utilizzo dei social durante le primavere arabe oggi è sostituito dalla possibilità per Cambridge Analytica di influenzare le elezioni di paesi democratici.

Possiamo immaginare di poter influire per trasformare le piattaforme di cui siamo lavoratori, consumatori e dipendenti allo stesso tempo? Potrebbe esserci la possibilità di influire sui modi con cui è sviluppato oggi l’algoritmo di Facebook da parte di chi c’è coinvolto? È possibile ipotizzare uno sciopero su larga scala che rivendichi dei diritti digitali?

Fatalmente questo pezzo andrà su un sito culturale, la maggior parte delle persone (circa il 70 per cento) lo leggerà – pochi per intero, molti avranno visto solo il titolo – avendoci cliccato su Facebook. Verrà commentato e likato come migliaia di contenuti sulla pagina che scorrono sulla pagina di ognuno quotidianamente. Ma se per caso, in questo flusso perennemente bulimico, si trovasse il tempo di soffermarcisi, sarebbe interessante farlo su una questione: sarebbe possibile qualcosa che non somigli a un boicottaggio semiluddista come suggerisce Lanier ma uno sciopero?

La rivoluzione industriale ha dovuto aspettare un centinaio d’anni perché qualcuno trovasse il modo per mettere in discussione in modo sistematico l’impianto di sfruttamento che la teneva in piedi, e un’altra trentina perché si cominciassero a formare sindacati, partiti, movimenti operai che avessero la forza di organizzarsi e opporre al potere dei capitalisti.

Vedere il modo un po’ velleitario, un po’ individualista, un po’ scomposto in cui stiamo reagendo al nuovo capitalismo digitale, fa davvero sperare che ci sia a breve qualcuno tra i movimenti politici che capisca come questo sistema economico-culturale va contrastato opponendo una diversa idea di società, che non sia però una copia di quella che abbiamo perduto.