È possibile una finanza responsabile? La tesi della doppia moralità

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Che cosa significa oggi «essere responsabili»? Se è relativamente facile rispondere quando è questione di comportamenti dei singoli, sorgono maggiori difficoltà  quando entrano in gioco azioni che riguardano la collettività. Chi è, ad esempio, responsabile delle disuguaglianze crescenti, della disoccupazione, della povertà, dei disastri climatici? E che cosa accadrà nella società dei big data e dei social network, se le smart machine potranno «pensare» e decidere?
Pubblichiamo un estratto dal saggio di Stefano Zamagni Responsabili. Come civilizzare il mercato (Il Mulino)

Nel 1968, l’economista americano Albert Carr pubblica sulla prestigiosa «Harvard Business Review» un saggio destinato a fare scuola, diventando, di fatto, una sorta di guida obbligata per chi si dedica alla finanza.

Il titolo stesso è rivelatore: Is Business Bluffing Ethical? Vi si legge che l’uomo d’affari che ambisce al successo deve lasciarsi guidare da «un diverso insieme di standard etici» dal momento che «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa».

Assimilando la finanza al gioco del poker – gioco nel quale ciascun giocatore deve cercare di bluffare, facendo credere al suo rivale di avere carte che in realtà non ha – Carr conclude che «gli unici vincoli cui deve sottostare chi fa business sono la legalità e il profitto. Se qualcosa non è illegale in senso stretto ed è profittevole allora è eticamente obbligatorio che l’uomo d’affari lo realizzi» (corsivo aggiunto).

Il punto di arrivo dell’argomento è quello di rovesciare la ben nota Regola aurea, un rovesciamento che suonerebbe all’incirca così: «Fai agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te». Scrive, infatti, il Nostro: «La Regola aurea, per quanto abbia meriti come ideale per la società, non va bene come guida per gli affari. Per buona parte del suo tempo, l’uomo d’affari cerca di fare agli altri quello che egli spera gli altri non faranno mai a lui» (sic!).

Pochi anni prima della pubblicazione del saggio di Carr, Milton Friedman, nel suo Capitalismo e libertà, aveva scritto la frase che poi sarebbe rimasta celebre: «C’è una sola responsabilità per l’impresa: usare le risorse a sua disposizione per incrementare i suoi profitti fintanto che essa rimane entro le regole del gioco, senza inganno e frode».

Si può quindi ben comprendere la soddisfazione del fondatore della Scuola di Chicago nell’accogliere la tesi di Carr. Tuttavia – e ciò va detto per amore di verità – nell’intervista al «New York Times» del 13 settembre 1970 dal titolo La responsabilità sociale dell’impresa è di accrescere i profitti, Friedman aggiunge una qualificazione importante al suo precedente asserto, chiarendo che «la responsabilità dei manager è di fare tanti più soldi possibile, nel rispetto delle regole di base della società, sia quelle incorporate nella legge, sia quelle dettate dai suoi codici etici» (corsivo aggiunto).

Nonostante la novità di non poco conto introdotta, il mondo degli affari ha però continuato a seguire il faro della dottrina di Carr, peraltro senza mai riconoscerlo esplicitamente. (Quel che più stupisce è che il saggio in questione continua a non essere conosciuto dalla più parte degli addetti ai lavori.)

Una difesa, in un certo senso disperata, della tesi della doppia moralità viene tentata dallo stesso Carr quando scrive: «Se l’etica non è incorporata nelle leggi che gli uomini fanno, non ci si può aspettare che siano gli uomini d’affari a colmare la lacuna».

Duplice l’aporia che si cela in tale affermazione. Per un verso, essa porta a concludere che le imprese non sono parte della società in cui operano e da cui traggono vantaggio e pertanto non sono tenute a tener dietro al cambiamento delle norme etiche che sempre avviene nel corso del tempo – alla faccia della responsabilità civile, di cui ho detto nel capitolo terzo.

Per l’altro verso, la tesi secondo cui le leggi in vigore già rifletterebbero i canoni morali prevalenti nella società – e dunque il rispetto di quelle già sussumerebbe il rispetto di questi – non tiene conto del fatto che – come sappiamo già dai tempi di Hobbes – «auctoritas, non veritas, facit legem» (l’autorità, non la verità, fa la legge).

Quanto a dire che sono i poteri costituiti che sempre esercitano un’influenza, a volte determinante, nel processo di legificazione. E non si potrà certo sostenere che banche e imprese non rappresentino uno di questi poteri.

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Si confronti l’asserto hobbesiano con l’analoga massima del diritto romano: «veritas, non auctoritas, facit ius» (la verità, non l’autorità, fa il diritto). Il diritto non può non avere un fondamento di verità; la legge invece può farne a meno: si pensi solo alle leggi razziali.

Un caso che molto ha fatto discutere e che, nella sua crudezza, mostra a quali esiti può condurre la dottrina della doppia moralità, è quello riguardante lo scandalo dei conti pubblici della Grecia.

A fine anno 2000, questo paese doveva abbassare il suo debito pubblico per poter rientrare nei parametri di Maastricht. Chiamata in aiuto, Goldman Sachs propose al governo greco uno swap: trasformare un prestito in euro in un debito in dollari e yen, sulla base di un tasso di cambio storico diverso da quello reale e così tanto favorevole da permettere alla Grecia di defalcare 2,8 miliardi di euro dal suo debito.

L’operazione rimase invisibile al mercato, perché le regole europee all’epoca non imponevano di dare conto degli swaps di valuta. Il risultato fu che la Grecia entrò nell’euro e Goldman Sachs lucrò oltre 600 milioni di dollari.

Sono note le reazioni indignate di tanti, soprattutto della cancelliera tedesca Angela Merkel, ma il caso non poté essere censurato perché il collegio di difesa della Grecia usò proprio l’argomento avanzato da Carr.

Giova osservare che questo e tanti altri casi di scandali finanziari condividono tutti, al di là delle peculiarità che differenziano un caso dall’altro, una medesima caratteristica: la «sindrome teleopatica», come l’ha definita K. Goodpaster.

Tre sono gli elementi basici che la contraddistinguono: ci si fissa su un obiettivo ben preciso (tipicamente, la massimizzazione, a ogni costo, dei profitti); si procede poi a razionalizzare il comportamento che consente di conseguire quel fine; quindi, ci si distacca apposta dall’ambiente circostante, per non venirne influenzati, e ciò allo scopo di anestetizzare la coscienza mediante la ripetizione parossistica dell’obiettivo da raggiungere. (In termini tecnici, chi soffre della sindrome teleopatica è affetto da ambliopismo: costui non riesce a guardare insieme la dimensione del profitto e quella del valore condiviso; o l’una o l’altra.)

Per buona parte del suo tempo, l’uomo d’affari cerca di fare agli altri quello che egli spera gli altri non faranno mai a lui

È la sindrome teleopatica a dare vita alla schizofrenia morale di cui parla J. Ladd quando descrive le organizzazioni formali (tra cui le imprese) come istituzioni in cui

gli interessi e i bisogni degli individui [in esse operanti] devono venire presi in considerazione solo nella misura in cui pongono condizioni operative limitanti. La razionalità organizzativa impone che questi interessi e bisogni non debbano essere considerati come un diritto o sulla base del merito. Se pensiamo a un’organizzazione come a una macchina, è agevole capire perché non possiamo ragionevolmente aspettarci che essa abbia una qualche obbligazione morale nei confronti delle persone o che queste ne abbiano nei suoi confronti.

Poco più avanti nel testo, in convinto appoggio alla tesi di Carr, si legge:

Per ragioni logiche è improprio aspettarsi che la condotta organizzativa si conformi ai principi ordinari della moralità. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci che le organizzazioni formali e i loro rappresentanti quando agiscono nella loro veste ufficiale, siano onesti, coraggiosi o che possiedano integrità morale […] Azioni che sono er- rate in base agli standard morali classici non lo sono per le organizzazioni […] se quelle azioni servono gli obiettivi dell’organizzazione.

Si consideri che è su queste e altre simili posizioni che i programmi di studio nelle più prestigiose business school sono stati basati, fino ad anni assai recenti.

Ha scritto O’Hara: «La finanza è stata troppo agnostica sulle questioni etiche, con professori di finanza che lasciano ad altri, ai professori di etica, la trattazione di quelle questioni». È incredibile che su ciò non si sia ancora fatta piena luce, dopo dieci anni dall’inizio della crisi.

Non deve allora sorprendere se di fronte alla sequenza di scandali finanziari e di malfunzionamenti di ogni genere, verificatisi con intensità crescente nell’ultimo quarantennio al traino di una teoria come quella della doppia moralità, abbiano iniziato a levarsi, in tempi recenti, voci preoccupate come quella di W. Dudley, presidente della Federal Reserve Bank di New York. Dopo aver ricordato che dal 2008 al 2013 le multe elevate alle grandi banche USA sono state di oltre 100 miliardi di dollari e aver riconosciuto che, nonostante i controlli e gli interventi del regolatore pubblico per stabilizzare il sistema finanziario, i comportamenti effettivi sono rimasti basicamente i medesimi di prima (business as usual), Dudley arriva finalmente a concludere che il cattivo stato di salute della finanza non dipende tanto dai comportamenti perversi di singoli dirigenti sleali e opportunisti, quanto piuttosto dalla cultura d’impresa confezionata dai leader e dai loro consulenti esperti.

Quanto a significare che non sono tanto le mele marce a creare problemi, quanto piuttosto coloro che costruiscono la cesta. (Col termine cultura, Dudley si riferisce alle norme sociali e alle norme morali che dirigono i comportamenti in assenza di norme legali).

Un esempio per tutti. Se le regole del gioco finanziario permettono che le banche possano assumere dimensioni tali da essere in grado di «ricattare» il regolatore in omaggio al ben noto aforisma too big to fail (troppo grande per fallire), non ci si può poi stupire né stracciare le vesti se questo col tempo accade.

Dopo di che, le autorità di controllo per dimostrare di fare qualcosa si limiteranno a usare la frusta sugli operatori finanziari di piccola e media dimensione – come è appunto accaduto in parecchi paesi occidentali, Italia compresa – nella recente crisi.

Le grandi banche d’affari, che sono state la causa prima della crisi, non solamente hanno ricevuto ingenti fondi pubblici per essere salvate, ma hanno continuato a comportarsi come se nulla fosse accaduto.

Un recente e maldestro tentativo di ripresa della dottrina della doppia moralità – e del quale non varrebbe la pena parlare se non fosse che proviene da un famoso economista americano – è quello di Michael Jensen.

La proposta avanzata è quella di aggiungere l’integrità come tratto «positivo» della personalità umana al paradigma dell’economia della finanza e ciò allo scopo di scongiurare l’occorrenza degli scandali e di accrescere l’efficienza del sistema.
(L’integrità è definita dal Nostro non come virtù, ma come «lo stato di essere interi, completi, solidi, in perfette condizioni».)

Se dunque tutti coloro che operano nella finanza fossero soggetti integri, tutto andrebbe per il verso giusto senza scandali e il valore di lungo termine degli assets risulterebbe massimizzato.

Al di là dell’intenzione, di per sé lodevole, l’argomento di Jensen è inficiato da un duplice errore – per non dire del carattere tautologico del modo in cui la tesi è formulata. Se tutti fossero angeli, non ci sarebbe certo bisogno di poliziotti!

Il primo errore è di credere che poiché il principio dell’interesse proprio (self-interest) è neutrale rispetto ai giudizi di valore – e ciò nel senso che non pone vincoli sul contenuto delle azioni – allora esso è libero, svincolato dall’autorità dell’etica.

Il che non è affatto, perché se è vero che quel principio non prescrive ciò che è nel nostro interesse, limitandosi a dire che, quale che esso sia, c’è ragione di promuoverlo, ancor più vero è che per risultare applicabile esso presuppone che certe norme etiche siano già in esistenza nel sistema.

In altro modo, il principio dell’interesse proprio funziona solamente grazie al fatto che esso si situa entro specifiche pratiche normative. Diversamente, perché mai dovrei osservare la regola dell’integrità?

Il secondo errore, ancora più serio, è di pensare che l’economia possa arrivare a formulare giudizi di bene e male, di buono e cattivo, senza riferimento alcuno all’etica.

È impossibile fare a meno dell’etica in economia, perché l’etica è il modo in cui la filosofia, anche quella della scienza, si rivolge all’agire dell’uomo

Ora, anche a prescindere dal fatto che storicamente l’economia nasce da una costola dell’etica – come A. Sen e altri hanno convincentemente mostrato –, il punto è che nel momento stesso in cui si distingue – come fa Jensen – tra giudizi positivi e giudizi normativi si cade in una grave contraddizione pragmatica.

E ciò per la semplice ragione che quella distinzione è figlia del positivismo, che è una delle tante strutture teoriche di filosofia della scienza, oggi peraltro in disuso, il cui fondamento è in una precisa opzione di natura etica.

Il lato debole del positivismo, infatti, è nel non aver compreso che la scienza moderna, e quindi anche l’economia, si distacca sì dall’etica, ma come chi nasce si distacca dalla madre, rimanendo tuttavia qualcosa che essa ha generato e che di essa è il prolungamento.

Insomma, è impossibile fare a meno dell’etica in economia, perché l’etica è il modo in cui la filosofia, anche quella della scienza, si rivolge all’agire dell’uomo.

Sorge spontanea la domanda: la crisi non è per caso servita a far comprendere l’urgenza di un cambiamento di rotta e a suggerire conseguenti linee di azione?

La risposta è positiva, anche se si è ancora agli inizi di un processo che richiederà tempo e soprattutto coraggio. Mi limito qui a indicare taluni provvedimenti già in atto e talune realizzazioni.

Nel 2016, a Berlino, è stata lanciata ERIN (European Responsible Investment Network), la prima rete europea di organizzazioni della società civile che praticano l’azionariato attivo e che a quella data amministrava già 23 trilioni di dollari. (Azionisti attivi sono investitori, istituzionali e individuali, che si mobilitano, utilizzando strumenti finanziari, su temi di sostenibilità sociale e ambientale. Quando temono che la società in cui hanno investito i loro risparmi abbia violato uno o più principi danno inizio a un processo di engagement, fino a presentare in assemblea mozioni di sfiducia da far votare.)

Inoltre, a fine 2014, per iniziativa del Fondo Cometa (il fondo pensione dei metalmeccanici americani con oltre 400.000 iscritti), è nata una coalizione di 14 fondi pensione che hanno attivato un processo di engagement con oltre 40 grandi banche, sul cambiamento climatico e sul contrasto al lavoro minorile.

Già oggi i fondi etici intermediano il 20% circa degli investimenti finanziari globali, cifra destinata ad aumentare in seguito alla nascita dello Standard Ethics Rating, con cui vengono classificate banche e intermediari finanziari rispetto all’indicatore ESG.

Un obiettivo che sarebbe tecnicamente possibile conseguire e che costituirebbe un passo di decisiva rilevanza verso una finanza veramente responsabile è quello di arrivare a far adottare alle varie agenzie di rating criteri di impatto sia sociale sia ambientale nella valutazione dei rischi associati alle emissioni obbligazionarie.

Il fine che da più parti si dichiara di voler perseguire è quello di giungere in tempi brevi a una reale biodiversità finanziaria. A inizio Ottocento, il filosofo Benjamin Constant scriveva: «La varietà è organizzazione; l’uniformità è meccanismo. La varietà è vita; l’uniformità è morte». Quanto queste parole trovino nella finanza piena conferma della loro validità non c’è bisogno di dire.


Immagine di copertina da Unsplash: ph. Fabian Blank