Cosa si respira nel Mediterraneo, a Livorno

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    Sono al porto di Livorno da un paio d’ore. Sto guardando un affare blu, grosso come un ferro da stiro, ha un manico e un piccolo schermo che segna “30360”. È il numero delle particelle di particolato ultrafine presenti in ogni centimetro cubo d’aria. Un numero alto, molto alto, soprattutto se si considera che in una città come Berlino – molto più grande e popolata di Livorno – se ne misurano dieci volte meno.

    A guardare l’aria tiepida che separa i tetti di Livorno dal cielo azzurro che li sovrasta sembra limpida e pulita. E ha perfettamente senso visto che questo è un piccolo centro affacciato sul blu del Tirreno, con l’acqua che da qui arriva fino all’Isola d’Elba, il nord della Corsica e Capraia. Uno dei posti, naturalisticamente, più belli di tutto il Mediterraneo, eppure, anche se non si vede, qui l’inquinamento c’è. Le particelle visibili con strumenti ottici sono solo quelle più grandi di una certa misura (nel caso dell’inquinamento sono 300 nanometri) e queste (ma anche quelle più grandi ma comunque invisibili a occhio nudo) non oscurano il cielo, non creano nuvole scure, non fanno apparire questa città toscana come una metropoli asiatica. E forse è per questo che le persone non se ne preoccupano più di tanto. Ma il danno per la salute è notevole: le particelle più piccole possono viaggiare tra gli organi passando attraverso le membrane causando diabete, demenza precoce o attacchi cardiaci. Esistono evidenze di particelle penetrate in una delle più impenetrabili delle barriere del nostro corpo, quella cerebrale: particelle passate attraverso il nervo del trigemino, cioè inalate e finite direttamente dalle narici al cervello.

    Di queste particelle sto chiedendo ad Axel Friedrich, chimico che ha lavorato per anni all’agenzia federale tedesca per l’ambiente (la Umweltbundesamt), un signore alto e secco, gli occhi azzurri circondati da una pelle segnata dal tempo, ma sgranati e attenti come quelli di un ragazzino, come se la sua età anagrafica non corrispondesse con la persona che è davvero, ma soprattutto con il tipo di vita che fa. Sto viaggiando con lui in questi giorni proprio per seguire le sue misurazioni e nonostante io abbia 29 anni e lui 42 in più, sono io a non stare dietro ai suoi ritmi. Porta sempre con sé due valigie, in una tiene il misuratore di NO2 (il biossido di azoto) in un’altra due misuratori per le nanoparticelle. Questi affari pesano e sono delicati, vanno costantemente ricaricati, monitorati, i dati vanno trasferiti su un database per non essere persi e poter essere comparati. Lui fa tutto questo praticamente ogni giorno, muovendosi spesso da solo, come consulente per le Ong che si affidano a lui e alla sua perseveranza – quasi una fissazione – per ottenere i dati da far pesare sui tavoli della politica locale, nazionale e internazionale.

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    Axel Friedrich al porto di Livorno

    Siamo al porto e qualcuno chiede una foto ad Axel, ma non è divismo, le foto servono a pubblicizzare le misurazioni, bisogna avere più materiale possibile se si vogliono diffondere i risultati di un lavoro del genere e visto che la chimica non è esattamente il tema più attraente per il mondo dei media una foto di un famoso ambientalista al porto di Livorno potrebbe tornare utile per la stampa locale. Axel si muove tra cavi e provette e risponde quasi seccato: “non ho tempo adesso”. Sembra sgarbato? Forse è così che viene percepita la sua risposta, ma dopo, mentre ci ripenso, mi convinco che è normale che la fretta, le responsabilità e l’estrema dedizione a quello che fai ti spingano inevitabilmente a un pragmatismo eccessivo, di quelli da trance agonistica.

    Axel in teoria sarebbe in pensione, ma anziché godersela tra spiagge e parchi naturali fa l’esatto contrario e insegue lo smog da una città all’altra, prede voli, treni, arriva e misura, poi maneggia due tablet su cui trasferisce i dati e manda mail dal tono formale a colleghi, ambientalisti e Ong con cui lavora. Da oggi quelle mail arriveranno anche a me, lo seguirò per quasi una settimana mentre lui, a sua volta, sta inseguendo le scie di inquinanti che fluttuano sul Mediterraneo. Dopo sole tre ore insieme, a misurare vento e distanze che separano la città dalle enormi navi che partono verso Barcellona o la Francia, a me fa già male la gola, la saliva mi si è seccata in bocca come quando non bevi acqua da una giornata intera. Axel mi fissa e, senza cambiare espressione del viso, mi risponde chirurgico, quasi mi stesse analizzando con gli occhi: “è normale, l’inquinamento a cui ti stai sottoponendo è peggio di quello di una strada al centro di Pechino”. Io mi metto a ridere, pensavo a un’iperbole, allora lui un po’ si scoccia e mi fa vedere i dati sul suo schermo, stare vicino a una grande nave è – per davvero – peggio che starsene in una delle città più inquinate al mondo. Smetto di ridere fingendo nonchalance.

    La prima cosa che mi viene in mente è banale: perché le Ong devono occuparsi del monitoraggio dell’aria? Non dovrebbero occuparsene le istituzioni? La risposta è che la legislazione è lenta, la tecnologia invece è veloce. Vengono scoperti gli inquinanti grazie alla ricerca (in questo caso quelli emessi dalla grandi navi), ma la legge ci mette molto ad adattarsi e prendere provvedimenti. Succede in moltissimi campi, i problemi si palesano, ma le soluzioni arrivano soltanto molto tempo dopo. E perché le leggi riescano a occuparsi di ciò che oggi è un problema serve mobilitazione, raccolta di informazioni, servono persone come Axel e i volontari delle ong e poi serve che quelle informazioni raccolte si diffondano, che i politici le prendano in considerazione. Non è roba da poco (e anche questo non vale solo per l’inquinamento).

    Le misurazioni di inquinanti presenti nell’aria, va detto, esistono già. In Italia se ne occupa l’ARPA (l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) con un sistema di centraline posizionate in punti strategici. Ma allora perché c’è bisogno dei rilevamenti delle ong? Innanzitutto perché le stazioni (tecnicamente si chiamano analizzatori automatici) sono posizionate male, in punti in cui l’aria è enormemente più pulita che nelle zone inquinate della città. Qui a Livorno ci sono tre stazioni, nessuna vicina al porto. E questo è già un fatto grave di per sé, perché controllare punti lontani dall’inquinamento causato dalle grandi navi equivale a non controllare tout court. C’è poi un ulteriore problema, e sta a monte: l’inquinamento monitorato è quello del PM10, ma le particelle più pericolose sono quelle più piccole come il PM2,5; il PM1fino al PM0,1 (comunque connesse alle stesse emissioni da cui deriva il PM10). Di nuovo: un controllo dell’aria fatto sugli inquinanti meno dannosi è un controllo inutile. Per questo se ne occupano le ong, perché su certi pezzi di territorio, lo stato non ha gli strumenti adeguati, non ci arriva (dopotutto avere conferma che il mare sia il meno controllato e regolamentato dei territori nazionali è facile, basta pensare alla questione migratoria, anche lì sono le ong a occupare un vuoto legislativo).

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    Le stazioni ARPA del comune di Livorno. Nessuna è vicina al porto.

    Ma facciamo un passo indietro, perché l’inquinamento della navi è così importante per l’aria delle città? L’ho chiesto ad Axel. Dice che è sia una questione legislativa (le regole sui carburanti e i motori di automobili, treni e bus sono enormemente più stringenti che quelle applicate alle navi), che una questione percettiva, culturale: il mare è considerato come una specie di territorio a sé, fuori norma per natura, quando si parla di smog e inquinamento dell’aria tutti pensano alle auto, nessuno alle navi. Eppure, a guardare i numeri l’attenzione andrebbe invertita. Un solo camino di una sola grande nave (e ogni nave ne ha più d’uno) inquina, in un giorno, quanto tutto il traffico cittadino di una città come Livorno. Me lo racconta Gioia, un’ex dipendente ARPA che ha eseguito di persona i rilevamenti, e aggiunge che presto pubblicherà i risultati del suo studio. “Addirittura?” dico tra me e me, ma troverò conferma che queste sono le vere proporzioni del problema, l’Unione Europea ha stimato che le emissioni causate dal trasporto marittimo, se non si interviene dal punto di vista legislativo, arriveranno a essere un quinto dell’insieme di tutto l’inquinamento prodotto globalmente.

    La rilevanza dell’inquinamento delle grandi navi può sorprendere, ma non dovrebbe, soprattutto se si considerano alcuni aspetti del trasporto marittimo, come il fatto che in porto questi giganti galleggianti tengono i motori accesi per assicurarsi l’energia elettrica e la mole di energia utile a una grande nave è enorme, a volte paragonabile al consumo della città portuale che la ospita. Il giornalista ed esperto di questioni ambientali John Vidal, ha scritto sul Guardian che “15 delle più grandi navi in attività oggi inquinano quanto i 760 milioni di automobili in circolazione”. Insomma si può dire che le grandi navi siano delle specie di città galleggianti, o per lo meno dei quartieri, che però hanno il permesso di stare giorni interi a ridosso dei centri urbani di città come Olbia, Livorno e Genova, coi motori accesi e un carburante di una qualità enormemente inferiore a quello delle automobili. Che senso ha? Perché nel centro di Livorno le auto seguono certe regole e le navi delle altre? L’aria è la stessa, il centro città è lo stesso quindi le regole, a rigor di logica, dovrebbero essere le stesse. L’obiettivo delle ong è anche questo: mettere fine a paradossi del genere.

    Oltre ad Axel, in questo viaggio seguo anche Anna Gerometta, avvocato e parte dell’associazione Cittadini per l’aria, una signora pacata, con la voce fine e una risata che ogni tanto tradisce il suo stato d’animo. Anna è la prima persona che ho sentito via mail quando ho iniziato a lavorare a questo reportage. Con la sua associazione, Gerometta, è stata una dei cittadini del capoluogo lombardo a fare pressione sul comune di Milano perché si intervenisse sul problema delle emissioni di NO2 presenti nell’aria.

    Sul sito dell’associazione avevano inserito un form che permetteva di mandare direttamente una mail al sindaco Sala, chiedendo di eliminare dalle strade cittadine i veicoli più inquinanti entro il 2025. Anche Anna, come Axel, mi sembra piena di forza di volontà, di quelle persone con un certo rigore interno, convinte di qualcosa che ne motiva le azioni, le giornate e forse addirittura la vita intera. In pratica io sono l’unico dubbioso del gruppo, il rompipalle che fa domande provando a fare continuamente l’avvocato del diavolo, ma mi sopportano bene perché se è vero che attivisti come Anna sono votati alla causa è vero anche che sono abituati al dibattito, alla mediazione, perché è solo così che si trovano accordi e si arriva ai risultati.

    Sono operazioni delicate, queste in cui si fa pressione sulle istituzioni perché si muovano su certi temi, tocca associarsi tra privati cittadini, tra persone spesso molto diverse, poi trovare finanziamenti, organizzarsi dal punto di vista legale, fare mail bombing, portare avanti misurazioni con esperti come Axel per riuscire, alla fine, ad andare a bussare alle porte delle amministrazioni, dei politici, di chi poi quelle decisioni su quei temi le dovrà prendere. E forse è anche un po’ frustrante, perché si tratta di percorrere un iter dall’inizio, dall’organizzazione alla raccolta delle informazioni, fino poi a spingere quei dati sui media, sperando che chi di dovere si muova di conseguenza, ma l’ultima parola spetta sempre ad altri ad altri. A sindaci e al loro poter emettere ordinanze o a commissioni e tavoli di lavoro europei dove tutto può saltare o essere rimandato all’infinito. Bisogna mettere la persona giusta alle strette, non solo convincerla, ma fare in modo che non possa fare altro che prestare ascolto a chi si è mosso per portare avanti un’istanza.

    Mentre scende la sera mi viene una cosa e decido di appuntarmela: ormai da qualche anno si parla molto di democrazia diretta, ma paradossalmente questa delle ong, che diretta lo è per davvero, non riceve chissà quanti applausi.

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    Secondo giorno, Livorno è bellissima e a mezzogiorno c’è il sole, i marmi delle piazze e l’acqua verde dei canali brillano sotto i raggi di luce dell’estate che ormai sta arrivando. Stiamo andando al Comune, l’amministrazione ha concesso una sala per una conferenza stampa, ma il sindaco ha già comunicato che non ci sarà. Al posto suo l’assessore all’ambiente, da cui ci si aspetta molto anche perché, essendo del Movimento 5 Stelle, l’attenzione alle tematiche ambientali (e a quelle della partecipazione attiva dei cittadini in politica) è data quasi per scontata. Anna espone il problema davanti a giornalisti, cittadini sensibili al tema e alcuni esponenti dell’amministrazione poi passa la parola ad Axel, che parlando in inglese è costretto a farsi tradurre.

    Ma le informazioni hanno un problema (e non è che sono espresse in inglese) e i giornalisti del posto se ne lamentano subito: innanzitutto sono troppe, poi sono troppo tecniche. Il sottotesto è questo: facciamola breve, che altrimenti la notizia non se la legge nessuno. E qui c’è il primo grande problema comunicativo di chi lavora con questioni tecniche come quelle ambientali, come fare a farsi ascoltare? L’inquinamento di cui si parla non si vede, i nomi dei componenti chimici sono difficili persino da ricordare, un giornalista del posto a un certo punto dice “mica ci si deve scrivere un libro”. A un certo punto Axel, nonostante non capisca l’italiano, interrompe tutti e chiede di essere tradotto, dice: “perché una vita nel nord Europa dovrebbe valere meno di una vita nel sud Europa?”. Dice così perché nel mare del nord le normative si sono adeguate, i provvedimenti sono stati presi, innanzitutto il carburante più inquinante è stato proibito. E si potrebbe fare subito lo stesso anche nel Mediterraneo, senza cambiare navi o chissà cos’altro. Anna lo traduce, io provo a guardare le facce di chi ascolta per provare a capire quanto l’informazione è passata, ma sono tutti chini su appunti e tablet e non riesco a farmi un’idea chiara. Spingere sul fatto che ci si potrebbe adeguare sin da subito a standard meno dannosi per la salute di tutti mi sembra una buona mossa comunicativa, poi Axel rincara la dose, fa all in e ci mette l’economia: “chi vorrà mai visitare una città inquinata?” e qui le facce dei presenti sembrano reagire un po’ di più. Livorno, infatti, per quanto bella, vede molti turisti sbarcare e andare direttamente a visitare le altre città toscane più famose come Pisa e Firenze. Se la città continua a subire l’inquinamento lo fa a anche a vantaggio dei concorrenti., Insomma, una città più pulita sarebbe più attraente e questo significherebbe più soldi per i livornesi.

    Ma ecco a cosa si riferiva Axel con la differenza tra nord e sud dell’Europa: la maggior parte delle grandi navi utilizza un carburante molto inquinante che può contenere fino al 3.5% di zolfo. Per avere un paragone, il diesel delle auto, in Europa, può contenerne solamente lo 0,001%. Paesi come la Danimarca, però, sono intervenuti sull’inquinamento dovuto al trasporto marittimo imponendo un massimo di 0,1%. Non si tratta di adeguare di colpo gli standard del trasporto marittimo a quelli del trasporto su terra, ma di fare dei passi, seppur piccoli, in questa direzione. L’Italia li farà?

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    Oltre ad Anna e Axel, in questi giorni, nel gruppo di attivisti con cui faccio questo viaggio, c’è anche Beate. Anche lei è tedesca e lavora per una ong che si chiama Nabu, se la googlate viene fuori la divinità mesopotamica, ma Nabu sta per Naturschutzbund Deutschland, la più grande ong che si occupa di temi ambientali in Germania. Sono due anni che Beate si occupa esclusivamente di inquinamento dovuto alle grandi navi, le chiedo dei risultati raggiunti, mi racconta che grazie alla pressione mediatica esercitata su istituzioni europee e, di conseguenza, sugli armatori che producono e commercializzano le navi, le nuove imbarcazioni avranno l’obbligo di essere dotate di un particolare allaccio per la corrente elettrica in modo che una volta attraccate al porto possano per lo meno spegnere i motori. Ma servono, ovviamente, anche le attrezzature in porto, proprio come le auto elettriche non basta certo che siano tali, servono dei punti di ricarica. La città di Livorno ha una banchina attrezzata per la ricarica ma (ecco che arriva il classico inghippo organizzativo) in quel punto l’acqua non è sufficientemente profonda per far attraccare le grandi navi… che senso ha? Ma soprattutto, quel punto di ricarica è costato milioni di euro (il Tirreno scrive che “l’impianto, che ha una potenza erogabile fino a 12 MW, una tensione di alimentazione compresa tra i 6.600 e gli 11.000 Volt e una frequenza di 50/60 Hz, è costato 3,5 mln di euro”) e se non viene utilizzato va da sé che sia uno spreco.

    Mi sono scritto un appunto alla fine del secondo giorno: “il problema è enorme e globale, ma le soluzioni ci sono e le richieste di cittadini e ong non sono utopiche né antieconomiche, ma c’è 1) la classica cosa della burocrazia legislativa 2) il fatto che i temi ambientali non fanno parte di nessuna agenda politica e se ci sono stanno in fondo alla lista 3) un problema di organizzazione enorme”. Tra un giorno andrò a Bastia, in Corsica, un’altra città piccola e un altro porto molto trafficato. Ho la sensazione che il problema, a casa dei cugini francesi, non sia troppo diverso. Si partirà alle 6 del mattino. Nel frattempo la mia gola, da quanto mi fa male mandar giù la saliva, credo proprio stia diventando una pietra.


    ph. Enrico Pitzianti

    Note