Portami via. Intervista a Marta Cosentino

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    In questi giorni concitati, in cui si sta celebrando il processo mediatico e non solo ai soccorsi in mare da parte delle ONG, a Milano, ci sarà l’anteprima di Portami via un documentario di Marta Cosentino, giornalista appassionata che ha cercato di descrivere un’alternativa, un cambiamento possibile.

    Portami via è infatti, racconto del viaggio da Beirut a Torino di una famiglia di Homs grazie al corridoio umanitario organizzato da Mediterranean Hope. Mediterranean hope è un progetto ecumenico promosso dalla Comunità di Sant’Egidio assieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Chiese valdesi e metodiste ed è la dimostrazione che un’alternativa legale e sicura alle morti in mare è percorribile.

    Dal febbraio dell’anno scorso 13 voli Beirut-Roma hanno condotto in Italia 8 gruppi di profughi prevalentemente siriani, per un totale di 791 persone e si stanno aprendo nuovi corridoi. Marta Cosentino ci racconta quel percorso e quella partenza.


    L’appuntamento per l’anteprima del film, con introduzione di Gad Lerner è oggi 18 maggio al Cinema Beltrade in via Nino Oxilia alle 21.30

    Portami via: da dove e per dove?

    Portami via, dovunque mi trovi e dovunque voglia andare. Portami vicino, lontano, in un viaggio a scadenza o senza ritorno. Portami via per necessità, disperazione, per pura e semplice curiosità, portami via e non importa il motivo che mi spinge a chiederlo. Prendimi per mano e portami con te.

    I fatti parlano chiaro: la determinazione – legittima, sacrosanta, umana – a migrare è di gran lunga più tenace della determinazione dei governi a frapporre, di volta in volta, degli ostacoli tra la partenza e l’arrivo.

    “Viltà è non scegliere, non esiste terra di mezzo tra inferno e paradiso”, scriveva Nizar Qabbani e, sulle migrazioni, non ci si può davvero più concedere il lusso di non scegliere da che parte stare. La reazione al “portami via” è un test di umanità, il banco di prova della nostra capacità di non essere indifferenti.

    Da dove nasce l’idea del documentario? Dove vogliono andare le persone che hai incontrato? Cosa si cerca e cosa si lascia?

    Portami via nasce da un azzardo: volevo essere testimone diretta di un’eccezione preziosa nel dedalo delle strade di chi cerca salvezza, felicità, altro.

    All’epoca vivevo a Beirut, quando sono inciampata in qualcosa di apparentemente marginale ma dal potenziale politico rivoluzionario: vie di accesso legali e sicure, voli di linea e documenti in tasca per i richiedenti asilo che volevano arrivare in Europa. Quella storia avrebbe lasciato un segno e meritava di essere raccontata. Ho incontrato buona parte delle persone che, da lì a poco, sarebbero partite. Cercavo una famiglia in particolare, cercavo il caso singolo, il dettaglio, quella sineddoche narrativa che allontana il rischio di parlare di numeri, anziché di persone.

    Quando ho conosciuto Wejdan, Jamal e i loro figli ancora non sapevo che, insieme, avremmo scritto un diario a più mani, spettatori delle reciproche vite, lungo un ponte di sogni, paure e aspettative, dalle torture nelle carceri di Assad fino ad un nuovo inizio, a Torino.

    Portami via è l’intima fotografia della metamorfosi nella vita di una famiglia di Homs, una storia che racchiude in sé i risvolti personali del disastro siriano, le difficoltà proprie della condizione di profugo in Libano, l’inquietudine tra l’attaccamento alle proprie origine e la scommessa di un futuro in Europa.

    Quali sono state le difficoltà?

    Le difficoltà attengono tutte alla costruzione dell’identità, una faccenda sempre alquanto complessa. Le prime sono arrivate quando mi sono scoperta molto più vittima di alcuni stereotipi di quanto mi piacesse pensare. Le seconde sono emerse quando mi sono identificata, accorgendomi di condividere lo stesso alfabeto emotivo. Le ultime, quando mi sono sentita inadeguata, invadente, di troppo.

    Come ci si comporta “davanti al dolore degli altri”?

    È utile domandarselo, spesso e volentieri.

    Quali sono stati invece gli eventi inattesi che ti hanno sorpreso? Hanno cambiato il corso della narrazione?

    Non è immediato percorre a ritroso un flusso disordinato ma molto fluido.  Il 3 maggio 2016, a bordo del secondo corridoio umanitario da Beirut a Roma, ho sentito il peso della responsabilità, per la prima volta in maniera tanto stringente. Al tempo stesso però ho provato il brivido del privilegio, molto spesso immeritato, di poter essere testimoni della vita degli altri. È stata una di quelle volte in cui mi è capitato di pensare che la vita che fai, che hai voluto, costruito, che a molti hai imposto – nonostante le mancanze, le perdite e le incomprensioni – sia la cosa più bella che potessi pensare di fare. E il giornalismo – ingrato, malpagato, frustato e frustante – è talvolta invece un onore e il più sottile trampolino per la felicità.

    Il progetto è stato finanziato attraverso un crowdfunding: perché questa scelta? Com’è andata?

    Quando ho iniziato a lavorarci non avevo chiari gli scenari ma ben sapevo che questa storia non mi avrebbe aspettato.
    Negli ultimi mesi mi sono spesso domandata se avrei scelto ancora di intraprendere questo progetto e, incosciente forse, alla fine mi sono sempre risposta che, nonostante tutti gli intoppi, rifarei e rivivrei esattamente quello che ho fatto e vissuto.
    Come spesso succede però, specie per le cose belle, quello che capita di investire non sono solo tempo e un buon bagaglio di emozioni ma anche dei soldi. Per questo, lo scorso autunno, insieme ad Invisibile Film, ho aperto una campagna di crowdfunding sulla piattaforma di Indiegogo, nel tentativo di rendere il più possibile collettivo uno sforzo, nato e coltivato nell’intimo.

    È andata meglio di quanto sperassimo anche se mi sono accorta di quanto non sia per nulla immediato chiedere un contributo per un progetto in parte già in essere.

    Portami via segue il viaggio organizzato da un corridoio umanitario: come funziona?

    “Un buon esempio di quello che l’Europa può fare per aiutare i migranti e affrontare gli attuali flussi di rifugiati”.  Così il 2 marzo 2016 Nils Muiznieks, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, ha definito il progetto pilota dei corridoi umanitari, vie di accesso legali e sicure per i richiedenti asilo.

    Nati come azzardo della società civile, ora aspirano a diventare sistema: dopo l’ennesimo naufragio al largo delle coste di Lampedusa, quello in cui il 3 ottobre 2013 persero la vita 386 migranti, realtà da anni attive nel settore dell’accoglienza hanno incominciato a parlare di aerei e ponti, laddove tutt’intorno venivano costruiti muri. È un progetto ecumenico che ha visto impegnati insieme cattolici e protestanti – Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Chiese valdesi e metodiste – nel tentativo di trovare, tra le pieghe della legislazione europea sui visti, il modo per permettere ai richiedenti asilo di presentare domanda in un Paese terzo e sicuro senza prendere il mare, senza rischiare la vita e senza arricchire il traffico illegale di esseri umani.

    portami via

    Il 15 dicembre 2015, negli stessi giorni in cui l’Unione Europea discuteva con la Turchia le condizioni del futuro accordo sui migranti, un Protocollo d’intesa – siglato tra i promotori, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie) e il Ministero dell’Interno (Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione) – ha sancito la possibilità che, nell’arco di due anni, arrivassero legalmente in Italia oltre 1000 profughi dal Libano, dall’Etiopia e dal Marocco, intercettando così i tre grandi flussi migratori degli ultimi anni.

    Senza che si fosse mai visto nulla del genere in Europa, lo scorso 29 Febbraio, all’aeroporto romano di Fiumicino sono atterrate 93 persone, tra cui 41 minori.

    In quell’occasione, l’allora Ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni aveva dichiarato che “i corridoi umanitari sono un messaggio all’Europa per ricordare che alzare muri non è la soluzione per affrontare la crisi dei migranti”.

    Pochi giorni dopo, il 3 marzo 2016, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella aveva aggiunto che “la creazione dei corridoi umanitari per i migranti e i profughi colloca l’Italia all’avanguardia della solidarietà e rappresenta un momento di realizzazione concreta dei principi della Costituzione italiana”.

    Nei mesi seguenti, con una serie di successivi voli di linea, sono arrivate in Italia circa 800 persone, per la maggioranza siriani, sia musulmani che cristiani che, in ragione della loro condizione di vulnerabilità, hanno ottenuto un visto umanitario a validità territoriale limitata rilasciato dall’ambasciata italiana in Libano.

    Infatti, ai sensi dell’art.25 del Regolamento (CE) n.810/2009 del 13 luglio 2009 che istituisce il Codice comunitario dei visti, uno Stato membro può emettere dei visti per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali.

    Questo passaggio rende replicabile in tutti gli Stati dell’area Schengen questa “buona pratica”, attivabile non solo da associazioni o privati ma direttamente dai governi. Il corridoio umanitario gestito dagli “sponsor” sta attecchendo anche in Europa: verrà attivato in Francia, dove si é incominciato a parlarne seriamente proprio nelle ore dello sgombero di Calais. Le associazioni proponenti, sulla base di un criterio di vulnerabilità svincolata dall’appartenenza religiosa o etnica, predispongono una lista di potenziali beneficiari con cui sono entrate in contatto attraverso esperienze dirette o tramite segnalazioni fornite da attori locali come Ong ed organismi internazionali. Ogni segnalazione viene in seguito verificata dalle autorità consolari dei Paesi coinvolti per permettere il controllo da parte del Ministero dell’Interno.

    Una volta arrivati in Italia i profughi ricevono assistenza legale nella presentazione della domanda di protezione internazionale,
    ospitalità, sostegno economico e un affiancamento nel percorso di integrazione in Italia attraverso l’insegnamento della lingua e lo studio della Costituzione. Il progetto, inoltre, non prevede oneri per lo Stato perché i due milioni di euro che, entro la fine dell’anno consentiranno l’arrivo di un migliaio di profughi, sono tutti a carico del terzo settore. L’iniziativa infatti è stata in larga parte finanziata grazie all’otto per mille della Chiesa Valdese.

    Alla luce dei risultati ottenuti con le prove generali in Libano, lo scorso 12 gennaio, al Viminale è stato firmato un secondo Protocollo di intesa per l’apertura di nuovi canali dall’Etiopia, il Paese che accoglie il maggior numero di rifugiati in Africa.
    Nell’arco dei prossimi mesi arriveranno in Italia 500 persone: eritrei, somali e sud-sudanesi. In questo caso, i costi verranno sostenuti dalla Conferenza Episcopale Italiana che agirà attraverso la Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes.

    Pensi che i corridoi umanitari possano essere un’alternativa percorribile? Quali limiti vedi?

    Di fatto lo sono già, non possono essere l’unica soluzione ma sono senza dubbio un’alternativa virtuosa, nella pratica e nelle intenzioni. I limiti maggiori li ravviso nel ritardo (colpevole) di chi fatica ancora ad accettare che le persone devono essere messe in condizione di muoversi in sicurezza. I limiti maggiori li ravviso nel tempo che, anziché venir impiegato a moltiplicare i canali di accesso, viene sprecato in illazioni vigliacche contro coloro che “in modo non consentito e desiderabile” fanno quello che l’Europa ha scelto di non fare.

    Credi sia possibile un cambiamento culturale sulle migrazioni? In che modo? Cosa manca?

    Credo che gli sforzi collettivi valgano di più di quelli individuali e che ognuno, per il proprio pezzettino, possa contribuire quantomeno ad aggiustare il tiro di una narrazione. “Chi parla bene, pensa bene” e poche cose quanto la scelta del lessico sulle migrazioni sono davvero lo specchio del pensiero che sottende all’utilizzo delle parole.

    Noi giornalisti in questo abbiamo un’enorme responsabilità, nell’aver alimentato, attraverso il ricorso a metafore belliche o idrauliche, la costruzione di un immaginario distorto. Parlare di approdi e non di sbarchi, di gente in cammino e non di invasione, non distinguere tra migranti economici e richiedenti asilo, non sono finezze lessicali, sono prese di posizione.

    Erri De Luca, nel suo diario a bordo della nave Prudence di Medici Senza Frontiere, scriveva: “Affogano in novantasette. Quando si tratta di vite umane, le devo scrivere con le lettere e non con le cifre”. Queste sono prese di posizione, non licenze poetiche.

    Note