Lessico della violenza patriarcale: #femminicidio

In questi giorni di grande emotività legati ai recenti eventi di cronaca, la discussione sul tema della violenza patriarcale ha prodotto polarizzazioni e spesso confusione. 

La prima questione riguarda le definizioni. Di cosa parliamo e cosa consideriamo come femminicidio? Come contiamo le vittime? Questa misurazione è comparabile con quella che viene effettuata in altri paesi? E in che modo questo dato può essere correlato ad altri per analizzare la violenza sistemica contro le donne in Italia? 

In secondo luogo: di che violenza parliamo? Quali sono le cause? Spesso si riconducono questi fenomeni alla violenza e alla struttura patriarcale. Di cosa parliamo quando parliamo di patriarcato? Come si traduce e rende comprensibile una questione epistemica?

Infine, gli strumenti: come fare prevenzione? Cosa chiedere al diritto? E cosa può fare la politica? 

Questo breve Lessico della violenza patriarcale vorrebbe provare a fare ordine sui dati e sulle definizioni necessarie per orientare il dibattito, perché le parole non sono neutre, ma nemmeno la violenza lo è, e chiamare le cose col proprio nome è un ottimo punto di partenza per contrastare il livello simbolico, punto di partenza di ogni forma di violenza di genere. Si inizia con #femminicidio, e si proseguirà con #patriarcato e #lotta.

Di cosa parliamo quando parliamo di patriarcato?

Il 25 novembre, quest’anno, rappresenta una data in parte attesa e in parte anticipata da  due settimane di emozione e partecipazione per le drammatiche vicende che hanno portato all’uccisione della studentessa Giulia Cecchettin, di 22 anni. 

Il dibattito politico e culturale ha corredato la cronaca provocando una grandissima quantità di visioni, commenti e discorsi sul tema della violenza contro le donne, femminicidio e contrasto alle forme di violenza strutturale. Particolare rilievo è stato dato all’analisi lucida e per la prima volta – politicamente situata – proposta dalla sorella della vittima Elena Cecchettin, che ha definito il fenomeno in chiave sistemica: “Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto”.

Provare a proporre analisi in un clima così commosso è difficile. Solo qualche giorno fa, coinvolta in un piccolo progetto in vista di questa data da alcune studentesse, io stessa mi sono trovata scossa di fronte alle loro lacrime inattese, che non riuscivo ad interpretare e a decifrare: erano di mera commozione o di paura? Erano emozioni empatiche o espressione del timore che vivono oggi le ragazze rispetto alla violenza? 

Non ho soluzione per questi dubbi, perché io stessa vivo una scissione tra il mio posizionamento politico come femminista e i tentativi più analitici di comprendere gli eventi. Posso solo partire da ciò che conosco e dagli strumenti che possiedo, ossia gli studi di sociologia e del diritto, nel tentativo di inquadrare un fenomeno, misurarne le trasformazioni e immaginare alcuni scenari possibili. 

Per quel che riguarda le definizioni, non esiste una definizione univoca in termini normativi di femminicidio. C’è una definizione ricavata dalle norme, in particolare dalle modifiche della legge 119/2013 sul contrasto alla violenza, in cui il legislatore ha scelto di agire sull’impianto già esistente, mediante delle modifiche di carattere sostanziale e procedurale.

La prima definizione operativa del femminicidio come fenomeno sociale arriva da Diana Russell nel 1974: “Il femminicidio è un fenomeno che gli interessi patriarcali si affannano a negare: piuttosto che contribuire a far conoscere l’entità del fenomeno e farlo diventare motivo di interesse politico e sociale, le più potenti istituzioni della società patriarcale, il potere legislativo, giudiziario, la polizia, i media, hanno largamente negato l’esistenza del femminicidio […] Il principale metodo per oscurare il tema del femminicidio è l’individualizzazione”. 

Una seconda definizione arriva dal Messico. La vicenda delle maquiladoras, le lavoratrici di Ciudad Juárez uccise in massa, è stata il punto di partenza per la riflessione politica e scientifica di Marcela Lagarde, antropologa e attivista impegnata in prima linea nella lotta contro la violenza alle donne, che ha definito il concetto di come “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti in ambito pubblico e/o privato, caratterizzata da un insieme di condotte misogine come i maltrattamenti, la violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica, patrimoniale, familiare, comunitaria e istituzionale […]Tali condotte, a seguito dell’impunità sociale o dello Stato, possono, ma non per forza devono, sfociare nell’ omicidio o nel tentativo di omicidio o in altre forme di morte violenta delle donne o delle bambine.”

La definizione è entrata in alcuni complessi normativi e nell’uso del senso comune, ma non ha una traduzione operativa dal punto di vista normativo. Il portato simbolico, infatti, potrebbe essere molto scivoloso dal punto di vista penalistico. Tuttavia, la denominazione in uso comune ha permesso di evidenziare la dimensione prima collettiva, poi globale, infine strutturale/sistemica del fenomeno. Non essendoci un vero reato di “femminicidio”, alcuni tentativi di circoscrivere il fenomeno arrivano dall’EIGE, l’istituto europeo per la disuguaglianza di genere, che ha analizzato la violenza sulle donne in chiave comparativa. 

Secondo l’EIGE la mancanza di una definizione uniforme ostacola la quantificazione del fenomeno del femminicidio. L’istituto si richiama alla Dichiarazione di Vienna delle Nazioni Unite che ha individuato per la prima volta diversi tipi di femminicidio, tra cui: 

  • omicidio di donne a seguito di violenza da parte di un partner intimo; 
  • tortura e uccisione a sfondo misogino di donne; 
  • uccisione di donne e ragazze in nome dell’onore; 
  • uccisione mirata di donne e ragazze nell’ambito di conflitti armati; 
  • uccisione di donne per motivi di dote; 
  • uccisione di donne e ragazze a causa del loro orientamento sessuale e identità di genere; 
  • uccisione di donne e ragazze aborigene e indigene a causa del loro genere; 
  • infanticidio femminile e feticidio a fini di selezione sessuale basato sul genere; 
  • decessi correlati a mutilazioni genitali; 
  • accuse di stregoneria; 
  • altri tipi di femminicidio legati a bande, criminalità organizzata, spaccio di droga, tratta di esseri umani.

In tutto il mondo i femminicidi sono frequenti, benché lo siano molto di più in Asia, in Africa e in America che in Europa e in Oceania (UNODC, 2018).

I dati comparativi diffusi dall’United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) mostrano che nel periodo 2004-15 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di numeri ben comparabili.

In Italia, sebbene il tema della violenza fosse stato tematizzato dal femminismo come centrale per il dibattito politico, è con i due casi di Franca Viola nel 1996 e di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez nel 1975 che il tema è diventato centrale nell’agenda politica. Se la legge sulla violenza sessuale è del 1996, è solo dal 2013, con la ratifica della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa e la conseguente adozione della legge n. 119/2013, l’Italia si è dotata formalmente di un sistema antiviolenza che ha visto un costante intervento legislativo nel tentativo di contrasto e di risposta politica al fenomeno. Gestito attraverso piani nazionali triennali e finanziamenti annuali ai centri antiviolenza e alle case rifugio, tale sistema è governato dal Dipartimento per le pari opportunità (DPO). ,

A differenza di quanto accade nella maggioranza dei paesi occidentali, nel periodo 2007-15, in Italia gli omicidi di donne sono rimasti praticamente costanti e di conseguenza il vantaggio rispetto agli altri paesi si è assottigliato. E Inoltre, se si pensa al caso italiano, la violenza contro le donne, mostra una tendenza a diminuire progressivamente sul piano quantitativo, ma, laddove si manifesta, è più grave (Istat, 2015).

Lo stesso dato vale per gli anni successivi. Negli ultimi anni, i numeri sono leggermente scesi (dai 200 del 2006 ai 106 a novembre del 2023), ma non hanno seguito l’inflessione che hanno avuto gli omicidi in valore assoluto. Il dato sulle morti di donne per mano maschile rimangono costanti. Ma la definizione di femminicidio, oltre a nominare il processo e il tipo di vittima, ci basta? Quali elementi rimangono problematici dal punto di vista politico? 

bell hooks ha contestato queste definizioni, proponendo di ragionare sul concetto di “violenza patriarcale”, sostenendo che “violenza domestica” serbasse una tenerezza e un’intimità che fa perdere il vero contenuto politico della forma di violenza. Per hooks la violenza patriarcale tra le mura domestiche “si fonda sull’idea che è accettabile che un individuo dotato di maggior potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva”. 

Inoltre hooks sostiene che l’espressione «violenza patriarcale» sia utile perché, a differenza della formula più accettata di «violenza domestica», ricorda continuamente a chi ascolta che la violenza in famiglia è legata al sessismo e al pensiero sessista, al dominio maschile.

Anche sulla forza del patriarcato e sulle ragioni della recrudescenza della violenza ci sono differenti interpretazioni possibili. Tamar Pitch già nel 2008 sottolineava che “la violenza maschile contro le donne è indizio non del patriarcato, ma della sua crisi. È adesso, infatti, che la si riconosce come violenza, che la si chiama così, piuttosto che giusto controllo, correzione adeguata, legittimo uso di mezzi di disciplina”. Essa inoltre “si allarga, a misura che le donne acquisiscono libertà e, a loro volta, quote di potere”, poiché “è proprio quando, come adesso, le identità, le comunità, si rivelano illusorie, le famiglie inesorabilmente plurali e diversificate, i legami costitutivamente fragili, che il controllo diventa violenza esplicita, segno di impotenza e frustrazione, piuttosto che di un senso di autorità legittima”.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di patriarcato? Come possiamo definirlo?

(Segue)

 

Immagine di copertina da Unsplash, ph. Mika Baumeister