Il significato di ‘distanza’ quando lo si insegna dentro una scuola ‘a distanza’

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Minima&Moralia.

La storia non avverte prima di diventare tale. E gli uomini, che la interpretano, possono leggerla soltanto a posteriori. Io sono un insegnante di lettere e opero all’interno di una scuola media. Fin da quando siamo stati raggiunti dal provvedimento sulla DAD (Didattica a Distanza) ci siamo interrogati, con gli altri docenti, sul significato della parola “distanza”.

Immediatamente abbiamo fatto i conti con una duplicità: a una distanza didattica, di trasmissione del sapere, si aggiungeva una distanza di carattere fisico, emotivo. Questo perché – e ogni docente che sa fare il proprio mestiere lo sa – non esiste insegnamento che non tenga conto della relazione, da un lato fisica, concreta e tangibile, dall’altra sensibile, tramite un contatto meno solido ma ugualmente importante, attraverso la voce, lo sguardo, la mimica.

Cosa ha comportato dunque questa trasformazione? Se c’è qualcosa che ai ragazzi questa generazione manca, oggi più di sempre, è la possibilità di vivere con spirito comunitario; ognuno di loro sperimenta a casa la noia e la solitudine come mai prima è accaduto e la scuola, il primo aggregatore della loro vita collettiva, gli permette di sperimentare la condivisione, l’interdipendenza, la socialità, specialmente considerando la virtualità, quindi proprio la logica della socialità mediata dall’assenza di corpo, come dominante delle loro giovani vite. E proprio in questa epoca di illusionismo, ogni giorno davanti agli occhi ho avuto modo di fare esperienza della loro trasformazione in un contatto quotidiano che, da cose semplici fino alle più complesse, imparasse l’incompletezza di quella virtualità in cui sanno di solito soltanto chiudersi e sparire dal mondo.