È iniziata la Fase 2 e non ho nessuna voglia di uscire
Non voglio uscire di casa.
Certo, mi mancano luoghi e persone.
Certo, il poter uscire è anche il simbolo che forse sta per finire – o, almeno, diminuire – la morte e la sofferenza di questi giorni.
Ma.
Ma l’aria puzzava già, oggi. Dopo un solo giorno di Fase 2.
È cambiato il suono della città.
Certo, io sono fortunato: abito a Roma, non a Milano, o a Bergamo, per esempio, dove il suono della città, per tutto questo tempo, è stato un suono continuo di sirene, che ti entra dentro e ti cambia.
A Roma era tutto un cinguettar di uccellini. Un silenzio come non se n’era mai sentito da tanto.
E già, invece, oggi, si sentivano le macchine, e i clacson, e nella mia amata/odiata Torpignattara si son sentite anche una lite, per strada, e delle bestemmie.
Man mano che ci penso, inizio a capire perché non voglio uscire di casa.
Perché, alla fine, sono fortunato.
Vivo con la persona che amo. Ho dei soldi da parte. Ho un lavoro che, tante volte, posso fare anche da casa.
Vivo in una casa non grande, ma luminosa, con dei mobili comodi, molta luce, e un bel terrazzo condominiale a una sola rampa di scale di distanza. Addirittura abbiamo un proiettore e una parete bianca davanti, per proiettare. Io e Oriana non ci diamo fastidio, anzi. Litighiamo, eh, ma è sempre perché ci vogliamo bene, e perché vogliamo stare insieme, e passare del tempo insieme facendo cose belle e significative. E, infatti, abbiamo trovato modo di farle anche stando chiusi dentro casa: abbiamo scritto, letto, creato, fotografato, lavorato.
Non c’è nessuno che vuole picchiare Oriana, quando è a casa, o violentarla sistematicamente. Non c’è nessuno che tormenta sistematicamente Salvatore. Non siamo chiusi in una casa senza sfogo, magari in 5 con 35 metri quadri. Non abbiamo strettamente bisogno di uscire: riusciamo a lavorare, abbiamo dei soldi per farci consegnare le cose buone da mangiare a casa. Nel distanziamento fisico e sociale, io e Oriana siamo addirittura diventati più belli: siamo dimagriti, mangiamo meglio, e ogni mattina quando ci svegliamo facciamo esercizi e i 5 tibetani.
Stare a casa, alla fine, per noi è persino bello. Non abbiamo nessuna frustrazione. Non abbiamo bisogno di uscire di casa per andare a lavorare. Non dobbiamo neppure “fuggire” a lavorare, perché magari sentiamo il lavoro come unica fuga o soddisfazione. Ci sono tante storie a riguardo. Il matrimonio e/o figli non desiderati. La solitudine, e tutte le persone che solo lavorando incontrano qualcuno. Oppure quel lavoro che per così tanti è l’unico modo di sentirsi realizzati: “Cosa fai?” “Lavoro.” O anche intere culture e immaginari: “io lavoro, guadagno e sono indipendente!” O i complicati obblighi del lavoro precario, e le angosce di quando non c’è.
E quindi, data la mia fortuna, sembrerebbe ovvio che non mi vada poi così tanto di uscire. Perché lì fuori, ogni minuto che avanza nella Fase 2, riprendono tutti i comportamenti che mettono in crisi la mia possibilità di continuare a sopravvivere, nella mia fortuna, su questo pianeta: l’inquinamento, l’aggressione ambientale e sociale che sono le nostre città e le nostre industrie, l’insostenibilità ecosistemica delle nostre città.
Ma c’è dell’altro dietro questa mia reticenza al desiderio di uscire.
Perché, devo confessarlo, per un attimo ci avevo creduto.
Non fa niente se i miei cari Alberto Abruzzese, Bifo e gli altri mi dicevano di non essere tanto fiducioso.
Se non fosse stata la tragedia che è, quasi avrei ringraziato il Covid19 per questo stati di crisi che ci ha permesso di fermarci e riflettere.
Si sono dette grandi cose.
Più salute pubblica. L’approccio della Cura invece che questa follia burocratico-amministrativa-industriale che abbiamo. Reddito Universale Incondizionato. Cultura ecosistemica. Sostenibilità ambientale. Nuovi rituali dell’abitare il nostro mondo iperconnesso. Fine al soluzionismo e inizio delle soluzioni di sistema.
Erano tanti slogan? Si dicono “perché si devono dire” in questi casi? Era solo la mia bolla?
Sembrerebbe di sì.
Perché è bastato avere la scusa per riprendere l’automobile.
E, se così sarà, basterà la scusa per riaprire tutto come se nulla fosse stato, per ricominciare a farci violenza. Anzi, forse anche più di prima, perché abitare, viaggiare, vivere la cultura costeranno tutti di più: sa, dobbiamo dividere i costi tra i meno posti disponibili, quindi è aumentato il biglietto. E le poche cose che ancora riuscivano a vivere nella completa accessibilità della gratuità, dell’informalità, della sottoscrizione volontaria, si trasformeranno anche quelle in “servizi”, con la logica del post-crisi, o nella mediazione della piattaforme.
E quindi no, non ho proprio voglia di uscire.
Perché non mi va di dire che mi ero sbagliato. Non guardando le persone negli occhi, direttamente, non tramite una webcam.
Non voglio e non posso cedere al cinismo che dice: guarda che appena le persone avranno la scusa di andarsene al mare, lo faranno, e quei grandi propositi rimarranno un gioco delle parti, nella lotta tra “buoni” e “cattivi”.
Non posso farlo, soprattutto, dopo due cancri al cervello, da cui ho ricevuto e dato l’energia e l’amore e l’affetto per uscirne proprio attraverso la Cura, dai suoi modi nell’intimità come nello spazio pubblico. E anche capendone i limiti e i lati oscuri.
Tanto da convincermi che è solo grazie a quei grandi cambiamenti che possiamo avere una qualche opportunità di sopravvivenza. E, ancora prima della sopravvivenza, di dignità, e di bellezza, e di speranza.
C’è, però, una cosa su cui sicuramente non mi sbaglio: l’ho capita bene.
Che le questioni di cui stiamo parlando sono tali da poterle affrontare solo tutti insieme, nel e con l’ecosistema.
Per affrontarle non possiamo partire dalle dimensioni tecnica, amministrativa o organizzativa, perché hanno un grande limite. La scienza, per esempio, lo conosce benissimo, tanto che nasce per riuscire a smentire sé stessa, nel suo continuo divenire.
Questo limite consiste che ai dati possiamo fare dire quello che vogliamo. Perché i “dati” non sono dati, neanche per niente. Sono “ideologia applicata”: per misurare un fenomeno devo avere un’ideologia su questo fenomeno, devo avere un’idea circa cosa sia importante da misurare di questo fenomeno.
Finché considereremo i dati come qualcosa da estrarre da noi e dal pianeta, invece che come un elemento per esprimere e rappresentare la nostra esistenza – degli artefatti della cultura invece che delle entità tecnico-amministrative – non arriveremo a nulla.
Questo è il grande limite della tecnica, dell’amministrazione e della gestione del potere, tutti e tre così certi e obbligati a ragionare per soluzioni: a estrarre dati e a computarli per trovare la risposta.
E, invece, è la grande opportunità dell’esistenza e della scienza, nate per mettersi in dubbio e per evolvere continuamente, nella differenza, nella coesistenza e nella relazione: esprimersi attraverso i dati per generare un dibattito esistenziale nella cultura – quali che siano questi dati, perché oggi anche gli elementi della nostra cultura e, addirittura, il nostro linguaggio si fa dato.
Mentre perdiamo tempo con la nostra fazioncina a cercare di stabilire la predominanza della nostra soluzione sulle altre, operando sui domini della tecnica, dell’amministrazione e della gestione del potere, perdiamo l’opportunità di volare più in alto, e di avere a che fare con valori più grandi.
Proprio quei valori e quelle narrazioni più grandi che sono gli unici che ci possono unire.
Gli unici che sono ospitali e abitabili per tutti, anche nella differenza.
Per quelli serve l’arte, che non fa altro: stabilire connessioni, traduzioni e ponti tra la scienza, le tecnologia, la società e la psicologia delle persone per sospendere per un attimo la realtà ordinaria e darci la possibilità di immaginare qualcosa di nuovo, di diverso.
Siamo partiti proprio da questo: da una performance artistica partecipativa che ci permetta di allargarci, scongelarci, disinibirci e continuare ad immaginare un mondo diverso.
Oltre la Fase 2.
Fase 25: il Governo Necessario.
Il Governo della nostra liberazione.