L’Italia è il mio guinzaglio
In un dialogo pubblicato su Doppiozero, Marco Belpoliti e Roberto Gilodi hanno intervistato Marco Revelli ragionando sui dati ricavati dal Rapporto Coop 2017. La discussione è partita da una delle locuzioni che più sentiamo ripetere negli ultimi anni: rischio povertà.
L’espressione è utilizzata da Eurosat, l’Istituto europeo di statistica. È un indicatore, che, come dice Revelli “non misura in valori assoluti la dimensione della povertà, la misura come distanza da una media”. Ecco, questa distanza è un elastico continuamente sollecitato, un elastico che si tende e si contrae anche grazie alla narrazione di giornali e televisioni, che stimolano la percezione, l’avvicinamento o l’allontanamento verso il rischio entro cui si specchia la povertà. Che poi, in teoria, si tratterebbe di povertà relativa, ovvero della difficoltà economica che rende impossibile accedere ad alcuni beni e servizi; ma quanto manca, per passare dalla povertà relativa alla povertà assoluta? Il pensionato che rovista nelle cassette della verdura alla fine dei mercati, è un povero relativo, un povero assoluto o una via di mezzo tra le due condizioni? Rischio povertà. Le due parole, abbandonate all’interno di quella catena che può essere la lingua, combattono tra loro e, nonostante l’abitudine con la quale si accompagnano, l’abitudine con la quale le percepiamo indissolubili, una delle due tende a sopraffare l’altra, portando così alla cosiddetta esclusione sociale. Rischio povertà è anche un’eventualità, e implica l’azzardo, una quota mal calcolata che ha come logica conseguenza la sconfitta, la sconfitta meritata in quanto non sono stato in grado di calcolare, di governare il rischio, e allora la povertà successiva, inevitabile, è normale che investa me stesso, singolo. Ma alla sconfitta occorre reagire tramite il medesimo strumento che l’ha originata: una nuova scommessa. Il protagonista della scommessa è sempre il singolo, la vincita e la sconfitta sono sempre individuali, non c’è la socializzazione di entrambe.
A conclusione dell’intervista, Revelli auspica “un nuovo patto scrittori e popolo. Esiste una letteratura che ritorni a raccontare il sociale tale che chi lo abita si possa riconoscere e possa assumere la propria controfigura dentro una narrazione accreditata?”. E ancora: “l’impoverimento del ceto medio chi l’ha raccontato? Il ceto medio come poteva essere raccontato da Mastronardi, la sua crisi esistenziale, chi la racconta oggi?”.
Ho scritto Ipotesi di una sconfitta, un romanzo autobiografico, anche per questi motivi. Il romanzo parla di soldi, di lavoro, di padri, di figli, di speculazione immobiliare, di luoghi, di spazi, di desideri legati a modelli di vita basati su una competizione nella quale non si riesce nemmeno a capire cosa ci sia in palio, tanta è la pochezza del premio, e di come questa competizione incida i corpi e le menti di coloro che la vivono. Il romanzo parte dalle quattro di mattina, all’inizio di dicembre nel 1956, e arriva fino a oggi.
Ecco, credo che l’esortazione di Revelli manchi della controparte più significativa: i lettori, o, per dirla con le sue parole, “il popolo”. Ho qualche pudore nell’utilizzare popolo; occorrerebbe, anche per me, un corso di rieducazione; popolo è una parola utilizzata e svilita dai molti populisti o dai media che la associano a qualsiasi pseudo collettività umana, come il popolo della notte o il popolo della partita IVA.
Chiamiamoli lettori. Quasi tutti i lettori – e anche, purtroppo, i cosiddetti lettori forti – sono per lo più disinteressati a romanzi con questi temi. La tendenza non è solo italiana, ma europea, mondiale. Non voglio fare un discorso legato al valore letterario, non è questa la sede, ma i romanzi italiani di maggior successo di pubblico, nell’ultimo anno, parlano di ragazzine confinate al Sud in una specie di Ottocento contemporaneo, o di giovani uomini che vivono in montagna, al Nord, alla ricerca di se stessi. Soldi e lavoro sono il grande rimosso di questi anni, e credo che le classi dirigenti – politiche, imprenditoriali, a cominciare proprio da quelle editoriali – siano felici che il gusto dei lettori sia modellato su altri temi, e fanno di tutto per assecondare le voglie, indotte, dei lettori. Tematiche come soldi e lavoro sono identificate con inchieste giornalistiche, reportage televisivi di denuncia, saggi. Negli anni Zero c’è stata una breve moda editoriale di narrativa sul lavoro, tanto da far credere a qualcuno che l’argomento potesse interessare davvero: era solo una tendenza passeggera, come quelle che l’industria editoriale ogni tanto alimenta e cavalca, per spremere il massimo da un argomento.
Oggi basta ripetere la parola lavoro – o anche soldi – per azzerare l’interesse dei lettori e degli stessi lavoratori, che a volte, in effetti, sono anche lettori. Ma usciamo dall’angusto contesto editoriale e allarghiamo il discorso. Prendiamo i diritti delle donne in ambito lavorativo: fino a quando si discute di una discriminazione sessuale avvenuta in ambiente lavorativo – magari lo sfruttamento sessuale di una donna famosa, di un’attrice – l’attenzione è massima. Ed è un bene. Ma non appena bisognerebbe parlare delle condizioni lavorative complessive delle donne, focalizzare l’attenzione sui turni, sui salari – ah, salario, un’altra parola da maneggiare con cura: ricordo che quando ero impiegato in una multinazionale, le colleghe disapprovavano la parola salario, si vergognavano di essere salariate, preferivano usare stipendio – ecco che l’interesse cala fino a diventare inesistente, una cosa noiosa, da preistoria sindacale. È come se il lavoro fosse un contenitore enorme, comprendente tutto, talmente vasto da contenere la vita, compresa la sfera delle relazioni sessuali, le uniche degne di interesse; ma il grande contenitore del lavoro, diviene un nucleo minuscolo, invisibile, e scompare, pur contenendo ogni cosa.
Ho sempre scritto di soldi, lavoro e luoghi fin dall’inizio degli anni Zero. Stavolta, con Ipotesi di una sconfitta, il mio intento, oltre che letterario, era di attraversare alcuni episodi selezionati, estratti dalla mia esistenza, per capire come sia stato possibile passare dal padre al figlio, dal Novecento a oggi, e quanto si sia perso in questo passaggio, e quanto si sia guadagnato, ammesso che si sia guadagnato qualcosa. Insomma, siamo passati dalla Milano del 1956 – mio padre ventenne – a oggi, con me quasi cinquantenne. Nel 1956 si produceva “la civiltà del nord, l’umano consumabile”, e mio padre, alla guida di un autobus ATM, tagliava tutto l’hinterland sud, a partire dalle quattro di mattina, per portare centinaia di persone al lavoro. “Lungo il tragitto incontravano aziende che producevano forni, frigoriferi, lavandini, bidè, gabinetti, lampadine, gelati, merendine, panettoni e colombe”. Mio padre guidava un autobus lungo ventidue metri, prodotto dalla Breda nel 1949. Nonostante le numerose fermate e nonostante questo autobus viaggiasse a una velocità attorno ai cinquanta chilometri orari pure nel tratto extraurbano, mio padre compiva il tragitto in circa trequarti d’ora, perfino nelle cosiddette ore di punta, ovvero alle sette e alle otto del mattino. La medesima tratta, dal 2011, non è più coperta dall’ATM, ed è interessante notare che la morte di mio padre, avvenuta proprio in quell’anno, sia concisa con la dismissione del pubblico a favore del privato. In questi anni, per completare la tratta, nelle ore di punta ma non solo, può occorrere anche un’ora e mezza: gli autobus sono più veloci rispetto a quelli guidati da mio padre nel 1956, ma il traffico è sempre più congestionato. Sono bastati pochi decenni per espellere dalla città migliaia di residenti ora disseminati nell’hinterland; sono bastati pochi decenni per creare la cittadella inespugnabile, ed edificare, fuori, case, capannoni, centri commerciali, senza dotare quelle aree di servizi pubblici adeguati, anzi, tagliando quelli esistenti. E la stragrande maggioranza della politica – sia essa nazionale, regionale o locale – che tanto parla di innovazione e futuro, di radici e territorio, crede di incentivare lo sviluppo devastando quel poco che resta delle aree agricole intorno a Milano. Da qui la spinta per la costruzione di due tangenziali, che attraverserebbero il Parco Agricolo Sud e parte del Parco del Ticino, devastando ettari di coltivazioni e la fitta serie di reticoli, di irrigazione che ha assicurato acqua nei secoli alle campagne. In una situazione ambientale al collasso come quella di Milano e provincia, e in generale di tutta la Lombardia, la gran parte dei politici nazionali, regionali e locali vuole costruire tangenziali, aumentando il traffico, nella fattispecie intorno a Milano. Soltanto pochi sindaci, alcune associazioni di agricoltori e cittadini interessati a una parte fondamentale della città metropolitana si stanno battendo contro queste due tangenziali. Tra l’altro le opere non unirebbero l’hinterland alla città, ma la circumnavigherebbero, creando così, lungo i tracciati, nuovi capannoni, nuovi centri commerciali, nuove case: cemento e asfalto costituiscono il vero interesse imprenditoriale della politica. “Questa parte d’Europa è troppo bella per essere distrutta”, ha detto, l’11 ottobre 2017, Cecilia Wikstrom, presidente della Commissione per le petizioni del Parlamento europeo. L’Italia è stata più volte condannata per aver superato i limiti del Pm10, per aver violato la direttiva 2008/50 relativa alla qualità dell’aria.
Ah, quanti chilometri di metropolitana si potrebbero costruire con la spesa sostenuta per due tangenziali, e quanti treni si potrebbero acquistare! Ma viviamo una situazione contraddittoria. La maggior parte dei politici contemporanei italiani ragiona come i politici italiani del 1956, dell’epoca di mio padre ventenne. E tuttavia, noi discutiamo di manifattura 4.0. Ecco, io non so dire cosa sia davvero l’espressione manifattura 4.0, ovvero ciò che dovrebbe essere la quarta rivoluzione industriale, dopo quelle del vapore, dell’elettricità, dell’informatica. Potrebbe essere una sintesi tra le precedenti tre. Potrebbe essere qualcosa che farà molto bene al mondo, ammesso di essere ancora in tempo per fare qualcosa di buono. Manifattura 4.0. Questa definizione migliorerà, oltre che il pianeta, pure le condizioni lavorative, allontanerà il rischio povertà, o è solo un contenitore apparentemente neutro, entro cui nascondere le solite dinamiche di diseguaglianza? Non lo so. Mi pare che, almeno adesso, le espressioni come manifattura 4.0 servano a distrarre, a occultare quelli che sono i progetti principali, nei quali è possibile spostare e investire grandi capitali, identificare il volto del potere politico, finanziario, e a volte, purtroppo, come accaduto in passato, anche criminale: ciò che due tangenziali e l’enorme indotto a esse collegato assicurano. Strade, movimentazione terra, gestione dei rifiuti speciali, edilizia, aumento dei malati di cancro e leucemia, gestione della sanità.
Mio padre è morto in un ospedale dell’hinterland, un ospedale in dismissione: è morto nell’ospedale in cui sono nato, al quinto piano di un edifico vuoto. Nonostante il disinteresse quasi generale, a cominciare proprio dal “popolo” invocato da Revelli, riparto da quel vuoto, scrivo di quel vuoto, scrivo dell’Italia, perché “l’Italia è il mio guinzaglio”, è il nostro guinzaglio.
Immagine di copertina: ph. Chris Barbalis – The Floating Piers, Sulzano, Art Opera Christo and Jeanne-Claud