Il futuro è un fatto collettivo e parte ora, in questi giorni di quarantena
Da dieci giorni mi muovo tra il divano, il giardino e il tavolo del soggiorno in una casa che improvvisamente è diventata contemporaneamente ufficio, sala riunioni, palestra di yoga, laboratorio di cucina e solarium. 80 mq organizzati efficientemente per la sopravvivenza mia, del gatto e del mio compagno. Fuori una quindicina di terrazzi che si affacciano su un cortile comune offrono una versione attualizzata del Gioco dei 9! Relazioni e confidenze tra vicini che non c’erano mai state prima, scambi di ricette e fette di torta, consigli e intimità mai svelate.
Per me, che da 8 anni ormai mi dedico totalmente a Kilowatt insieme a dei meravigliosi soci che sono prima di tutto compagni di sogni e di viaggio, passata la fase della negazione e poi di resistenza, da lunedì è iniziata ufficialmente la fase di elaborazione di quello che sta succedendo.
Ordinatamente e prevedibilmente allineati alla curva di Kübler-Ross, come Kilowatt abbiamo deciso di chiudere Le Serre dei Giardini come segno di responsabilità verso la città di Bologna e così, il nostro angolo di paradiso nel parco principale della città, che in queste settimane di sole si era riempito di studenti, genitori, turisti e lavoratori alla ricerca di un luogo di pace dove continuare le proprie attività, si è improvvisamente svuotato.
Il silenzio è calato e gli animali (le nostre 3 co-gatte, le lucertole, i pesci dell’impianto di acquaponica, le rane, le api e gli uccelli… un sacco di uccelli!) si sono ripresi il loro spazio. (Mi piacerebbe caricare una registrazione dei suoni che si sentono quando tutti i suoni antropici si fermano, ma visto che siamo tutti nella stessa situazione preferisco invitarvi a mettervi in ascolto e riscoprire questo senso così poco nobilitato, come direbbe il mio socio Gaspare Caliri).
Il coworking, la cucina, la caffetteria, l’asilo, lo spazio di incubazione per startup, l’agenzia di comunicazione… tutto fermo, le persone a casa. Ci sono ferie da smaltire, mail mai aperte da leggere, piccoli lavori, idee e progetti in attesa di un momento di calma che non arrivava mai da riprendere, ma la verità è che la macchina si è fermata, con i suoi flussi economico-finanziari così delicati esposti ad una buriana di cui è difficile prevedere l’evoluzione.
Ci siamo sempre orgogliosamente raccontati come un’impresa ibrida, dove le attività for profit servono a finanziare quelle low profit o a fallimento di mercato (cito testualmente dai nostri Bilanci di Impatto), e dove l’impatto (ossia il cambiamento che vogliamo contribuire a generare nella comunità in cui viviamo) è possibile grazie a un funding mix attentamente costruito per bilanciare entrate incerte (fondi pubblici, bandi, ecc.) con entrate di mercato.
Ma quanto resiliente è questo modello? Quando le cose vanno bene lavoriamo per il bene comune, e quando le cose vanno male, chi ci viene in aiuto? Queste domande non sono solo le nostre, ma sono quelle di migliaia di operatori della cultura e del sociale che si trovano nella nostra stessa situazione.
In questi giorni mi trovo a riflettere su questa illusione e cosa abbiamo, non sempre consapevolmente o volontariamente, contribuito a sostenere con questa nostra ricerca di autonomia e sostenibilità: l’arretramento costante dello Stato e della PA (e oggi ne vediamo gli effetti devastanti sulla sanità, dove negli ultimi 20 anni sono stati tagliati più di 7 mila posti letti) in settori in cui, al contrario, il ruolo pubblico deve essere invece presente, anzi preteso.
Il nostro desiderio di contribuire a risolvere i problemi che affliggono le nostre comunità, la passione per gli ambiti in cui operiamo, l’amore per la cultura e per l’altro; il desiderio di avere una società più equa, inclusiva, diversa, sostenibile ci hanno portato a lavorare a testa bassa, trovando sempre nuove soluzioni, ingegnose, perché i nostri progetti potessero continuare, i nostri messaggi potessero raggiungere un pubblico ampio, i nostri servizi rispondessero ai bisogni. Senza riflettere abbastanza, mi dico oggi, sulle conseguenze (gli impatti negativi si direbbe) che contribuivamo a generare.
Le nostre attività sono state lodate, raccontate nei convegni, sono servite a rendere le città in cui operiamo luoghi più attrattivi per city-users e turisti, ma non si sono, contemporaneamente, organizzate per essere un soggetto riconosciuto, con una voce forte e autorevole, non sono una classe chiara né rilevante del PIL, ma, soprattutto, sono andate lentamente a sostituire il ruolo del pubblico. E così, ora che la macchina si ferma e che l’Italia tutta pensa alla crisi, le prime misure che vengono messe in campo non ci riguardano, i soggetti convocati ai tavoli non ci rappresentano, la nostra complessità, che è sinonimo di ricchezza, genialità, creatività, ci rendono soggetti difficili da inquadrare e da aiutare.
E quello che vediamo ora è solo l’inizio. Il crollo della borsa, la crisi del mercato, la contrazione della domanda è probabile che si ritorca prima di tutto sui beni “non necessari”: cultura, comunicazione, formazione, sostenibilità…
Ma non abbiamo 40 giorni davanti per lamentarci, ma piuttosto per pensare a come (ri)organizzarci e come utilizzare questo “cambiamento” forzato per riprendere con il piede giusto.
Alcuni spunti e possibili strategie su cui riflettere in queste settimane.
Salvagente Europa. Anche se per ora non sembra che l’Europa arrivi una strategia di rilancio né che questa sia l’occasione per rilanciare una visione comunitaria e mutualistica forte e rilevante, dal punto di vista lavorativo potrebbe comunque essere un’ancora di salvezza. E quindi potremmo dedicare parte di questi 40 giorni a cercare i bandi e i finanziamenti europei che ci aiutino a superare il fossato che abbiamo davanti, puntando sull’innovazione dei modelli e dei servizi che offriamo, ampliando le relazioni che sono tra i nostri principali asset.
Qual è il ruolo della cultura in questo momento di crisi?
Ridisegnare il ruolo pubblico nel sociale e nella cultura. Il valore immateriale e intrinseco di questi settori, in questi giorni di isolamento, emerge con chiarezza a tutti e diventa molto più materiale e strumentale di altri settori (energia, trasporti, turismo, manifattura, ecc.) che invece hanno monopolizzato il discorso sulla crescita economica del nostro paese negli anni. Cambiano le nostre scale di giudizio e i punti di riferimento nella costruzione della nostra quotidianità e di ciò che ne determina il benessere, il punto di soddisfazione e di equilibrio.
Immersi in questo cambiamento dobbiamo riconoscere i nuovi assi cartesiani che emergono, renderli le coordinate di nuove mappe che, quando tutto questo sarà passato, ci aiutino a orientarci. E la cultura, l’educazione, i servizi sociali devono essere i punti cospicui di questa nuova rotta, diritti fondamentali, accessibili, praticabili, sia per chi li eroga che per chi ne fruisce, cardini della società che con questa quarantena abbiamo contribuito a salvare. Per questo il presidio ed il sostegno pubblico dovrà essere preteso, ovviamente ripensando i modelli perché siano snelli, efficaci e basati sul dialogo con tutti gli operatori del privato sociale e culturale che in questi anni hanno tenuto in piedi il settore.
E da qui un pensiero specifico sulla Cultura: qual è il ruolo della cultura in questo momento di crisi? Ce la stanno proponendo come intrattenimento alla noia, ma possiamo usarla per il suo potere trasformativo sul mondo?
Io credo che dovremmo restituire alla cultura questa funzione: immaginare nuovi modelli, proporci nuovi punti di vista; e riconoscere agli operatori culturali e agli artisti questo ruolo. Ma per farlo non possiamo pensare che sia il mercato, e i suoi meccanismi neoliberisti di incontro tra domanda e offerta, a regolarne la produzione e valutarne la qualità. Dobbiamo sottrarre l’arte e la cultura dalla funzione di utilità che regola gli scambi di mercato se vogliamo che contribuisca a ricostruire un immaginario di cui abbiamo così bisogno.
Un modello di produzione e consumo sostenibile. Sono anni che lavoro sui temi della sostenibilità, le soluzioni da adottare sono chiare e disponibili, le conseguenze a cui andiamo incontro (a cui stiamo già oggi assistendo) sono previste e dichiarate da tempo, ma nonostante questo la nostra avversione al cambiamento e i presidi di potere (economico e finanziario) hanno reso impossibile qualsiasi ripensamento serio dei sistemi produttivi e di consumo. Ma questo periodo di cambiamento forzato forse può farci capire come certi mutamenti, certe scelte siano più facili e fattibili di ciò che credevamo.
Possono addirittura far diventare prassi, abitudini, alcune azioni fondamentali per la tutela del nostro Pianeta. Pensate allo smart working, da anni ci sono studi che dimostrano come possa far risparmiare milioni di tonnellate di Co2 e polveri sottili, oltre che soldi alle imprese e aumentare la produttività e il benessere dei lavoratori; e, ancora, pensate alla nostra condizione nella società, possiamo essere altro che meri consumatori, e anche come consumatori possiamo consumare meno, sprecare meno cibo, scambiarci le rimanenze, riempire di senso le nostre vite senza che questo sia collegato al possesso, agli acquisti compulsivi o al fast fashion.
Condivisione, empatia, relazioni, armonia con la natura: We will be in a position of having a blank page for a new beginning because lots of companies and money will be wiped out in the process of slowing down. Redirecting and restarting will require a lot of insight and audacity to build a new economy with other values and ways of handling production, transport, distribution and retail dichiara Li Edelkoort, che a New York City dirige l’agenzia di previsioni strategiche Edelkoort Inc, in una bella intervista piena di speranza rilasciata a Dezeen. Chissà se i governi, a tutti i livelli del processo decisionale e legislativo, sapranno cogliere questa opportunità unica. Ognuno di noi, nel frattempo, può dare il proprio contributo.
Abitare il futuro. Abbiamo costruito una società che prende decisioni basandosi su trend e dati storici, che non rappresentano più nessuno, incapaci di cogliere i cambiamenti a cui assistiamo, ma che confortano analisi e statistici percheé rispondono a modelli prevedibili (appunto!). Invece dobbiamo mollare gli ormeggi, abbandonare le previsioni (forecast) e imparare a muoverci e a prendere decisioni creando scenari (foresight), anticipazioni e nuovi immaginari.
Quello che mi insegna questa crisi è che solo imparando a muoverci in questa nuova dimensione, imparando a disegnare scenari desiderabili, inclusivi, sostenibili e a prendere decisioni basate su quegli scenari, sapremo attivare futuri in cui davvero vogliamo vivere. E questo è un compito di ciascuno di noi.
Perché alla fine, il futuro, è un fatto collettivo.