Diritto all’aborto: il corpo delle donne è ancora uno spazio pubblico?

E, come al solito, era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male o se era un male perché era proibito. Si giudicava in base alla legge, non si giudicava la legge.

Annie Ernaux, L’evento

 

Il 24 giugno 2022 la Corte suprema americana ha deciso sul caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization. Il centro-clinica per aborti Jackson Women’s Health Organization di Jackson, Mississipi era stato ritenuto in violazione di una legge dello stato del Mississipi che vietava l’esecuzione di aborti oltre la 15a settimana, salvo i casi di emergenza medica o di grave anomalia fetale. 

Gli imputati, Jackson Women’s Health Organization, hanno impugnato la legge presso la Corte distrettuale federale, sostenendo che la legge violava i precedenti della Corte che stabiliscono il diritto costituzionale all’aborto, in particolare la sentenza Roe v. Wade, del 1973, e Planned Parenthood of Southeastern Pa. v. Casey, del 1992, e quindi il principio alla base della common law dello “stare decisis”. Davanti alla Corte Suprema, i sostenitori della legge statale sostenevano che i casi Roe e Casey fossero stati decisi erroneamente e che la legge è costituzionale perché soddisfa il controllo c.d. rational-based. La Corte ha deciso di accogliere questo argomento, decidendo che l’aborto non è di competenza della corte suprema, e rimandando la disciplina al livello più politico, ossia dei singoli stati.

La pronuncia della corte suprema americana che ribalta la storica sentenza Roe vs Wade del 1973 è spunto per diverse riflessioni non solo sulla decisione storica della corte, ma sul diritto, e sui processi legislativi che disciplinano e operano sui diritti (e sui corpi) delle donne. La sentenza ha scatenato reazioni di sdegno, a partire dal presidente Biden, e colpisce perché i sondaggi Gallup mostrano che il sostegno degli americani all’aborto in tutti o nella maggior parte dei casi è stato dell’80% nel maggio 2021, solo di poco superiore a quello del 1975 (76%), e il Pew Research Center ha rilevato che il 59% degli adulti ritiene che l’aborto dovrebbe essere legale, rispetto al 60% del 1995, anche se c’è stata una fluttuazione, con il sostegno sceso a un minimo del 47% nel 2009.

Nel sondaggio Gallup, la percentuale di americani che affermano che l’aborto è moralmente accettabile ha raggiunto un massimo storico del 47% a maggio, rispetto al minimo del 36% del 2009, e un sondaggio Quinnipiac ha rilevato che il sostegno all’aborto legale in tutti o nella maggior parte dei casi ha raggiunto un massimo quasi storico a settembre, con il 63% di sostegno. Se lo sdegno globale è stato immediato, così come le proteste, il rovesciamento di Roe vs. Wade non è stato una sorpresa, ma l’esito di oltre quarant’anni di lavoro sui meccanismi decisionali della giustizia americana, che ha costruito una fitta trama di intrecci tra politica, elezione di giudici, sostegno elettorale e nomine presidenziali. .

Inoltre, i 50 anni di storia della celebre sentenza Roe vs. Wade, sono stati 50 anni di conflitto, polarizzazione e uso strumentale e politico del dibattito, diviso tra “pro life” e “pro choice” che ha visto i corpi delle donne come campo pubblico di battaglia e ago politico nelle battaglie tra democratici e repubblicani. 

Nel celebre dibattito del 2016, il candidato presidente Donald Trump, storicamente pro-choice, ribalta la sua posizione e si intesta la battaglia pro-life, affermando che ci sarà un rovesciamento di Roe Vs. Wade, sostenuta dalla sua avversaria Hillary Clinton. Trump dichiara un piano programmatico sul rovesciamento della sentenza: “Questo accadrà automaticamente, secondo me, perché metterò alla corte dei giudici pro-life”, ha detto Trump. “Dirò questo: Tornerà agli Stati, e saranno gli Stati a prendere una decisione”. Nel suo celebre “La grammatica della giustizia”, Elizabeth Wolkgast esprimeva chiaramente i limiti e le inadeguatezze di una teoria dei diritti applicata alla riproduzione, chiamandoli, in qualche modo, “diritti sbagliati”. Da una parte, per la filosofa viene data troppa importanza al feto, e vengono attribuiti dagli argomenti pro-life diritti potenziali ad un soggetto giuridico che appare più debole per poter esigere diritti propri, e come ha sostenuto Mary Anne Warren, il feto, anche se potenzialmente è un essere umano, è privo di certi requisiti essenziali dell’essere umano, e non può esser considerato al pari della propria genitrice. Dall’altro lato, il feto viene configurato giuridicamente come “proprietà” della madre, sminuendo la peculiarità del legame e offrendo il fianco a perenni attacchi dell’argomento pro-choice. La formula più elegante per descrivere questa ambiguità arriva dalla letteratura. Annie Ernaux chiama quell’ambiguità: “la realtà dentro la pancia”, e restituisce la relazione, e soprattutto come sia una dimensione di realtà il volere o non volere portare avanti una gravidanza nella materialità del proprio corpo.  

Se la fragilità giuridica dei diritti soggettivi in campo rende molto difficile districarsi in una legislazione all’apparenza così polarizzata, molto più leggibile è invece la prepotenza politica con cui si continua a normare il corpo e i corpi delle donne. Il corpo delle donne rimane “un luogo pubblico” come aveva evidenziato Barbara Duden. Eppure, il corpo delle donne deve rimanere spazio privato, e, soprattutto, spazio tutelato nelle pienezza del diritto alla salute. L’aborto viene praticato da una donna su 4, con i metodi possibili, leciti o illeciti. Scegliere di normarlo con forme di depenalizzazione o legalizzazione significa offrire una possibilità di tutela della salute più democratica. La sua illegalità significa aumentare le differenze tra coloro che potranno accedervi (pagando) e coloro che non potranno farlo, e che utilizzeranno canali più invisibili e più pericolosi.  

Le reazioni a questa sentenza sono state più estese del singolo territorio statunitense, proprio perché la crisi del welfare ha visto agire battaglie di retroguardia sui corpi delle donne in contesti differenti del globo: dalla Polonia al Cile, dall’Argentina alla Francia, senza considerare quei paesi in cui l’interruzione della gravidanza anche per motivi terapeutici non è possibile. 

Spostare il piano del discorso dalla scelta alla salute riproduttiva delle donne permette, inoltre, di vedere come questo diritto sia all’interno di una rete di diritti più complessa, in quella che Joan Tronto ha definito la “Caring democracy”. Salute, diritti economico-sociali, tutela delle donne sul lavoro, diritti di cittadinanza, sono solo alcuni degli aspetti che compongono il quadro dei diritti coinvolti dal rovesciamento della sentenza americana, ma rappresentano un paradigma monito anche in altri contesti non statunitensi. Secondo i dati dell’Istat (2015), c’è un divario evidente tra i livelli di abortività delle donne con cittadinanza italiana e di quelle con cittadinanza straniera, che tuttavia si è ridotto nel corso degli anni. Nel 2004 le donne straniere hanno abortito 4,5 volte di più rispetto alle donne italiane; nel 2011, 2,9 volte in più. Un dato che racconta come la lente intersezionale permetta di vedere chiaramente le moltiplicazioni dei rischi in caso di accesso più opaco all’interruzione volontaria di gravidanza. 

Decidere del corpo, normare il corpo delle donne significa perciò rendere l’accesso al diritto alla salute (e alla libera scelta) una questione non solo di genere, ma anche di classe e di provenienza. Se la legislazione a macchia di leopardo negli Stati Uniti porterà -quando possibile- ad un turismo dei diritti e quindi ad uno spostamento di coloro che potranno permetterselo verso stati e cliniche che permettono legalmente l’interruzione di gravidanza (come nel caso della California o dello stato di New York) e all’accesso a forme illegali di controllo del corpo per coloro che hanno e avranno meno strumenti. Inoltre, la vicenda statunitense ci insegna due cose: la prima è il processo di silenziazione delle vittime tramite il riconoscimento. 

Come ha lucidamente scritto Ernaux, “Che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che «le cose sono cambiate». Il secondo insegnamento è proprio questo, ossia la transitorietà dei diritti, che, come sosteneva Tina Anselmi, non sono conquiste inscalfibili. Per la prima donna ministro d’Italia, l’impegno sulle battaglie civili, e ancora di più su quelle economiche sociali, va raddoppiato dopo l’approvazione, che rappresenta il punto di partenza del lavoro di scelta quotidiana di democrazia.  

Normare il corpo delle donne significa rendere l’accesso al diritto alla salute (e alla libera scelta) una questione non solo di genere, ma anche di classe e di provenienza.

Sebbene la storia dei diritti in Europa abbia seguito traiettorie differenti, e i meccanismi di civil law sono meno fluttuanti rispetto ai decisori politici, quanto accaduto è un monito per rallentare trasformazioni già in atto. In un’Europa frammentata, che ha visto la discussione sull’aborto essere centrale in Polonia come in Francia, l’Europarlamento prevede che «l’elaborazione e l’applicazione delle politiche in materia di salute e diritti sessuali e riproduttivi nonché in materia di educazione sessuale sono di competenza degli Stati membri» (art. 46). Ciononostante, l’Europarlamento ha affermato chiaramente che «le donne devono avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto», prendendo l’impegno di sostenere «le misure e le azioni volte a migliorare l’accesso delle donne ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e a meglio informarle sui loro diritti e sui servizi disponibili», e invitando «gli Stati membri e la Commissione a porre in atto misure e azioni per sensibilizzare gli uomini sulle loro responsabilità in materia sessuale e riproduttiva».

Nel nostro contesto italiano, sebbene la legge 194/78 tenga sul piano formale, abbiamo assistito negli anni recenti ad un costante svuotamento della sua implementazione nei pronto soccorsi, nelle farmacie, nei reparti di ginecologia. Farmacisti obiettori che rifiutano la somministrazione della c.d. pillola del giorno dopo; come ha riportato InGenere, per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, nel 2019 il fenomeno ha riguardato il 67% dei ginecologi, il 43,5% degli anestesisti e il 37,6% del personale non medico, valori in diminuzione rispetto a quelli riportati per il 2018, con ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie.

Sono numeri che rimangono altissimi, e che richiedono quella “scelta quotidiana di democrazia” un esercizio costante, proprio perché una legge svuotata nei fatti può facilmente essere rivista sul piano giuridico. 

Una scelta di democrazia che passa attraverso la costruzione di un fronte comune di alleanza, sia perché la solitudine raccontata da Ernaux possa non ripetersi più, e sia perché quella stessa solitudine rischia di prestare il fronte ad un certo individualismo liberal che si è intestato la battaglia pro-choice, indebolendo la lotta -comune- per i diritti. 

Judith Butler lo scrive chiaramente nel 2020: “l’obiettivo non è quello di far fronte comune in quanto creature vulnerabili, né di creare una classe di persone che si identificano primariamente con la vulnerabilità”, ma immaginare uno spazio di liberazione che possa diventare davvero uno spazio di libertà. 

Nel maggio 1995, dopo la prima vittoria del berlusconismo, si aprì un dibattito per discutere la 194, con una sinistra anticipazione del modello statunitense. Alessandra Bocchetti, Franca Chiaromonte, Ida Dominijanni, Bia Sarasini, Letizia Paolozzi, Stefania Giorgi, Paola Tavella, e Anna Maria Crispino, promossero un documento con lo scopo di rimettere al centro della discussione e della politica sull’aborto la competenza, la libertà, la responsabilità delle donne. Si intitolava “La prima parola e l’ultima” e definiva i confini di chi deve parlare, in nome di chi. Ma chiarito a chi spetta la tutela del proprio corpo, a fronte di una tale fragilità dei diritti, solo alleanze transgenerazionali, interculturali e interclassiste potranno creare il discorso che sta nel mezzo, e che rafforza la lotta quotidiana e il quotidiano esercizio della democrazia.