Datacrazia. Divenire cyborg nella complessità
Se in questi tempi è evidente la necessità di elaborare analisi e riflessioni sull’influenza delle nuove tecnologie nella vita quotidiana e nella società, è anche facile accorgersi di come oggi, voler parlare di dati e algoritmi, significa voler parlare praticamente di tutto.
[…] Ci sono testi, scritti in anni passati più o meno lontani, che a ogni rilettura continuano a stupire per la capacità di sopravvivere nella loro attualità per decenni. Penso non solo ad antropologi e sociologi come Bateson o McLuhan, ma anche a Antonio Caronia, così come appunto al mondo cyberpunk che lui stesso analizzava, dai romanzi alle fanzine degli anni ’70, o ancora ai testi di alcuni movimenti sociali, che negli anni ’90 già indagavano i riflessi delle nuove tecnologie sull’identità, sulle trasformazioni delle forme di lavoro.
Rileggendo questi testi, e tanti altri che condividono gli stessi pregi, emerge la potenza del processo di astrazione, nel senso di passaggio del discorso a un livello di generalizzazione superiore, che rende possibile la descrizione di più casi singoli contemporaneamente, e consente l’analisi di processi emergenti che, se presi nei vari contesti specifici in cui si riscontrano, potrebbero sembrare poco determinanti, ma la cui influenza nel tempo risulta preponderante, in forme e modi che in una prima fase non è possibile prevedere con precisione.
Sempre partendo da esempi come i testi citati sopra, è evidente il ruolo dell’interdisciplinarietà e del confronto tra forme diverse del sapere, nell’elaborazione di un punto di vista comune, dove resta forte la volontà di critica sociale.
Non si può quindi di certo dire che viviamo tempi brillanti da questo punto di vista, considerando l’elogio dell’individualismo competitivo che dilaga negli ambienti accademici, accompagnato da una rincorsa alla specializzazione, che qualcuno ha brillantemente definito “il sapere tutto di niente”. A questo si aggiunge la diffusa pretesa di apprendere e insegnare un sapere neutrale, oggettivo, e privo di analisi sui fattori sociali che lo determinano, che finisce per estrarre il processo dal contesto, perdendo il senso dato dai rapporti reciproci tra le parti in gioco.
Negli ultimi anni si è fatto uso in vari contesti, anche sociali, del termine black box, un concetto della teoria dei sistemi usato per indicare un modello a “scatola nera” descrivibile solo in termini di output fornito per un determinato input, senza che siano noti i precisi meccanismi di funzionamento interno.
Le macchine che oggi determinano le nostre vite, sia burocratiche che tecnologiche, sono spesso macchine complesse e proprietarie, closed-source, che ci restituiscono un’informazione o un servizio senza descriverci gli algoritmi (decisionali, burocratici, matematici) che lo hanno generato.
Una complessità, quella della nostra epoca, che rischia di far emergere la figura dell’esperto intoccabile, incontestabile se non da parte dei suoi simili, perché ritenuti degni di prendere parola da parte di enti accademici, al di sopra della possibilità di contraddittorio.
In questo scenario, la scelta di scrivere un saggio su algoritmi e big data, non poteva che andare nella direzione, almeno in volontà, di portare una riflessione multidisciplinare, critica, per certi versi anche narrativa e personale, che provasse a delineare orizzonti di immaginario.
Circa un anno prima della pubblicazione, discutendo della realizzazione del progetto, emerse l’idea di un’antologia di più autori e autrici, sembrandoci questa la modalità più consona per aprire un dibattito che fosse stimolante sotto diversi punti di vista.
Nei mesi di lavoro mi sono sempre più convinto che questa strada era la più ovvia e adatta nel tentare di descrivere l’overcomplessità di una tecnologia ai limiti della comprensione.
Al momento di dover sbrogliare la matassa della scelta dei temi da trattare, ci siamo confrontati con i dilemmi di cui parlavo a inizio paragrafo. Per i motivi elencati finora, piuttosto che dover compiere una selezione di pochi argomenti, la cui analisi non sarebbe comunque mai potuta dirsi esaustiva per la profondità delle questioni, abbiamo optato per mantenere uno sguardo più ampio, delineando alcune tematiche che potessero fare da traccia ma lasciando ampio margine per mostrare la presenza di simili dinamiche nei più disparati contesti, dall’economia al giornalismo, dalla politica all’arte, dalla ricerca scientifica alla musica. […]
Nei giorni in cui stiamo portando a conclusione quest’antologia (Datacrazia ndr.) infuria sui giornali la bufera attorno al caso di Facebook e Cambridge Analytica e all’eventuale ruolo di questa azienda nella vittoria di Trump. Al di là di quanto si possa discutere dell’effettiva importanza o anomalia rappresentata dal caso specifico, varrebbe la pena sottolineare come questo “scandalo da prima pagina”, permetta di porre, forse per la prima volta, la lente di ingrandimento sul nuovo modello produttivo del capitalismo delle piattaforme.
Una vicenda come questa, con queste tempistiche, è a conferma delle questioni appena: la profondità dei temi di cui stiamo trattando e la loro rapida evoluzione.
I processi in corso sono tanti e tutti da esplorare, come il divenire delle piattaforme in “organismi sovranazionali diffusi”, con le proprie leggi (policy) e le loro misure (sospensioni account, eliminazione), nella difficile articolazione del conflitto tra Silicon Valley e Stato-Nazione.
Si potrebbe parlare di più di privacy, di come questa sia ormai interpretata come una difesa di una sfera privata, piuttosto che uno strumento per costituire zone sicure dalle ingerenze repressive dello Stato e del Capitale. Ancora, avremmo potuto spendere più tempo riguardo il mondo delle criptovalute, nel quale si ritrovano le retoriche anarcocapitaliste in declinazione finanziaria… Questioni che, se le condizioni lo permetteranno, abbiamo ancora tutta l’intenzione di affrontare in futuro.
Una cosa è certa: quello che abbiamo davanti è uno scenario sul quale vale la pena prendere parola, senza alcuna pretesa di mettere il punto alle questioni o fornire strategie di uscita, ma provando a rilanciare la discussione, auspicando la costruzione di gruppi di ricerca indipendente, critica, transmediale, capaci di sovvertire l’onnipresente realismo capitalista.
Il futuro sembra oscillare, nel campo delle possibilità, tra l’utopia e la distopia senza continuità, senza forme intermedie. Allo stesso tempo, sono evidenti le capacità della tecnologia nel poter migliorare sensibilmente le nostre vite, che restano comunque confinate in un limbo di precarietà, mentre attorno a noi tutto sembra cambiare e nulla cambia. Una ricerca scientifica e culturale, se vuole avere un senso, deve riconoscere il ruolo dell’immaginario nella produzione di discorso e di prassi, deve mettersi in gioco nell’invenzione di un futuro possibile che sia all’altezza delle aspettative umane e della ricerca della felicità all’interno di un mondo complesso, com-plexus, composto da tante parti.
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