Daiano all’Adriano: come un uccello su un ramo

Claudio Daiano vive nel centro di Adriano e fa vita di quartiere. Ogni giorno pranza al Portico, ristorante sotto casa da oltre cento coperti. È lì che ha avuto inizio la nostra chiacchierata. Così come un altro ristorante e un tovagliolo rosso sono stati testimoni di un momento importante della sua vita e della storia della musica italiana. Daiano ha ordinato uno spaghetto alle vongole. Evidentemente è un tipo che a gennaio conserva dentro di sé un ricordo e un desiderio del mare. Del resto Claudio vive a Milano fin dalla seconda metà degli anni ’60, ma è originario del mar Adriatico e di Cervia, dove il padre ha gestito un famoso locale notturno.

daiano, adriano

Daiano parla molto e non concede tregua. Possiede l’èlan irripetibile dei baby boomers, la generazione più felice nella storia dell’umanità. Indossa un paio di occhiali fumé e porta i capelli lunghi sulle spalle. Le pareti del suo appartamento sono riempite di versi scritti a pennarello. Mi ha pregato di non fotografarli, dato che vorrebbe farne un libro. Altre pareti sono tappezzate da uno scenografico collage fatto di ritagli di giornale (soprattutto rotocalchi), foto e copertine di 45 giri. Daiano è stato autore di testi musicali rimasti nella storia della canzone. Per esempio è stato lui, insieme ad Alberto Salerno, a riadattare le  parole di Wight is Wight nei versi della celebre -e ogni giorno più struggente e perduta- L’isola di Wight.

Che cos’è questo 45 giri di Iva Zanicchi alla parete?

È la copertina di Ciao cara come stai?, la più brutta canzone che abbia mai scritto (coautori del brano furono Dinaro, Italo Janne e Cristiano Malgioglio, Ndr). Vinse il Festival di Sanremo nel 1974. Era la storia di un uomo che ha il vizio del gioco e perde l’unica fortuna che ha, cioè sua moglie che lo aspetta a casa (Daiano prende la chitarra e accenna alcune strofe, Ndr).

Claudio Fontana in arte Claudio Daiano…

Il mio nome completo è Claudio Alberto Daiano Fontana. Ho eliminato «Fontana» per non fare confusione con Jimmy Fontana.

Tuo padre era il proprietario del noto «Dancing Fontana» di Cervia…

Mio padre Silverio era un genio. Prima della guerra il locale era un bar che si chiamava «Impero», poi diventò il dancing Fontana. Organizzava anche i matinée per i bambini. All’epoca ero anch’io un bambino, frequentavo il locale e poi andavo in moscone a pescare gli sgombri. Tutti i grandi dell’epoca, come Nilla Pizzi, sono passati dal dancing Fontana. Ti pare che la musica non potesse diventare la mia vita? Mio padre organizzava le serate a tema. Vale a dire che le coreografie e le scenografie erano pensate secondo la moda del momento. Serate a tema «Capri», serate a tema «Africa», a tema «Shangai», «Jungla» o «Rio de Janeiro».

Faceva già quella che poi modernamente in discoteca chiameranno «animazione», in fondo…

Esatto, esatto. E mio padre era così intelligente da coinvolgere artigiani e universitari nella realizzazione delle serate.

Daiano si sposta verso una serie di foto e ritagli incollati dentro una grande cornice. Nelle foto è ritratto sorridente accanto all’attore Nino Manfredi, altrettanto gioioso e felice.

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Claudio Daiano con Nino Manfredi

A casa di Nino Manfredi ho vissuto per un anno e mezzo. Insieme abbiamo scritto una commedia musicale dal titolo Parole d’amore, parole. 120 repliche a partire da quelle messe in scena al Teatro Sistina. Enzo Garinei non era convinto della scelta di Manfredi di lavorare con me, ma Nino mi volle a ogni costo.

Torniamo alla tua infanzia…

Da bambino ero già un poeta, scrivevo bigliettini e li lasciavo insieme a un tulipano sui gradini di casa delle fidanzatine. Mio padre mi ha insegnato molto. Di lui avevo timore. A pranzo si parlava il meno possibile. Ci sedevamo all’una in punto e ascoltavamo il giornale radio (Daiano imita da chioccolatore virtuoso il verso del famoso uccellino della radio, Ndr). Oreste il bagnino, invece, mi ha insegnato tutte le cose più pratiche e lazzarone. I miei zii erano veri partigiani. Sotto le volte del comune di Cervia ci sono i loro nomi. Quello era il ramo comunista e socialista della mia famiglia. Mio padre invece era più nenniano e socialdemocratico. Io da parte mia frequentavo molto l’oratorio e la chiesa, che era attaccata alla sede del Partito Comunista, come nei film con Fernandel. Le mie zie mi chiedevano che cosa ci andassi a fare in oratorio e io gli rispondevo che Gesù era stato sempre dalla parte dei poveri, non dei latifondisti. Sono cresciuto in questo modo.

Daiano si sposta verso un’altra serie di foto a colori: in una è ritratto a torso nudo, abbronzatissimo e con i capelli lunghi, insieme a una scimmia; un’altra è scattata con degli amici nelle Filippine e un’altra ancora in Africa con i Masai. Poi mi mostra una foto con Walter Chiari, che Daiano nomina spesso e per il quale è stato «un amico e un maestro».

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A Milano come sei arrivato?

Per ragioni di studio. Nel 67 m’iscrissi alla Bocconi, Lingua e Letterature straniere. Era il momento delle manifestazioni, dei cortei, della protesta. Ero molto attratto, ma al tempo stesso mi sentivo a disagio, perché non ho mai amato la violenza. Vivevo nel pensionato della Bocconi e avevo una fidanzata nel reparto femminile, che raggiungevo camminando lungo la tettoia. Venni scoperto e allontanato, così fui costretto a trovarmi un alloggio. A quel punto ebbi l’intuizione di cercare una casa con più stanze, in modo da subaffittare ad altri studenti e coprirmi le spese. Fu una delle poche idee imprenditoriali della mia vita. Per il resto ero disperato. Ero consapevole di avere un carattere poco pratico. Sapevo soltanto scrivere e quindi dovevo inventarmi un modo per campare. Così conobbi un mio compaesano, il cantante Piero Focaccia (Daiano nel mentre intona Stessa spiaggia, stesso mare, il celebre tormentone di Focaccia, Ndr). Grazie a lui entrai in contatto con la CGD, la casa discografica. Incontrai il direttore artistico Franco Crepax, fratello di Guido, e i più importanti autori dell’epoca. Crepax mi diceva sempre «Bravo, bravo! E che faccia da hippie che hai!». Mi resi conto che non avevo niente da invidiare agli autori dell’epoca e quindi mi feci coraggio e cominciai a scrivere testi. Il primo fu per Caterina Caselli, Il volto della vita (scritto con Mogol e reinterpretato a Sanremo nel 2015 da Chiara Galiazzo, Ndr). Faceva: «Con il corpo sono qui\
ma la mente mia non c’è». Primo posto in classifica per settimane. Era un brano psichedelico, il racconto di un «viaggio».

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Ma tu l’LSD lo avevi provato?

Ma sei matto? Io non bevo, non fumo, non tiro. Sono all’80 per cento vegetariano. Però all’epoca ero un patito di Jack Kerouac, di Ferlinghetti e della beat generation. «Beat» deriva da «beatitudine», quella che ha provato Kerouac quando da bambino la madre, una radical-religiosa, lo portò in chiesa e lì venne colpito dall’odore dell’incenso, dalla visione delle statue, e perciò venne preso da una «bea-ti-tu-di-ne».

Ma questa è una tua interpretazione sulla genesi della parola «beat»?

Si, però di questa cosa della beatitudine ne parlai con Fernanda Pivano, che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare, e Fernanda mi disse «hai ragione tu, Daiano».

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Claudio Daiano con Grace Jones

Tu hai scritto anche la versione italiana di Je t’aime… moi non plus, la canzone cantata in coppia da Serge Gainsbourg e Jane Birkin, e reinterpretata in Italia sia da Ombretta Colli che da Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer.

Con un amico ebbi l’idea di fondare una piccola etichetta e di portare in Italia versioni riadattate dei successi francesi. Gainsbourg e Jane Birkin facevano sul serio, nella canzone copulavano e ansimavano per davvero. Li ho conosciuti a Parigi. Io ho sempre incontrato di persona gli artisti, ci diventavo amico, a differenza di Mogol, che invece lavorava solo sul materiale e non incontrava nessuno. Lo dice lui stesso nelle interviste, del resto. Quindi ho portato per la prima volta in Italia una canzone a luci rosse.

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Non ce l’hai una foto con Gainsbourg?

No, all’epoca mi sentivo superiore, non m’interessava. O meglio: il mio motto era «i’m not better than anyone and nobody is better than me».

Si può insegnare il mestiere di «paroliere»?

Che brutta parola «paroliere», come suona male. Preferisco autore e poeta.

Si può insegnare?

Si, a me piacerebbe molto insegnare. Per esempio partirei da Françoise Hardy e da Comment te dire adieu. Ho conosciuto Françoise Hardy a Parigi. Viveva in una piccola casa piena di peluche. L’amavo moltissimo, ma stava con Jacques Dutronc e di conseguenza non ero corrisposto…

Quindi Daiano canta le prime strofe della versione italiana di «Comment te dire adieu», tradotta da noi con il titolo «Il pretesto», facendo sibilare tutte le «s», e così, come un miracolo inatteso, si riforma la melodia di un classico dimenticato, un delizioso e irresistibile giocattolo french pop:
«Non voglio un prete-ssssto\
per pietà\
Sai che io dete-ssssto\
falsità\
Sii un po’ più onessss-to quando vuoi\
Finirla fra di noi\
Non restar perple-sssso ad inventar\
Scuse che del ressss-to\
Non van mai\
Oltre ad un modessss-to rendez-vous\
A cui non vieni più\
Du-du-du-du».

Com’è nata invece L’isola di Wight?

Sempre a Parigi, dove avevo conosciuto Michel Delpech, il cantante di Wight is Wight, cioè la versione originale del brano. Delpech era un ragazzo bravissimo, dolcissimo, purtroppo morto giovane. Ci chiudemmo in studio quattro giorni, senza batteria, ma usando come ritmica delle chitarre molto compresse. Il discografico italiano mi propose di cambiare «Sai cosè?\L’isola di Wight?» con «Senza te\Cosa mai sarei?», ma io volevo restare fedele a un luogo e a un avvenimento che avevano avuto grande importanza per una generazione.

Ci sei stato sull’isola di Wight?

Si, però me ne sono subito andato. Erano tutti fatti, tutti nudi… Non fa per me. La nudità è un fatto importante.

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Claudio Daiano Con Veronica Castro

Nel 1974 inizia anche la tua carriera di cantautore con Io come chiunque (sulla pista di Cohen)…

Quel disco è una ferita enorme. Un intero album di canzoni di Cohen, che all’epoca in Italia non conosceva nessuno, reinterpretate da me con il consenso di Cohen. Eppure fu un disco di cui non si accorse quasi nessuno (prende la chitarra e accenna il verso «Come un uccello su un ramo», dalla versione italiana di Bird on a wire di Cohen, Ndr)

In copertina c’è la foto di una scritta sopra un muro: «Come un uccello su un ramo\Come un ubriaco in un coro lontano\Cerco anch’io la libertà»…

Si, avevo scritto io quelle frasi su un muro della darsena ai Navigli.

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Com’è invece la storia di Sei bellissima?

La mia idea era dare il brano a Mia Martini, non alla Bertè. Scrissi «Sei bellissima» una sera sopra un tovagliolo seduto a un tavolo del «4Cento», un ristorante in via Campazzino qui a Milano. Cominciai a scrivere sul tovagliolo subito dopo aver visto una donna entrare nel ristorante e sfidarmi con lo sguardo. Purtroppo la Bertè dimentica sempre di citarmi. Non l’ha fatto neppure nel suo libro. (quindi Daiano tira fuori da un bauletto un tovagliolo di stoffa rosso, lo apre e me lo mostra, Ndr). In ogni caso le canzoni che mi danno ancora da mangiare sono quelle che ho scritto per I Nomadi, come Un pugno di sabbia, e lo sai perché? Perché I Nomadi fanno 300 concerti l’anno.

daiano, adriano

Come sei finito a vivere qui ad Adriano?

Ci sono arrivato per via del verde e di certi pezzi di campagna che sono rimasti. Infatti vado spesso a trovare dei contadini che stanno da queste parti. Inoltre questa zona è vicina a Cologno Monzese e alla tv.

Qual è il luogo del quartiere al quale sei più legato? 

Il Bar Mambo, qua sotto.

daiano, adriano

Dedica di Cicciolina

Ti faccio un’altra domanda tra quelle che abbiamo già fatto ad altre persone che vivono qui. Pensa a un animale col quale ti piacerebbe arricchire la fauna locale…

Mi piacerebbe ripopolare tutta Adriano e via Ugo La Malfa con i cardellini e i passerotti che una volta mangiavano i pezzetti di brioche dalle mie mani, proprio qua in strada (Daiano ne approfitta di nuovo per chioccolare perfettamente il verso di un uccellino, Ndr).

Chi è il tuo essere umano preferito del quartiere?

Un tizio che incontro spesso per strada. Ha un brutto carattere, ma conosce il greco antico, che io purtroppo non ho potuto studiare e di cui sono molto curioso.

Che cosa manca in questo quartiere?

Oltre ai cardellini? Un club, un centro culturale, un posto dove parlare di cose belle. Lo facciamo?