Dobbiamo parlare del rapporto tra politica, economia e cultura, e non possiamo più rimandare
Giovedì 14 febbraio abbiamo affrontato l’ultimo evento dal vivo di Nube di Parole ed è molto interessante il fatto che si tratti di un incontro sull’Audience Engagement, perché da molti punti di vista Nube di Parole è stato anche un percorso di Audience Engagement. Per selezionare le 8 parole del lavoro culturale contemporaneo – che abbiamo poi discusso nel workshop di giugno al Polo del ‘900 – siamo partiti da una prima lista di 40, scelte online con oltre 2000 voti.
Nube di parole è un progetto cheFare, WeMake, Centro Studi del Presente e Polo del’900 nato per fare chiarezza, attraverso un processo partecipato online e dal vivo, attorno ad alcuni termini molto usati da chi lavora nel settore culturale, ma spesso non sufficientemente limpidi.
Il progetto è realizzato con il sostegno di Compagnia di San Paolo.
Come facciamo sempre con i progetti di cheFare, abbiamo messo assieme prospettive “in crowd” (chiedendo cioè alle comunità dei lavoratori della cultura di scegliere, analizzare commentare, sia online che dal vivo) e allo stesso tempo ci siamo rivolti ai nostri autori chiedendo loro di dare letture il più possibile trasversali e critiche.
Considerando il percorso, è interessante notare come proprio il termine “Audience Engagement” abbia sollevato le critiche più aspre da parte di alcuni autori. In modi diversi e da diverse prospettive, sia Tiziano Bonini che Flavio Pintarelli hanno evidenziato come la tensione per l’Audience Development e l’Audience Engagement sia vissuta, talvolta, in modo coercitivo da parte dei mondi della cultura.
I tentativi di quantificare, organizzare, razionalizzare e managerializzare la progettazione culturale – anzi, il fatto stesso che esista la progettazione culturale – vengono vissuti talvolta come l’intromissione di una razionalità aliena al dominio umanistico
Quando metodi che provengono da altri ambiti sono incorporati nelle raccomandazioni dell’Unione Europea, o più in generale nelle politiche pubbliche, una delle conseguenze più frequenti è la costituzione di una sorta di campo di battaglia nel quale le pratiche strettamente culturali si contendono risorse sempre più esigue con pratiche che provengono da altri ambiti: marketing, comunicazione, economia, etc.
In questi casi, troppo spesso l’oggetto strettamente culturale della progettazione passa in secondo piano a discapito di altri aspetti che hanno a che fare con ambiti disciplinari tecnico-scientifici o burocratico-organizzativi e che per questo sono in grado di dialogare in modo più efficace con le istituzioni e il policy-making. Si tratta di forme di razionalità, di sguardi, di finalità e vocazioni talmente diverse da risultare molto spesso quasi incapaci di comunicare.
I ragionamenti attorno all’Audience Development si sviluppano prevalentemente nel contesto più ampio della democratizzazione della cultura.
I tentativi di quantificare, organizzare, razionalizzare e managerializzare la progettazione culturale – anzi, il fatto stesso che esista la progettazione culturale – vengono vissuti talvolta come l’intromissione di una razionalità aliena al dominio umanistico: una “datification” del pubblico ridotto a mero consumatore che finisce per soggiacere ad una forma di potere strettamente biopolitico. Questo rischio esiste, ed è importante evidenziarlo e discuterlo per trovare gli antidoti più efficaci.
Non dobbiamo però dimenticare che i ragionamenti attorno all’Audience Development si sviluppano prevalentemente nel contesto più ampio della democratizzazione della cultura. Che cosa vuol dire? Innanzitutto, come ha messo in luce Alessandra Gariboldi in un altro articolo uscito per Nube di Parole, l’Audience Development è un rapporto di reciprocità che si instaura tra le istituzioni culturali e i loro pubblici. Un modo, quindi, per rendere le istituzioni culturali porose ed aperte al confronto (che poi questo possa essere fatto attuando processi “Empowerment” invece che di “Engagement” è cruciale, ma su questo rimando all’articolo di Alessandra).
Ragionare in termini di pubblici vuol dire mettere in stato d’assedio le tante torri d’avorio delle quali sono ancora disseminati i campi della cultura. Prendendosi tutti i rischi che la democrazia comporta
Da un altro punto di vista, tenere in considerazione i modi con i quali i pubblici reagiscono alle proposte delle organizzazioni culturali è fondamentale per evitare uno dei grandi problemi che si sono radicati nella proposta culturale italiana tra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio: l’autoreferenzialità. Per troppo tempo le risorse si sono concentrate su comunità sempre più esigue che si raccontavano attraverso uno storytelling dell’autorevolezza che ha finito per infrangersi con le grandi trasformazioni sociali ed economiche. Ragionare in termini di pubblici – di come coinvolgerli e dar loro voce – vuol dire mettere in stato d’assedio le tante torri d’avorio delle quali sono ancora disseminati i campi della cultura. Prendendosi tutti i rischi che la democrazia comporta.
Certo, il lavoro con i pubblici deve tenere inevitabilmente in considerazione variabili che troppo spesso vengono colpevolmente dimenticate. Una progettazione culturale con l’Audience non è una campagna di marketing, anche se può utilizzarne alcuni elementi. I saperi necessari per svilupparla implicano il lavoro di professionisti che deve essere riconosciuto e rientrare in linee di finanziamento specifico. Allo stesso tempo, questo lavoro non può divorare le linee di finanziamento per la ricerca e la curatela, soprattutto in questi anni nei quali la produzione culturale più tradizionale – scuola, università, ricerca, editoria, arte – sono vittime di tagli e ridimensionamenti costanti.
Se c’è davvero uno spazio in cui la dimensione umanistica della produzione culturale e quella tecnica dell’Audience possono incontrarsi, questo spazio è quello della politica culturale
Se c’è davvero uno spazio in cui la dimensione umanistica della produzione culturale e quella tecnica dell’Audience possono incontrarsi, questo spazio è quello della politica culturale
Costruire progetti nei quali pubblici, singoli, gruppi e comunità si avvicinano in modo sensato a produzioni culturali di qualità comporta un grande investimento di soldi, tempo, energie, risorse.
Chi paga per tutto questo? Quali sono i soggetti che mettono in campo le risorse, ed a che titolo? Chi viene chiamato a prendere parola su questi processi? E cosa succede quando qualcuno la parola la prende senza essere chiamato? Quali sono le organizzazioni in grado di gestire questa complessità? Cosa fare quando questa capacità non esiste?
Non si può più rimandare un dibattito pubblico, serio e articolato sul rapporto tra politica, economia e cultura
In fondo, se c’è una cosa che abbiamo dimostrato con Nube di Parole – con le migliaia di persone che si sono attivate, con le presentazioni in giro per l’Italia, con tutte le voci autorevoli che hanno preso parte al dibattito – è che non si può più rimandare un dibattito pubblico, serio e articolato sul rapporto tra politica, economia e cultura.