Come le stelle nel cielo sopra Times Square: come i social network hanno cambiato le nostre menti

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    Nella tragedia di The Borderline e nella successiva polarizzazione dei giornalisti e dei politici, nella rabbia esplosa sui social e nella conseguente chiusura del canale (che peraltro aveva aumentato i guadagni pubblicitari) c’è un particolare tipo di caos che purtroppo è possibile capire solo a seguito di eventi e disgrazie come questa. Qualcosa che ha a che fare con l’odio ma soprattutto con l’indignazione sociale; qualcosa che è in grado di dividere difronte allo stesso contenuto una comunità di seguaci accaniti e un’altrettanta comunità di odiatori. Tuttavia, quando ci si ispira a fenomeni social come MrBeast, youtuber americano che guadagna più di un CEO di una multinazionale facendo video in cui mangia pizze con foglie d’oro da 70 mila dollari oppure regala un milione di euro a degli sconosciuti purché lo spendano in 1 minuto, allora forse la prima domanda da farci è : perché un video in cui dei ragazzi guidano una Lamborghini per 50 ore dovrebbe diventare qualche cosa di virale ( e commercialmente interessante per inserzionisti e piattaforme) ?

    Partendo da fenomeni simili, Max Fisher ne “La macchina del caos: la storia interna di come i social media hanno riscritto le nostre menti e il nostro mondo” da poco tradotto in italiano da Linkiesta, ripercorre la storia dei social network usando come vettore proprio questi esempi di violenza in rete cercando di ricollegarli ad un’unica fonte, come se fossero il carburante di una gigantesca macchina algoritmica capace di stregarci a suo piacimento.

    Cosa unisce le tensioni etniche in Myanmar che hanno portato all’incitamento all’odio e al genocidio contro la minoranza musulmana Rohingya alla diffusione in brasile dei contenuti che affermavano che il virus Zika fosse causato dai vaccini? Cosa accomuna le insurrezioni di reti globali di cospirazione come QAnon all’assalto di Capitol Hill o alle rivolte in seguito all’omicidio di George Floyd?

    Per rispondere a queste domande, Fisher smonta pezzo per pezzo la struttura meccanica dei social network, entrando letteralmente nel cuore della Silicon Valley, decostruendo cioè la mitologia che si è creata dietro ai fondatori dei giganti tecnologici, che da semplici appassionati di semi-conduttori e schede grafiche sono arrivati in pochi anni a possedere piattaforme potenti come degli stati, che avrebbero dovuto fornire “l’infrastruttura sociale di una nuova fase delle relazioni umane”.

    In realtà, accanto alle atmosfere accoglienti sulla comunità globale trasmesse da Zuckerberg nei primi anni Dieci, secondo Fisher c’è un’altra storia di Internet fatta di odio, violenza e propaganda rintracciabili nei primi blog e forum come 4chan e Reddit e nel primo grande scandalo di Gamergate.

    Queste community online, secondo il giornalista del New York Times, con la scusa del divertimento e degli scherzi tra utenti (da qui nasce il fenomeno del trolling) furono i primi veri incubatori di rabbia e violenza di Internet.

    Dopo questi scandali si capisce per la prima volta che tutta quella violenza che veniva racchiusa e si autoalimentava all’interno dei gruppi e delle comunità online poteva concretizzarsi in fatti reali.

    Il cuore dell’indagine di Fisher sta però nel metodo con cui arricchisce la sua indagine (da renderla tanto affascinante quanto inquietante) verso la rabbia e la violenza generata dai social.

    Se da una parte Fisher arricchisce il libro con esclusive interviste di coloro che per primi hanno cercato di avvertire Facebook che la loro piattaforma stava diventando un terreno fertile per episodi di violenza come  in Myanmar e Sri Lanka oppure di disinformazione come nel caso della ricercatrice e giovane madre Renée Diresta e i gruppi di discussione no vax, dall’altra l’autore esamina numerose ricerche accademiche soprattutto di psicologia sociale  cercando di ricostruire, in contrasto con le numerose smentite dei rappresentanti delle aziende secondo cui le loro piattaforme non sarebbero intenzionalmente manipolative, come i social media abbiano potuto “riprogrammare le nostre menti”.

    È risaputo infatti, che gli algoritmi offrendo un flusso infinito di video e contenuti personalizzati, riescano a creare delle filter bubbles che filtrano solo i contenuti che potrebbero interessarci o delle echo chambers che amplificano le convinzioni già esistenti (spesso frutto di disinformazione).

    Da un certo punto di vista quindi l’informazione e i contenuti online sembrerebbero solo un discorso economico: una pericolosa bolla speculativa fatta di click, gruppi di interesse sui social, followers e views che ha come unico obiettivo quello di attirare l’attenzione dei lettori al fine di rivendere questi “pacchetti di interesse” agli inserzionisti pubblicitari.

    Il discorso però si complica quando questi contenuti su misura, mirati a massimizzare il coinvolgimento anche grazie a meccanismi come l’uso di notifiche continue al fine di creare un ciclo di gratificazione immediata e forme di dipendenza dalla dopamina, involontariamente favoriscono la diffusione di falsa propaganda, contenuti violenti e ideologie estremiste.

    Fisher, concentrandosi allo stesso tempo sugli studi che hanno provato come gli utenti siano dipendenti dalla dopamina e dalle gratificazioni emotive che accompagnano determinati tipi di post e sugli studi che dimostrano come l’espressione costante di indignazione online intensifichi la rabbia nella vita reale aumentando la propensione alla violenza, identifica nell’indignazione morale un sentimento chiave sfruttato dagli algoritmi di Google e Meta per monetizzare questa polarizzazione: il risultato è un circolo vizioso di monetizzazione della disinformazione, accelerato e amplificato dalle logiche dell’economia dell’attenzione.

    Accanto all’orizzonte apocalittico e distopico profetizzato da Fisher, in cui l’intera umanità sarebbe dominata da una macchina algoritmica capace di apprendere dai nostri comportamenti, di spingere intere società verso manifestazioni come il trumpismo, insurrezioni e rivolte ma soprattutto di modificare le nostre menti attraverso meccanismi di dipendenze stimolati dalla dopamina, esiste a mio avviso anche un orizzonte più “integrato” ma altrettanto spaventoso ; qualcosa di più sfumato e simile ad una nuova cultura dettata dall’ibridazione tra algoritmi delle piattaforme e le pratiche in rete di ognuno di noi spesso dettate da emozioni incontrollate.

    Perché se le piattaforme sono progettate per creare divisione e il nostro istinto primordiale è quello di scegliere una di queste parti e indignarci, odiare e cancellare tutto quello che non rispetta il fronte su cui ci siamo arroccati, allora il rischio  è quello di persone, comunità e stati destinati ad essere sempre più dipendenti da una comunicazione uniforme; una monocultura sotto forma di mantra dal quale sarà sempre più difficile risvegliarsi, se non da tragedie o eventi polarizzanti, mentre le “forme di contenuto meno coinvolgenti – la verità, gli appelli a un bene superiore, gli appelli alla tolleranza – sembreranno ogni giorno più pallide. Come le stelle nel cielo sopra Times Square” (p.203)

     

    Immagine di copertina di Alicia Steels su Unsplash

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