Attaccare l’emittente. L’informazione illogica
L’informazione che non è informazione, i dati che non sono dati, il non giornalismo che ci viene ammannito come giornalismo.
Ma soprattutto la comunicazione che coincide con il giornalismo che coincide con la politica in una retorica data dalla disintermediazione: i tweet di Trump, le dirette Facebook di Salvini. Mark Thompson nella Fine del dibattito pubblico racconta all’inizio un famoso caso americano, in cui Sarah Palin spacciò per buona la notizia che l’Obamacare prevedesse una commissione di esperti che vagliasse la scelta dei malati terminali sulla scelta di curarsi, e semmai facilitasse qualche forma di eutanasia. Il fatto che la notizia fosse falsa e facilmente smentita dai difensori della legge, non le impedì di circolare: Sarah Palin fece un bel pezzo di campagna elettorale sulle “commissioni della morte”.
È chiaro a chiunque abbia seguito un dibattito pubblico negli ultimi anni che questo è il modello. Berlusconi in Italia ha fatto scuola: dai suoi tre milioni di posti di lavoro al tumore sconfitto in cinque anni, la teoria delle sue sparate ha tenuto banco per un paio di decenni sulle pagine dei giornali, quelli che gli facevano eco e quelli che chiedevano per le sue affermazioni un esame che non arrivava quasi mai (le famose dieci domande di Repubblica). Il conflitto di interessi non riguardava semplicemente la proprietà dei canali televisivi, ma l’essersi impadronito di un pattern comunicativo.
Quello che è clamorosamente evidente è che per Berlusconi o per Sarah Palin e per tutti i politici che hanno anticipato o seguito i loro esempi (Grillo o Trump, per dire, non sarebbero potuto mai crescere se il terreno non fosse stato dissodato) non ha nessuna importanza che quello che dicono contenga della verità, poca molta nulla; la cosa fondamentale è che il messaggio sia efficace.
E quindi, di fronte alla palese ricostruzione dell’infondatezza o dell’illogicità di una certa affermazione, non smentiranno mai.
Gli studi pubblicitari su cui si formò Berlusconi gli insegnarono che una smentita per quanto capillare non minerà mai l’effetto di una notizia falsa ma efficace. Il cancro sconfitto in tre anni – quanta credibilità ha perso Berlusconi per una sparata del genere? Nessuna. Per Palin era ancora più chiaro: non smentite, ricaricate!
Commonsense Conservatives & lovers of America: “Don’t Retreat, Instead – RELOAD!”
Cosa fare di fronte a quest’inarginabile valanga di fake news, di cattiva comunicazione? Reagire è molto complicato. Soprattutto perché si è aggiunto negli ultimissimi anni un altro elemento che non esisteva ancora per Berlusconi. La sempre più sofisticata profilazione degli utenti provoca, rispetto al consumo di informazione, bolle del filtro praticamente impermeabili a contenuti eterogenei rispetto alle aspettative del consumatore.
Per chi si occupa d’informazione in modo professionale questo è tanto più vero quanto più grave. Se l’invasione mediatica del modello berlusconiano era talmente chiassosa da chiedere, quasi da pretendere una reazione, oggi ci sono interi canali che non incrociamo mai se non quando ci meravigliamo o ci indigniamo che qualcuno possa pensarla in maniera così fortemente diversa da noi. Semplicemente, nella maggior parte dei casi, non ce ne accorgiamo.
Quanti delle persone che leggeranno questo pezzo hanno aperto nell’ultimo mese, o nell’ultimo anno, almeno una volta una pagina di Liberoquotidiano.it? È veramente raro che nella timeline di un utente che guarda Chefare ci sia anche uno spazio consueto per gli editoriali di Vittorio Feltri, per dire. Se accade, probabilmente sgraniamo gli occhi e alziamo le spalle.
Immaginavamo fosse un prodotto imbarazzante, ma non pensavamo così disgustoso, eravamo convinti che fosse un giornale sciatto, ma non credevamo così fatto male: refusacci, video acchiappaclic di culi sulla spiaggia mischiate a incidenti stradali, una perversa ossessione per la Boldrini o contro Papa Francesco in un titolo su due, bufale, opinionismo di basso livello che spaccia il razzismo per buonsenso o il fascismo per anticonformismo. Ma è qualcosa di cui possiamo occuparci? Non è meglio che cuocia nel suo brodo, tanto chi se lo legge Libero? Chi si legge Il Giornale? O addirittura Il Tempo? Le statistiche ci dicono che i lettori si riducono mese dopo mese? Forse si può semplicemente fare finta che non esistano.
La piccola lezione politica che ho imparato dalla filosofia del linguaggio rispetto a questo doppio impasse – il significato ridotto a effetto e la bolla del filtro – è contrastare questo modello comunicativo sull’unico piano in cui questo si manifesta, il piano performativo.
Si potrebbe citare una lunga bibliografia che va in questo senso, ma forse il libro recente che sintetizza meglio questo approccio è Parole che provocano di Judith Butler riprendendo le analisi di John Austin di Come fare cose con le parole Butler propone di intervenire sull’emittente e non sul contenuto, cercando di rovesciare il significato di quello che viene comunicato.
Avevo in mente questo libro di Butler quando quest’estate sono stato invitato alla trasmissione di Retequattro “Dalla vostra parte”, conduttore Belpietro, unico altro ospite in collegamento Alessandro Sallusti. Siccome mi avevano detto che ero in collegamento da Roma, avevo immaginato che sarei stato ascoltato male per un minuto o due scarsi, ristretto da filmati gentisti e urlati. Mi ero portato dunque dei fogli A4, per scrivere almeno e mostrare dei dati in contrapposizione a quella che presumevo sarebbe stata la narrazione egemone dell’ora e passa di programma.
Negli anni ho capito una cosa: la contestazione al potere dev’essere fatta non nei luoghi di potere, il Parlamento per dire, ma nei luoghi dove il potere si autorappresenta. È nelle finte presentazioni dei libri di Vespa, nei convegni di qualche altezzosa fondazione vicino a Confindustria che s’intesta un progetto per l’alternanza scuola lavoro che va immaginato un intervento politico. È contro propaganda che non si dichiara che si deve rispondere con atti performativi.
Al decimo servizio sui crimini perpretati dai neri in Italia, su un paese assediato dall’invasione degli immigrati, ho capito – se già non l’avevo fatto prima – che sarebbe stato inutile proporre qualunque dato di realtà o interpretazione che con la forza della ragione smontasse quel tipo di messaggio. Occorreva attaccare l’emittente: non era interessante dimostrare se quello che diceva Belpietro era falso, ma che Belpietro non sapeva fare il suo mestiere.
Gli ho chiesto i dati sulle occupazioni a Roma, prima ha fatto capire che non li aveva, poi ha balbettato. Ma questo era il minimo – era chiaro che il mio intervento era stato innocuo, invisibile, il pubblico della trasmissione probabilmente si era reso a mala pena conto delle cose che avevo detto, del mio fastidio, e persino del fatto che, disgustato dalle affermazioni inslamofobe di Sallusti, a un certo punto mi ero alzato e me n’ero andato. Ma avevo mostrato un cartello che diceva Ma non c’avete un altro servizio sui neri cattivi?
Il giorno dopo però avevo preso un frame del filmato della puntata e l’avevo messa su Facebook con il racconto del gesto e soprattutto mostrando tutta l’evidenza di una trasmissione tv che dovrebbe essere chiusa non solo per istigazione al razzismo, ma perché è fatta con la più totale sciatteria. Il reframing ha funzionato.
Nell’idea della redazione di Belpietro, io sarei dovuto essere il rappresentante di una famigerata sinistra radical chic che si agita per i discorsi della destra criptorazzista; nei fatti – nell’effetto, ossia nell’unico significato che conta – ero semplicemente un cartello con scritto Ma non c’avete un altro servizio sui neri cattivi?La critica era all’emittente non al messaggio, ed era fatta in un medium – un post su Facebook diventato virale – che aveva la forza di opporsi non al messaggio ma all’emittente.
Che avesse funzionato, nel suo piccolo, è stata per me una conferma dell’efficacia di una pratica politica di questo genere rispetto al mondo della comunicazione.
Qualche giorno fa ero colpito allo stesso modo per esempio dalla manifestazione di Nonunadimeno sotto la redazione del Messaggero a via del Tritone, il giornale che nelle ultime settimane aveva dato vita sulle proprie pagine a una campagna intitolata Roma Sicura, una serie di consigli alle donne per evitare di essere aggredite a Roma.
Era chiaro anche qui che il nodo problematico non fosse semplicemente il messaggio, e che quindi non bastasse opporre dati e idee a questo backlash antifemminista. C’era bisogno anche qui di attaccare l’emittente. Solo così ha funzionato.