Fin dal 2012, nella riflessione su cosa è cheFare e sul senso del suo agire ci siamo raccontati in modi molto diversi tra loro: prima un premio per progetti culturali innovativi, poi un’organizzazione per la cultura e l’innovazione, una piattaforma abilitante per l’innovazione culturale e infine un’agenzia per la trasformazione culturale.
Non si tratta di un esercizio di narcisismo definitorio, un’ossessione tassonomica o una questione di marketing: ogni formula riflette un grado diverso di consapevolezza politica, di capacità di leggere le mutazioni dei mondi che attraversiamo, di tentativi di costruire traiettorie di dialettiche culturali. E ogni formula, ogni definizione, ogni parola si porta dietro uno strascico di campi semantici, di incrostamenti ideologici, di echi di plastica di parole abusate , di pesi di memorie scomode. Si è trattato sempre di un esercizio maieutico per capire come attraverso il discorso e la pratica culturale – che poi sono una cosa sola – si può intervenire politicamente sullo stato delle cose.
La trasformazione culturale è un’ottica per rileggere i mondi che attraversiamo: le reti di attori e di pratiche emergenti che si confrontano con le ambiguità ed i chiaroscuri della cultura contemporanea.
L’innovazione organizzativa ed economica dell’industria culturale – sia in termini di prodotti che di processi – è uno dei campi in cui questa complessità è più difficile da leggere.
È follia cercare di stare nel mezzo delle cose nel 2018 ignorando le trasformazioni legate a cose come il crowdfunding, i bilanci partecipati, i nuovi dispositivi giuridici, le monete complementari, il platform cooperativism. Allo stesso tempo, ridurre tutto a questi pochi elementi è straordinariamente miope.
È urgente intervenire nella costruzione di nuove competenze, nuove alfabetizzazioni e nuove socializzazioni: dai linguaggi digitali all’interdisciplinarietà, passando per il coding, l’educazione emotiva alla tecnologia, gli strumenti critici transculturali e la cultura del progetto. Perché per quanto gli addetti ai lavori del terziario avanzato, dell’accademia e dell’innovazione sociale possano trovare ridondanti e fastidiose le camere d’eco fatte di selfie, post-it e aggiornamenti di status, basta fare due passi fuori dal cordone di sicurezza per rendersi conto di come molte pratiche siano tutto tranne che un patrimonio comune.
L’imperante ingenuità del rapporto con la tecnologia, d’altro canto, è il segno più chiaro dell’incapacità di costruire un senso del contemporaneo: la blockchain e l’intelligenza artificiale, il making e gli algoritmi, i social network e la realtà virtuale non sono interessanti perché sono l’ultima cosa nuova su piazza; sono interessanti perché sono indicatori di cambiamenti rapidi e brutali nel mondo intorno a noi che costruiscono nuove disuguaglianze, nuove opportunità e nuovi conflitti. E proprio per questo ci chiedono scelte politiche attente e lungimiranti.
C’è bisogno della stessa attenzione per i mondi che ruotano attorno alla rigenerazione urbana: uno dei campi più problematici, per le inevitabili connessioni con la speculazione finanziaria dei mercati immobiliari e per la facilità con la quale alcune parole chiave – da sharing a smart – vengono utilizzate come forma di brandwashing per operazioni più che pessime. Eppure, allo stesso tempo, i discorsi e le pratiche che si possono produrre attorno alla rigenerazione urbana interrogano la capacità di produrre forme culturali della città tra conflitti in divenire, gruppi sociali diversi, architetture ibride e nuovi spazi pubblici.
Le pratiche emergenti in questi mondi non esistono “di per se” e la misura e la direzione della loro capacità di costruire senso cambia completamente a seconda del discorso culturale e politico in cui si inscrivono.
Per provare a posizionarsi ha senso quindi provare a farsi la domanda più banale e semplice: ma alla fine, cos’è la pratica culturale? La risposta più frequente, almeno guardando a quello che offre il panorama nazionale negli ultimi anni, sembrerebbe essere: la pratica culturale è una forma di consolazione.
Consolazione della constatazione dell’inutilità del proprio capitale culturale, acquisito faticosamente e che fa sempre più fatica a convertirsi in capitale economico. E quindi la pratica culturale sembra essere sempre di più una piccola glorificazione identitaria di micro-consumi perimetrati all’interno di nicchie dalle quali ci si può dire che si, il mondo è crudele, ci hanno ingannato ma guarda quanti like ha preso quel post su Deleuze.
Oppure, all’altro estremo che poi si tocca, la pratica culturale è divenuta l’inanellare constatazioni lapalissiane con linguaggi piatti puntellati da pochi classici della cultura della seconda metà del ‘900 che il ceto medio riflessivo non può non conoscere e nei quali non può non riconoscersi.
Quello che stiamo provando a fare con cheFare è accettare l’incompletezza della pratica culturale provando a guardare oltre i suoi elementi consolatori, frugando nello iato tra significati e significanti e cercando di capire cosa vuol dire la conflittualità del discorso nel contemporaneo. Cerchiamo di farlo superando la dicotomia artificiale (e, anche questa, consolatoria) tra contenuti e processi, tra teoria e pratica.
La prima senza la seconda, infatti, è sempre più speculazione fine a se stessa; fondamentale, ma spesso destinata a restare inascoltata e quindi sostanzialmente inoffensiva. La seconda senza la prima, invece, rischia di limitarsi ad essere mera tecnica dell’innovazione: cruciale se implementata in un’ottica di ricerca del senso ma ridotta al soluzionismo se abbandonata a se stessa.
Per anni abbiamo provato ad interpretare la complessità del rapporto tra cultura, politica ed economia con interpretazioni derivate da un quadro di economia politica intesa in senso lato, mutuando la teoria delle quattro forme di capitale di Pierre Bourdieu per la quale gli individui (così come i gruppi sociali e le organizzazioni) hanno a disposizione in misura differente capitale economico, capitale sociale, capitale culturale e capitale simbolico.
Questi capitali sono parzialmente convertibili l’uno nell’altro: posso utilizzare il mio capitale economico per acquisire titoli formativi o accedere a circoli prestigiosi, così come posso utilizzare la mia reputazione, il mio sapere o i miei contatti per vendere a un prezzo maggiore il mio lavoro. Queste conversioni sono governate da logiche dinamiche che hanno a che fare con la strutturazione dei campi di potere generali e particolari all’interno dei quali individui, organizzazioni e gruppi si muovono.
Letta in quest’ottica, la crisi di senso del contemporaneo è prevalentemente un’impossibilità di stabilire forme di conversione univoca dei capitali, attribuendo valore alla messa in opera del capitale cognitivo e riconfigurando così i rapporti di potere. Si tratta di un modello analitico che spiega molto ma che sembra condurre sempre a soluzioni ultralocali o irrealizzabili. La monetizzazione dell’attività degli utenti sui social network? La costruzione di beni comuni digitali che non possano essere cooptati dagli oligopoli dei dati? La messa in opera di strategie di guerriglia simbolica anti-gentrification? Tutte speculazioni promettenti che, nei casi migliori, rappresentano casi unici (come Wikipedia) dai quali non sembra possibile estrapolare indicazioni utili per linee di sviluppo organiche.
Forse ragionare ai margini dell’economia classica e neoclassica solo in termini di estrazione di valore, conversione di capitali e lavoro cognitivo vuol dire dimenticarsi un elemento cruciale della pratica culturale: quello estetico. Estetico non inteso come “del bello”: di discorsi sulla bellezza e su come ci salverà se ne possono trovare quotidianamente a bizzeffe. Il punto che ci siamo dimenticati, forse, è quello dell’esperienza “del sensibile” intesa nel modo più ampio possibile. E’ dall’estetica – una cosa molto diversa dalla cosmetica – che parte il conflitto culturale possibile.
Cosa ci possono dire sul contemporaneo mostre tutte uguali, libri tutti uguali, coworking tutti uguali, festival tutti uguali? Spazi, presentazioni, camp, workshop, riviste digitali tutte con gli stessi sapori, gli stessi odori, gli stessi colori, gli stessi autori?
Sembrerebbe che ci siamo rassegnati ad una tautologia esperienziale da copia-incolla nella quale possiamo essere già sicuri di quello che si troverà nella nostra tranquilla e controllata esperienza di consumo culturale: pacche sulle spalle. Cercando conferme in quello che si sa già in attesa della prossima polemichetta da social network e del prossimo minidivo sotto la cui faccia postare “genio” per dimenticarsene subito dopo.
Dov’è lo spaesamento? Dov’è la messa in discussione pericolosa del rapporto tra soggetti e soggetti ed oggetti? Si sono, parrebbe, persi nella cantilena di bibliografie & business model, post-it & fogli excel, mentions & compilazioni.
Un florilegio di cautele e consolazioni che appiattiscono la dimensione dell’esperienza culturale e delle relazioni, cercando costantemente di minimizzarne l’eccedenza: quella parte intangibile, incommensurabile, irriducibile che rende il risultato maggiore della somma delle parti.
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