Il carcere in Italia, aprire una finestra su un mondo chiuso

“Il reparto ha 22 celle e circa 60 ristretti. I muri sono scrostati da angoli di adesivo, con l’urgenza di tramutare quelle pareti in casa. Sulle pareti adiacenti al letto, la pertinenza personale assieme all’armadietto, ci sono immagini di Padre Pio, papa Francesco, Belen, Maradona, Higuain, Totti, fotografie di mogli, figli, nipoti, cani, amanti, ritagli di seni, di bikini, di cieli tropicali, scritte a penna con l’incertezza dell’intonaco ruvido e la verticalità del gesto che parlano di indirizzi lontani, mezzelune annerite a bic” (p. 96).

Valeria Verdolini registrava con queste parole, nel suo “diario di campo”, l’incontro con un reparto di una casa circondariale italiana, nel 2019. Le pareti del carcere appaiono rivestite con icone del mondo esterno, con volti familiari e luoghi di libertà, idoli dello sport, personalità religiose o dello spettacolo: tutte immagini nelle quali si rinviene il doloroso sforzo di addomesticamento della brutalità sperimentata nella marginalizzazione radicale, nella reclusione fisica che – per un tempo variabile a seconda della pena inflitta – rende estranei al mondo e cittadini di uno spazio governato da regole e dinamiche forzate e autoreferenziali. Per sopravvivere, le persone recluse avviano un processo di adattamento agli imperativi del sistema carcerario, che ne avvolge e determina tutti gli ambiti dell’esistenza, dall’abbigliamento all’alimentazione, dalle forme dei rapporti interpersonali agli spazi in cui è possibile posizionarsi nei diversi momenti di cui si compone la routine quotidiana.

Tuttavia, l’irriducibilità della soggettività umana a un qualsivoglia totalizzante potere esterno determina l’inevitabilità di un conflitto costante, l’emersione continua di tensioni latenti che spesso sanno essere contenute, dirottate e metabolizzate, ma talvolta esplodono nella violenza, nella ribellione, nell’autolesionismo, nel delirio, nel suicidio. Il bisogno di una sfera affettiva e le pulsioni sessuali – condizioni dell’umano negate da statuto e di principio nella realtà intramuraria – trovano i loro surrogati e le vie lungo le quali scavare i canali per manifestarsi, con modalità oscure e impensabili per chi vive nel mondo “qui fuori”.

Un’ispettrice ha raccontato a Verdolini: “In questo istituto, come può vedere, il reparto maschile e femminile si guardano da due lati del giardino. Al passaggio all’aria, dalle finestre vengono chiesti i nomi delle persone viste nel cortile. Da lì inizia una fitta corrispondenza per posta interna. Si urlano cose romantiche e si promettono amore a vita dalla finestra e dalle sbarre. A volte litigano per posta. Altre invece le relazioni epistolari proseguono fino alle nozze, in molti casi la celebrazione delle nozze rappresenta il primo momento di incontro tra i futuri marito e moglie. Non sempre funziona, e dopo la celebrazione a volte si procede al divorzio, altre volte il matrimonio viene annullato. Qualche volta resistono (Casa di reclusione del Nord Italia, giugno 2021)” (p. 103).

L’istituzione reietta – opera della sociologa Verdolini, pubblicata da Carocci – apre una finestra su quel mondo chiuso, riflette sulle sue caratteristiche da una solida prospettiva teorica e filosofica, propone la sua interpretazione in un corpo a corpo con le tradizioni di studio e di pensiero che, da Goffman, a Foucault, a Basaglia hanno pensato la funzione del carcere in rapporto con i poteri e le società. Ma, in parallelo, Verdolini analizza e descrive il sistema carcerario italiano contemporaneo, fornendo i dati e le coordinate utili per coglierne le dimensioni e i caratteri specifici.

Apprendiamo così di vivere in un paese dove, negli ultimi quindici anni, la popolazione reclusa è oscillata tra le 55.000 e i 70.000 persone, distribuite in poco meno di duecento strutture, più frequentemente collocate nelle aree extraurbane, secondo una tendenza all’ubicazione decentrata consolidata nel corso del Novecento. Ancora, nelle carceri italiane le donne si sono mantenute prossime al 4-5% del totale dei reclusi mentre, nel corso degli ultimi trent’anni, è aumentata la percentuale di carcerati di origine straniera.

Verdolini dedica molto spazio all’analisi della composizione per genere e per origine nazionale delle persone ristrette, passando in rassegna la letteratura più aggiornata ed evidenziando, senza alcun ingenuo determinismo, i fattori di status, le variabili economiche, sociali e politiche che rendono più frequente la carcerazione di alcune tipologie di soggetti. Per esempio, le retoriche securitarie, su cui diverse forze politiche hanno consolidato il proprio consenso a partire dagli anni Ottanta, favoriscono la diffusione di un senso di insicurezza dal quale consegue una domanda d’ordine e di intensificazione del controllo poliziesco: trovano così posto, al centro dell’attenzione mediatica, la microcriminalità, i reati contro la proprietà e il decoro urbano, in particolare quando sono commessi da cittadini di origine straniera. Si è rafforzato di conseguenza il “consenso dei cittadini sulle politiche di controllo autoritario e repressivo degli «altri pericolosi»” (p. 121), accompagnato da elementi che promuovono il profiling degli stranieri negli spazi urbani e nelle situazioni conflittuali. Si aggiungono, a ingrossare il numero di migranti nelle carceri, “la presenza di crimini specifici (connessi alla legge sull’immigrazione), possibili discriminazioni o pregiudizi (in sede processuale o difensiva); l’accesso a una difesa adeguata, la comprensione corretta del momento processuale, la difficoltà di applicazione dei benefici preprocessuali (come la custodia domiciliare, o l’accesso a misure alternative dalla libertà) che influiscono, ancora una volta, a ingrossare il numero” (pp. 77-78).

In questo quadro, già assai complicato e controverso, il sistema carcerario italiano soffre di un grave sovraffollamento delle strutture, inevitabilmente foriero di una radicalizzazione delle tensioni e delle sofferenze per le persone ristrette: “Il 31 dicembre 2012 […] nelle carceri italiane erano presenti 65.701 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 posti con un tasso di sovraffollamento del 139,7%. Il dato peggiore, tuttavia, risale al mese di novembre 2010, quando la popolazione detenuta aveva raggiunto la cifra di 69.155 persone, con un tasso di sovraffollamento a livello nazionale del 147%, ridotti nei due anni successivi grazie all’emanazione della legge 26 novembre 2010, n. 199, la quale prevedeva che i condannati a una pena, anche residua, inferiore ai 12 mesi potessero scontare l’ultimo anno di detenzione presso il domicilio” (p. 47).

Difficile non valutare la relazione tra il peggioramento delle condizioni di vita dovuto al sovraffollamento e i livelli di sofferenza psicologica che portano carcerate e carcerati italiani a tassi di malattia psichiatrica molto superiori alla media della popolazione libera, oltre che a tassi di suicidio che, in varie annate, sono quattro o cinque volte superiori rispetto alla cittadinanza italiana nel suo complesso.

Ancora, lo studio di Verdolini dedica pagine di grande interesse alle ricadute che la pandemia ha avuto sia sui detenuti – che, nel marzo 2020, si sono trovati sigillati (significativamente, come i pazienti di comunità psichiatriche e delle RSA) e privati di pochi contatti di cui potevano godere in tempi normali – sia sul personale penitenziario – che ha dovuto affrontare, talvolta con eccessi di violenza, una fase di impressionante intensificazione delle tensioni e delle ribellioni.

Notevole pregio del lavoro di Verdolini consiste nella sua capacità di sviluppare una riflessione sul sistema carcerario che affronta gli elementi di cambiamento sociale, i fattori ideologici, i principi fondamentali attesi e disattesi, gli atteggiamenti e gli immaginari sull’«altro» diffusi nella società in cui lo stesso sistema carcerario si sviluppa. Da questo punto di vista, mentre descrive chi sta “là dentro”, Verdolini ragiona su quel che siamo noi, “qui fuori”.