Il ruolo del capitale sociale in quarantena e le differenze tra i vari social media

Era un tranquillo pomeriggio di una primavera che tardava a sbocciare e, oltre ai pollini, nell’aria c’era anche qualcos’altro che aveva già fatto capolino da qualche settimana: un virus con cui presto avremmo imparato a convivere. Era l’inizio della pandemia da COVID-19. Per contrastare l’avanzata del virus occorreva limitare gli incontri sociali, utilizzare dispositivi di protezione personale quali mascherina e igiene delle mani, nonché ridurre gli spostamenti al minimo indispensabile. La sera del 9 marzo 2020, l’ormai ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, annunciò l’inizio di una quarantena di due settimane… peccato che poi di settimane ne trascorsero otto. Settimane durante le quali gli unici contatti con l’esterno ammessi erano quelli virtuali. In questo scenario, che ruolo stavano giocando le nuove tecnologie della comunicazione nel mantenimento delle relazioni sociali, vicine e lontane, così come nella creazione di nuovi legami? In particolare, come stavano reagendo gli studenti e le studentesse universitarie (sia fuori sede che non) di fronte all’implosione della routine dentro le mura di casa? Queste domande sarebbero diventate la base della mia ricerca di tesi: un’etnografia (quasi) tutta digitale sul modo in cui capitale sociale, social media e nuove tecnologie della comunicazione si sono intrecciate durante la prima quarantena del 2020 (9 marzo – 4 maggio 2020).


L’articolo è un estratto della tesi di Francesca Piras. Una collaborazione tra cheFare e il corso in Sociologia della Comunicazione (prof. Tiziano Bonini) del Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive (DISPOC) dell’Università di Siena.  La collaborazione vuole dare visibilità a lavori di ricerca per tesi di laurea particolarmente originali e rilevanti per i temi di cheFare. 


Cos’è il capitale sociale e perché è così importante?

Il capitale sociale si definisce a partire dalle relazioni che intercorrono tra le persone che fanno parte di una rete sociale o di un gruppo, nonché dalla fiducia, dagli obblighi e i riconoscimenti identitari reciproci che ne derivano. Non è dunque riconducibile alle persone che compongono tale rete sociale. Non a caso il problema che da sempre circonda gli studi sul capitale sociale è proprio la sua misurazione, dal momento in cui le relazioni sociali non sono concrete, quantificabili e qualificabili in modo certo e preciso. Ciò non di meno il capitale sociale è onnipresente e fondamentale per tutti gli aspetti della nostra vita – e non solo quella sociale.

L’interesse verso il capitale sociale nasce a inizio Novecento al di fuori dell’accademia. Fu infatti un riformatore progressista americano, Lyda Judson Hanifan, a sottolineare per la prima volta l’importanza del gruppo, della rete sociale: ciò non sarebbe soltanto in grado di evitare l’isolamento sociale, ma apporterebbe anche benefici in termini di salute psico-fisica e ci aiuterebbe ad affrontare le più semplici sfide quotidiane affidandoci all’aiuto di qualcun altro. Possiamo infatti considerare un fitto capitale sociale come un piccolo tesoretto di aiuti potenziali a cui fare affidamento in situazioni difficili. È da qui che scaturisce l’idea del capitale sociale come forma di potere al pari, ad esempio, di quello economico (ovvero della ricchezza materiale) – ma anche la visione strumentale dei legami sociali. Infatti, secondo una prospettiva classica di cui possiamo considerare capofila Pierre Bourdieu, il capitale sociale sarebbe utile solo nel momento in cui fosse possibile mobilitarlo per raggiungere obiettivi in senso puramente utilitaristico, o farci avanzare e muovere all’interno di tutte le sfere della società. Tuttavia, la nostra esperienza quotidiana ci insegna che non ci circondiamo di legami solo quando abbiamo bisogno di un piccolo prestito o di un passaggio in auto, ma anche per avere un sopporto emotivo, per superare momenti di crisi, ma anche per condividere un bel momento… e la lista è lunga. 

Dunque, quali sono i diversi tipi di legami?

Ma i legami sono tutti uguali? Pensiamoci: porremmo mai sullo stesso piano un vicino di casa e il nostro migliore amico? Molto probabilmente no, sono entrambi rilevanti, ma hanno un peso diverso. Al centro di questa distinzione ci sono variabili come il numero di ore trascorse insieme all’altro o la quantità e la qualità delle esperienze condivise.

I nodi che compongono le nostra rete sociale, infatti, non sono tutti uguali e si distinguono tra legami forti e legami deboli. I legami forti (detti anche legami “che serrano” poiché creano coesione intragruppo) sono quelli più vicini a noi e quelli più immediatamente disponibili ad aiutarci in caso di necessità. Al contrario, i legami deboli (o legami “che aprono”) fungono da ponti di collegamento con il mondo sociale fuori dal gruppo, fungono da ponti verso altri gruppi sociali e nuove e opportunità. Nonostante rappresentino gli anelli più deboli della catena di legami, sono comunque fondamentali.

Per quanto sia auspicabile la coltivazione di entrambi i tipi di legame, è stato dimostrato che in situazioni di crisi si faccia più affidamento su quelli forti, proprio grazie alla loro maggiore vicinanza e disponibilità. In effetti, si è rivelato essere così anche nel caso della quarantena dello scorso anno dove, complice la mancanza di contesto, i legami forti ne sono usciti ancora più forti a scapito di quelli più deboli che sono rimasti (spesso) tali. L’aspetto particolarmente interessante emerso dalla ricerca è stato però un particolare uso dei media e dei canali comunicativi a seconda del tipo di legame da contattare di volta in volta. Qui, il capitale sociale si è dimostrato particolarmente determinante nell’indirizzare l’uso delle nuove tecnologie della comunicazione per cercare di gestire tutti i legami e di non perderne neanche uno.

Cosa è successo con l’isolamento sociale imposto della quarantena di marzo – maggio 2020?

Infatti, tutti i legami sociali sono stati grossomodo mantenuti, ma con modalità diverse a seconda della composizione del capitale sociale di ciascuno. Nonostante durante il lockdown le persone abbiano effettivamente preferito intensificare i contatti con i legami più forti a scapito di quelli più deboli, l’interno capitale sociale ha giocato per tutti un ruolo fondamentale per evitare di rimanere ulteriormente isolati. Qualcuno, tramite i mezzi di comunicazione, ha addirittura stretto nuovi rapporti (sebbene la maggior parte, anche qui per mancanza di contesto, non abbiano visto la luce in fondo al tunnel della quarantena). 

Gestione dei rapporti sociali online: rete sociale come rete di salvataggio per affrontare la quarantena

Posta la superiorità degli incontri faccia a faccia, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista sociale ed economico, chi ha vissuto in condizioni di privilegio la quarantena ha avuto la possibilità di sopperire in qualche modo alla mancanza della socialità dal vivo, in modo estremo chi ha affrontato la quarantena in completa solitudine; meno chi invece l’ha vissuta in compagnia di qualcun altro. In tutti e due i casi c’è stato un incremento nell’uso delle nuove tecnologie della comunicazione. Carla, studentessa fuorisede di 26 anni, a tal proposito ha chiarito il modo in cui alcuni canali hanno sostituito vecchi riti sociali: “almeno una videochiamata al giorno la faccio, invece prima non era così, anche perché prima si poteva uscire, e se avevi bisogno di un amico andavi a trovarlo o prendevi un caffè. Ora prendi un caffè virtuale, prendi un aperitivo virtuale, come se si condividesse la stessa esperienza […] dietro l’aperitivo c’è il gesto di voler fare compagnia e di avere compagnia, cioè io l’ho visto così. Gli aperitivi virtuali, in realtà non sono stati banali perché magari quel pomeriggio tu sei stata meglio e hai fatto stare meglio un’altra persona”.

Tra gli altri, gli aperitivi hanno rappresentato una trasposizione di un’abitudine dentro la dimensione della quarantena, garantendo un senso di continuità con il “prima”. Anche quella sorta di corteggiamento sociale che andava dall’accordarsi su WhatsApp circa l’orario e il luogo d’incontro, ai saluti finali è stato trasposto in chiave virtuale, solo che poi ci si incontrava su Skype. Tuttavia, nonostante le videochiamate fossero il canale più vicino ad una comunicazione dal vivo, non erano per tutti. Le videochiamate, nello specifico, erano dedicate quasi esclusivamente ai legami forti e molto forti. 

Ogni legame aveva un canale comunicativo preferenziale (o più di uno)

Legami forti e deboli con persone che già si conoscevano prima della quarantena venivano gestiti in modi diversi proprio sulla scorta di una diversa ricchezza del legame stesso che dipendeva, non in ultima analisi, dal carattere e dal capitale sociale di ciascuno. L’ampiezza (il numero di legami) e la composizione interna del capitale sociale (quindi l’equilibrio tra legami forti e deboli) ha infatti influito sull’uso dei mezzi per rispondere a diversi bisogni sociali.

In generale, ai legami più forti venivamo indirizzate le videochiamate – ad esclusione di quelle formali, come i gruppi di lavoro – proprio perché era molto faticoso tenere l’attenzione davanti ad uno schermo, sebbene fosse il tipo di scambio più simile agli scambi faccia a faccia.  Ma non solo la fatìca: anche l’intimità del feedback che le videochiamate garantivano, seppur monco di segnali del corpo e prossemici, era un punto a sfavore del loro utilizzo verso tutti i legami della rete sociale. Le videochiamate erano preferite soprattutto verso persone con le quali c’era un legame così intimo da dare per scontato delle informazioni che rimanevano sullo sfondo del non detto, in modo da alleggerire la conversazione… cosa che non era possibile fare con una persona con la quale si aveva un legame debole e men che meno con uno sconosciuto. Sono chiare a tal proposito le parole di Sara: “non con tutti c’era la stessa qualità della comunicazione […] non me la sentivo di comunicare con persone con cui non avevo un rapporto ben saldo […] è più facile chiamare una persona con cui hai confidenza, che ti ha conosciuto gradualmente e a cui non devi raccontare il contesto in cui ti trovi, non devi raccontare cosa fai durante la giornata, ok? Perché chi senti quotidianamente già sa cosa fai… e invece quando senti una persona che non senti da molto è difficile perché secondo me, già non vedendola da tanto non c’è più quella naturalezza fisica, ed è ancora più difficile provare ad instaurare una cosa che sia lontana… e poi anche il fatto che appunto una videochiamata è impegnativa e quindi la richiesta di informatività con persone che non vedi e non senti da tanto è tanta, capito?”.

Chiaramente, i legami più forti venivano mantenuti e gestiti anche tramite la messagistica istantanea (soprattutto WhatsApp). La chat di Instagram, altro social media largamente utilizzato da questo gruppo di persone, veniva usata sovente per le comunicazioni rapide, nonostante le affordances di questa piattaforma non siano propriamente nate per tali scopi. I Direct Messages (o semplicemente DM) erano molto utilizzati per lo scambio di reaction alle storie soprattutto verso i legami più deboli. Verso questo tipo di legami infatti prevalevano comunicazioni testuali e più veloci da comporre meno ricchi di note emotive, caratteristiche che ben si adattano ad una comunicazione rapida e senza troppe implicazioni. Dal punto di vista dell’uso per lo scambio di messaggi, di testo o vocali, WhatsApp e Instagram vengono infatti percepiti e usati in modo (e con persone) diverso. Se WhatsApp si usa per “le cose più private” (Francesco, 23 anni), Instagram è percepito come una piattaforma in cui passare il tempo libero: “con alcune persone magari inizia la conversazione ma solitamente è molto breve… se no c’è la questione delle reazioni, che però non sono conversazioni perché uno mette la reazione, l’altro mette mi piace ed è finita lì” (Chiara, 25 anni). Sebbene le affordances di quest’ultima app non siano state pensate per tali scopi, infatti, spesso le persone la usano per scambiarsi dei messaggi, ma non vengono percepiti come conversazioni “profonde”. Per quello c’è WhatsApp – e quindi i legami più stretti.

Ancora diverso erano le conversazioni con i nuovi legami conosciuti durante la quarantena: seppur in minima parte, i social media e le nuove tecnologie sono state utilizzate anche per continuare a socializzare, sebbene fosse più complesso in assenza della presenza fisica e di un contesto. Così come la mancanza di contesto non ha favorito il rafforzamento di legami deboli già esistenti o quelli strettamente legati ad una particolare situazione di vita quotidiana, come i colleghi dell’università (se non in rare eccezioni che confermano la regola). Più o meno tutte e tutti hanno conosciuto qualcuno tramite gruppi su Facebook o i gruppi dell’università: ciò che cambiava erano le sorti di questi rapporti: chi aveva un carattere introverso e un capitale sociale ristretto o con pochi legami deboli, preferendosi barricare tra quelli più forti, non ha lasciato troppo spazio alle nuove conoscenze che sono morte con la fine della quarantena. 

In qualche modo, il carattere più o meno introverso di ciascuno di queste ragazze e ragazzi era legato alla composizione e all’ampiezza dei loro capitali sociali: maggiore era l’estroversione, più ampio e variegato era il capitale sociale. E questo si è riflettuto proprio sull’uso dei mezzi da parte di questi ultimi durante la quarantena: chi aveva tanti legami, sia forti che deboli, ha usato attentamente tutti i canali e i mezzi a disposizione per non perderne neanche uno. Viceversa, chi aveva un carattere più introverso e un capitale sociale ridotto ed omogeneo che, concentrandosi maggiormente sui legami forti, ha perso di vista quelli più deboli e non ha aggiunto tasselli al proprio capitale, con la conseguenza di un diverso uso dei mezzi di comunicazione digitale.

Per concludere

In un famoso saggio sulla società americana di fine secolo scorso, Bowling Alone, Robert Putnam puntava i riflettori sul pericolo insito nelle nuove tecnologie (all’epoca TV e telefono fisso) per la disgregazione (già avviata) del capitale sociale. Secondo l’autore queste due tecnologie avrebbero allontanato le persone, modificato le loro abitudini di consumo e di socialità, che da quel momento non sarebbero state più vincolate alla presenza fisica: da una parte il telefono avrebbe permesso di comunicare a grandi distanze; dall’altra, la TV avrebbe intrattenuto le famiglie nello spazio privato della casa. Questa ricerca, e altre prima di essa, hanno mostrato esattamente il contrario, ovvero che le nuove tecnologie hanno reso ancora più necessari gli incontri dal vivo. A dimostrazione di questa tesi, c’è il fatto che, all’indomani della quarantena, si siano abbandonate la maggior parte delle comunicazioni virtuali superflue per dare priorità ai contatti geograficamente vicini. Nonostante Internet abbia indubbiamente aumentato le possibilità di mantenere e creare legami anche quando non è possibile incontrarsi dal vivo, è ancora necessario parlare di capitale sociale in relazione ai legami fisicamente presenti.

Durante la quarantena, i bisogni sociali hanno guidato l’uso dei dispositivi: chi aveva un capitale sociale più ampio ed eterogeneo – quindi più legami da gestire contemporaneamente – ha usato tutti i canali a disposizione per non perderne neanche uno. Chi aveva un capitale sociale modesto e composto da più legami forti che deboli, al contrario, ha aumentato più il consumo di mezzi per un uso privato e per l’intrattenimento, sebbene abbia anche mantenuto i legami più forti. Insomma, il capitale sociale ha influenzato i ritmi di queste esigenze. Il carattere di ciascuno, più o meno estroverso, ha fatto il resto.

Lungi dall’essere un’esaltazione positivista delle nuove tecnologie della comunicazione, questa ricerca ha voluto dimostrare esattamente il contrario di quanto sostenuto da Putnam: le nuove tecnologie della comunicazione, che nel frattempo sono diventate smartphone, computer e Internet, sono state piegate da ciascuno per rispondere a specifici bisogni sociali. Grazie a loro, chi ne aveva accesso, ha potuto continuare a nutrire il proprio capitale sociale, sempre in maniera vincolata ai limiti delle tecnologie stesse.

Infine, la compressione del mondo esterno dentro le mura domestiche ha portato ad un ritaglio chirurgico del tempo, delle stanze della casa, dei mezzi e delle forze che si potevano (e volevano) investire nei confronti di legami diversi, perché la fatìca legata all’uso esclusivo di dispositivi elettronici per ogni attività era elevata, specie per le videochiamate. La casa e le nuove tecnologie si sono così influenzate a vicenda, secondo un processo di mutual shaping: di volta in volta la stanza diventava un bar, un’aula universitaria, una sala da pranzo, ecc. e a loro volta i mezzi di comunicazione davano vita a questo mutamento, cambiando la loro funzione. 

La quarantena è stato sicuramente un capitolo che ci rimarrà impresso per anni e durante il quale periodo abbiamo imparato una cosa importante è, a mio parere, l’importanza della nostra rete sociale, della coltivazione dei legami sociali che hanno funto da rete di salvataggio in un mare di incertezze e solitudine.