La scuola post-Coronavirus è un’occasione mancata: cartoline dal suo futuro prossimo
Siamo appena stati catapultati avanti nel tempo di pochi anni. Il Covid-19 è sparito all’improvviso più o meno come è arrivato e attorno a noi molte cose sono cambiate: si è diffuso lo smart working, le riunioni che coinvolgono persone lontane non si fanno più in presenza, le soluzioni abitative private hanno superato gli hotel come forma di ricezione turistica, è in corso un lento ma visibile esodo verso le colline e le montagne, si stanno progettando trasformazioni urbane che ridurranno la densità abitativa,… Molto è cambiato, ma non tutto. La scuola italiana non lo è. Qualche avvisaglia l’avevamo già avuta durante la fase dell’emergenza Covid-19, quando non ci spiegavano perché la discussione sulle riaperture post lockdown si concentrasse su tutto (attivita produttive, turismo, sport, tempo libero, seconde case, ristorazione,…) meno che su sulla scuola.
L’apice di questo paradosso è stato raggiunto quando, con un colpo di magia, il problema è stato risolto: “apriamo i centri estivi” è stato detto, svelando così che l’idea di scuola materna, primaria e secondaria che il discorso pubblico produceva e diffondeva era quella di un servizio di babysitting collettivo funzionale al tempo lavoro o al tempo libero dei genitori. Il discorso relativo al terzo livello di istruzione è diverso nei contenuti ma non negli esiti. Lì il problema è stato risolto con la didattica a distanza, senza nessun tipo di riflessione sulle opportunità che offre (che sono davvero molte) o sui rischi che determina verso la qualità dell’esperienza di apprendimento (e anche questi sono molti, ma conto di tornarci in un prossimo futuro).
Se la scuola è solo questo, allora la didattica, l’esperienza e le relazioni non contano più
Se la scuola è solo questo, allora, la didattica, la socializzazione, l’esperienza e le relazioni non contano più, conta solo il tempo che i bambini e i ragazzi ci possono passare dentro o i titoli di studio che possono acquisire. Per molti anni siamo stati convinti che il problema della scuola fosse quello di essere un’organizzazione sociale interamente costruita attorno al programma, che ne determinava le forme (la disposizione delle classi è pensata per favorire il controllo degli studenti e favorire la trasmissione delle informazioni da parte del docente) e i tempi (gli orari e l’organizzazione in quadrimestri dell’anno scolastico non sono certo il prodotto dei tempi di vita contemporanei, molto più accelerati e dilatati del ‘900). I più critici ne hanno invece messo in luce le funzioni di comando e controllo nei confronti di individui, i bambini e i ragazzi, considerati solo come persone in divenire, cioè futuri adulti, e come la scuola abbia rappresentato nei loro riguardi un dispositivo efficace per espropriarli della possibilità di vivere lo spazio pubblico.
Torniamo alla fine dell’emergenza del 2020 e iniziamo dalle scuole dell’infanzia. Nulla è stato detto o fatto riguardo ai nidi e alle materne. Sono state chiuse nel silenzio generale e senza interrogarsi non solo (e non tanto) sugli impatti sulle forme di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro dei genitori e dei nonni ma soprattutto su quale impatto avrebbero potuto avere sull’esperienza soggettiva dei bambini che, dopo essere stati di fatto obbligati a sviluppare la capacità di adeguarsi ad una struttura diversa dalla famiglia ne sono stati improvvisamente e senza molte spiegazioni privati.
Alcuni bambini hanno reagito manifestando una grande tristezza provocata dalla mancanza di importanti relazioni e dall’interruzione delle proprie routine; altri hanno sviluppato una sorta di autismo relazionale e limitato drasticamente la propria sfera di relazioni ai familiari più stretti; altri ancora hanno dimostrato quanto sia per loro faticoso sottostare ai meccanismi e all’organizzazione scolastica, preferendo invece crescere nel tempo libero e non strutturato. Ognuna di queste reazioni manifesta vissuti personali differenti e, ancora più importante, ha avuto effetti differenti sullo sviluppo personale e relazionale dei bambini. Non interrogarsi su questo ha significato anche non cercare forme di compensazione o di valorizzazione delle nuove dimensioni dello spazio dell’infanzia e abbandonare famiglie e bambini davanti a una sfida nuova e complessa.
La casa è diventata così uno spazio totale
Le scuole primarie e secondarie sono state oggetto di un vissuto molto simile. Le strategie di contrasto all’emergenza Covid-19 hanno catapultato i bambini e i ragazzi in una vita limitata a due spazi su tre – la scuola, la città e la famiglia – e li hanno obbligati a trascorrere tutto il loro tempo nello spazio domestico e a fare la conoscenza di un nuovo spazio della scuola interamente online.
La chiusura delle scuole, che è iniziata prima del lockdown ed è continuata per molti mesi anche dopo, ha innescato una serie di problemi pluridimensionali, limitando le interazioni con gli altri bambini/ragazzi e gli insegnanti, riducendo ulteriormente i loro spazi di autonomia. A questa, limitatamente alla fase acuta della crisi, si deve aggiungere anche la totale sospensione delle attività ‘del tempo libero’, che prima garantivano minimi livelli di interazione autonoma dagli adulti. I bambini e i ragazzi, all’improvviso, si sono trovati così sottoposti interamente ed esclusivamente al controllo dei genitori e privati di ogni minima forma di interazione tra pari non familiari. La casa è diventata così uno spazio totale – dello studio, delle relazioni e del gioco – mettendo sotto pressione le regole d’uso abitualmente stabilite dalle famiglie.
Mentre i bambini e i ragazzi venivano privati di tutti gli spazi abituali di interazione venivano anche catapultati, improvvisamente e senza nessuna preparazione, né loro né degli adulti, nella nuova realtà delle lezioni online. Si è trattato di uno spazio attivato ai fini del programma ma che, a differenza della scuola fisica, non si è modificato per esso e dove, anzi, è stato il programma a venire piegato alle possibilità offerte dalle piattaforme digitali, come dimostrato dalla scarsa attenzione data all’uso delle piattaforme per scopi di socializzazione oltre che didattici.
Le università sono quelle che apparentemente sono uscite meglio dalla crisi. L’organizzazione debole dell’accademia, l’abitudine di ricercatori e docenti all’utilizzo di tecnologie di comunicazione a distanza e la consuetudine con forme di lavoro flessibile e smart hanno consentito di adeguare, senza alcuna programmazione e pianificazione, il proprio lavoro al nuovo contesto digitale.
Sia le ricerche che gli insegnamenti sono continuati su una pluralità di piattaforme digitali, scoprendo che se utilizzate in modo consapevole e integrato offrivano notevoli opportunità sia per loro che per gli studenti. In pochi mesi si sono moltiplicati gli esperimenti di didattica a distanza, molti dei quali non si sono interrotti con la fine dell’emergenza. Tuttavia sono mancati due dibattiti su quanto accaduto.
Il primo riguarda l’esperienza soggettiva e collettiva degli studenti: come hanno vissuto questo periodo della loro esperienza universitaria? quali impatti ha avuto sui loro apprendimenti? e quali sui loro percorsi di socializzazione, altrettanto importanti ai fini del loro futuro progetto vita? Il secondo riguarda gli impatti delle trasformazioni dell’università post-covid: finita l’emergenza, infatti, le università non sono più tornate indietro e sono aumentati a dismisura i corsi blended (per metà online e per metà in presenza) e quelli interamente online, stravolgendo le economie locali delle città universitarie e modificando grandemente i loro mercati immobiliari.
Finita l’emergenza le università non sono più tornate indietro e sono aumentati a dismisura i corsi blended
Le questioni poste interrogano le ragioni del loro formarsi. In modo forse troppo semplicistico, nei primi giorni dopo la fase acuta dell’emergenza, alcuni critici hanno puntato il dito contro il mancato investimento nell’istruzione (“All’Alitalia il doppio di risorse rispetto alla scuola”, titolava il Foglio il 22 maggio 2020), storico vizio dell’Italia. Se però tentiamo lo sforzo di entrare a fondo nelle vicende che hanno caratterizzato quei giorni emergono anche altre questioni. Non è possibile, in questo caso, puntare il dito contro la scarsa programmazione, che è stata impedita dal modo in cui la crisi si è determinata e sviluppata in modo improvviso e incerto.
Una certa dose di responsabilità, però, va attribuita ad atteggiamenti corporativi da parte di molte categorie coinvolte nel lavoro scolastico: gestori degli spazi dell’infanzia, insegnanti, professori e delle stesse famiglie. Ognuno di loro ha anteposto le proprie esigenze e abitudini ai bisogni e alle risorse dei destinatari della scuola. Questo è potuto avvenire perchè nel continuare a considerare i bambini, i ragazzi e i giovani solo come futuri adulti e non come individui nel pieno della loro evoluzione (per quanto transitoria) si è continuato ad impedire loro quel protagonismo che è forse l’unico modo per rivoluzionare la scuola e rovesciare la sua impostazione adulto-centrica. In questa scuola vengono prima gli obiettivi di profitto dei gestori privati, la risposta difensiva e sindacale degli insegnanti di fronte alla squalificazione del loro ruolo sociale e professionale, l’autonomia che diventa individualismo dei professori che scordano di far parte di una comunità accademica e professionale più ampia e la scelta di delegare alla scuola i compiti educativi da parte delle famiglie.
In questa scuola vengono prima gli obiettivi di profitto dei gestori privati
Tutto ciò viene sempre prima del diritto dei bambini, dei ragazzi e dei giovani di essere protagonisti attivi e non solo beneficiari della scuola e di disegnare questa con loro oltre che per loro. Solo questo cambio di prospettiva avrebbe potuto innescare un processo di radicale trasformazione dei modelli spaziali della scuola, intesi non più con funzioni di contenimento, protezione e collocamento occupazionale ma di esplorazione e apprendimento, andando a qualificare i bambini e i giovani non più come una persona in divenire, cioè un ‘non ancora adulto’, ma come un individuo titolare di capacità e risorse personali che lo rendono capace di stare in relazione con il mondo e con gli altri, anche in modo autonomo dalla mediazione adulta. Solo una simile rivoluzione avrebbe potuto favorire un nuovo modo di concepire gli spazi della scuola e una vera e propria nuova concezione dell’infanzia e della gioventù e orientare verso di esse politiche di investimento.
Nella logica di spazi prestazionali della cura, del controllo e della protezione, infatti, le scuole sono rimaste in competizione per le (poche) risorse destinate ad altre strategie, tra le quali l’intervento di altri adulti del nucleo familiare (ad es. i nonni) e nuovi sistemi di flessibilità degli orari di lavoro (ad es. lo smart working).
Nella logica di spazi dei bambini, dei ragazzi e dei giovani, invece, avrebbero potuto diventare uno dei pilastri del welfare territoriale e un’opportunità di nuovo protagonismo sociale, trasformandosi in un terreno di innovazione sociale e miglioramento della qualità della vita, in grado di stimolare la creatività e l’intraprendenza di cittadini organizzati e non, di gruppi di famiglie e insegnanti, che avrebbero potuto sperimentare nuovi modi di coniugare apprendimento, relazioni e ambiente in una logica di sviluppo sostenibile.
Immagine di copertina: ph. CDC da Unsplash