All’inizio del 2005 due società importanti e attive sul mercato europeo iniziavano a contendersi le grandi città che volevano dotarsi del servizio di noleggio automatico di biciclette nei centri urbani, da allora denominato bike-sharing.
Queste società, anche se da poco tempo, erano già attive nel settore del noleggio automatico di biciclette, infatti all’inizio di quell’anno erano presenti installazioni operanti a Oslo e Vienna, ad esempio. Le due società attive nel settore al tempo erano: JCDecaux e Clear Channel.
Per la gestione del business di bike-sharing si creava una divisione apposita presso la sede centrale di JCDecaux a Neuilly, Parigi, società già leader nel mercato mondiale della pubblicità out of the home, vale a dire quella inserita in pannelli sia sui muri che in spazi appositi in aree urbane o lungo le strade (ad es. metrò, aeroporti, autostrade).
In questa fase di espansione del business la prima installazione significativa su suolo francese è di JCDecaux, a Lione nell’aprile del 2005. Realizzata sulla base di un accordo con la municipalità in virtù del quale quest’ultima concedeva una quantità stabilita di metri quadri per l’affissione di pubblicità sui muri della città, in cambio del sistema di bike-sharing che JCDecaux installava (600 stazioni e 3.000 biciclette). Quell’accordo includeva anche un compenso cash che JCDecaux pagava alla municipalità di Lione per l’ammontare di tredici milioni di euro.

Pubblichiamo un estratto Inondare le strade di biciclette (Mimesis)
L’altro operatore che emerge nel panorama europeo in quegli anni è Clear Channel. Una società americana con base in Texas, proprietaria di un’estesa rete di emittenti radiofoniche negli Stati Uniti e anch’essa legata al mondo della pubblicità.
Clear Channel realizzava un’installazione a fine del 2006 a Oslo e facendosi forte di quel precedente riusciva a conquistare il mercato di Barcellona. La municipalità di Barcellona faceva un contratto diverso rispetto a quello tra JCDecaux e Lione, nel senso che acquistava per intero il sistema di bike-sharing e quindi ne diventava proprietaria, limitando l’impegno di Clear Channel unicamente alla gestione e manutenzione dello stesso. Di conseguenza il contratto non prevedeva come contropartita la concessione di spazi urbani per l’affissione di pubblicità. La municipalità negoziava annualmente una cifra per il servizio di manutenzione che includeva, tra le altre cose, anche la sostituzione delle biciclette danneggiate o scomparse (attualmente Barcellona conta 400 stazioni e più di 6.000 biciclette).
Per quanto riguarda Parigi c’era stato, nella prima metà del 2007, un bando per installare un servizio di bike-sharing, ed era stato vinto da Clear Channel. Tuttavia, a seguito di un ricorso interposto da JCDecaux venne riassegnato il bando a quest’ultima società, con conseguente contro-ricorso da parte di Clear Channel.
Il bando prevedeva che il sistema fosse operativo dal 15 luglio 2007 e la giustizia francese si è pronunciata con una decisione definitiva pochi giorni prima di quella data. JCDecaux, pur nell’incertezza riguardo all’esito della causa, aveva iniziato una intensa campagna di informazione e sensibilizzazione per promuovere l’uso del sistema. Alla proclamazione della sentenza definitiva si era dimostrata già organizzata e pronta per l’installazione che veniva avviata regolarmente il 15 luglio, con una parte rilevante delle 1.500 stazioni e 20.000 biciclette promesse.
Sulla scia di JCDecaux anche Cemusa, azienda spagnola, tra il 2007 e il 2008 cercava di estendere la propria offerta di arredo urbano a una nuova di bike-sharing, con alcuni fallimenti eclatanti come nel caso di Roma.
Sempre nel 2008 emergeva una società a Orbassano, nelle vicinanze di Torino, Bici in Città, riusciva a conquistare i mercati di Alba, Verona e Bari, incorrendo in esperienze talvolta fallimentari. Tuttavia, Bici in Città riusciva a vincere la gara di Torino (con oltre 140 stazioni installate) e a imporsi in diverse grandi città italiane (Genova, Bergamo, Perugia, Udine, Livorno e altre).
Sia JCDecaux che Clear Channel avevano cercato di espandersi in altre città, inizialmente in Francia, poi negli Stati Uniti e in Italia. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la prima installazione di un sistema di bike-sharing è stata a Washington DC. La municipalità aveva firmato il contratto proposto da Clear Channel, che prevedeva dieci stazioni per un totale di centoventi biciclette.
Il sistema venne attivato con un grave ritardo dovuto a problemi di fornitura di energia elettrica per i parcheggi. Superato questo scoglio, era emerso che sia il numero dei mezzi che quello dei parcheggi era insufficiente e che nel contratto non era prevista la sua espansione. Per questa ragione, Bixi, società canadese, aveva la possibilità di inserirsi a Washington DC.
Bixi era una società fondata a Montreal, la città del continente americano culturalmente più vicina alla Francia, dove il bike-sha- ring aveva già attecchito.
La società nasceva per iniziativa di un gruppo di ciclisti appassionati e funzionari della municipalità, trovando finanziamenti da diverse fonti locali. Questa società era riuscita a disegnare il sistema allora più avanzato sul mercato, includendo anche l’utilizzo di energia solare per dare autonomia energetica – per quanto possibile – alle stazioni di parcheggio, superando in questo modo lo scoglio che aveva ritardato l’installazione a Washington DC. Infatti, grazie a queste caratteristiche innovative la società riusciva a cominciare a operare proprio nella capitale statunitense (500 stazioni e più di 5.000 biciclette).
Bixi, sebbene avesse realizzato un buon prodotto, non è riuscita a costituire un gruppo di management adeguato conseguentemente a dotarsi di una strategia di crescita dell’impresa adatta a rispondere all’ondata di domande che avrebbe potuto ottenere dal mercato.
Inoltre non avevano previsto la loro dipendenza tecnologica dalla ditta che forniva il sistema informatico di supporto. Bixi, dopo uno straordinario successo di mercato in molte città degli Stati Uniti (Boston, Chicago, New York, San Francisco) e oltreoceano (Londra e Sydney), non aveva saputo affrontare questo rapido sviluppo. La prova più evidente arrivava con l’installazione del sistema nella città di New York ai tempi del sindaco Bloomberg, che accumulava quasi un anno di ritardo.
La poca esperienza dei fondatori di Bixi aveva portato alla costituzione di un’impresa con un modello societario simile a quello di una azienda municipalizzata, ottenendo così il supporto dell’amministrazione pubblica.
Soluzione che però si era presto rivelata un’arma a doppio a taglio dal momento che impediva loro di operare liberamente al di fuori dei confini nazionali.
Problema che venne risolto con il coinvolgimento della potente lobby di politici e imprenditori delle città di Portland, Oregon a Washington DC in virtù del quale fu coinvolta Alta, una piccola società di architettura e urbanismo di Sausalito, California. Da allora, Alta si spostava a Portland e lì costituiva la direzione delle attività di Bixi, fuori dal Canada. La società di Sausalito che era composta da meno di dieci persone si era espansa rapidamente arrivando a contare circa quattrocento dipendenti. Il gruppo imprenditoriale aveva così una sede in Canada (Bixi) e un’altra a Portland (Alta), che era formalmente l’intestataria dei contratti con le città statunitensi.
Le difficoltà nell’onorare il contratto di installazione con la città di New York, insieme a un conflitto e alla successiva causa legale con la società canadese proprietaria del software di sistema, avevano portato Bixi a gravi problemi economici che avevano provocato la messa in vendita della società. La parte canadese veniva acquistata da un imprenditore locale che voleva rilanciarla come società esclusivamente privata.
Alta Bicycle Share, divisione di Alta, invece veniva acquistata da un gruppo imprenditoriale di New York che si aggiudicava l’unico vero asset di cui Alta disponeva: i contratti stipulati con i municipi per l’installazione di un sistema di bike-sharing. Motivate, come veniva rinominata Alta Bicycle Share, aveva dovuto ricostruire la società e fare grandi investimenti per far fronte agli impegni contrattuali già in essere.
Arriviamo al 2017, anno nel quale si verifica un evento eclatante cha ha un’immediata diffusione mondiale: è il sistema di bike-sharing dockless, proposto da molte aziende tra cui Ofo e Mobike, con base in Cina e da Lime, con base a San Francisco. Questa soluzione era sicuramente quella tecnicamente più avanzata e insuperabile dal punto di vista funzionale, tuttavia non teneva in giusta considerazione il problema che avrebbe condotto a serie difficoltà e ridiscussioni dello stesso: il parcheggio selvaggio sui marciapiedi che creava seri disagi ai pedoni, ai disabili su sedie a rotelle e ai passanti con passeggini. A questo si aggiungevano poi il furto, il vandalismo e l’appropriazione di un servizio da parte di utenti che impediscono ad altri di usufruirne. Come? Parcheggiando mezzi di bike-sharing nei propri cortili, e quindi impedendo l’accesso a terzi, o cancellando i QR code con cui attivare un nuovo affitto del mezzo, in modo che i nuovi utenti non possano utilizzare quel mezzo.
Tuttavia le problematiche connesse al sistema dockless non scoraggiavano gli investitori e le molte società che andavano nascendo attratte dall’inesistenza di barriere d’ingresso, dovuta al basso costo dei mezzi offerti – risultato della loro bassa qualità.
Intanto in Francia, la nuova amministrazione della città di Parigi, con a capo la socialista Anne Hidalgo, nel 2016 aveva deciso di non rinnovare, passati dieci anni, il contratto con JCDecaux, che scadeva il 31 dicembre del 2017. L’amministrazione comunale aveva scelto la società Smoove di Perpignan per sostituire JC- Decaux e, secondo i contratti, questo cambio di gestione avrebbe dovuto effettuarsi nei primi giorni di gennaio del 2018.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, ad aprile del 2018, Uber, società con base a San Francisco, aveva deciso di estendere la propria attività principale di trasporto automobilistico privato al settore del bike-sharing e acquistava, per duecento milioni di dollari, la società Jump (ex Social Bicycles Inc). Uber, l’anno successivo, decide inoltre di quotarsi in borsa.
Sempre nel 2018, a giugno, un forte concorrente nel segmento originario di Uber, la società Lyft, anche lei con sede a San Francisco, decide di entrare nel business del bike-sharing acquistando, per duecentocinquanta milioni, la Motivate di New York17. Anche Lyft nella prima metà del 2019 decide di quotarsi in borsa.
Uber e Lyft sono tutt’oggi i due player principali nel mercato che ruota intorno al bike-sharing.
Per quanto riguarda i grandi player in Europa, JCDecaux è stato ridimensionato avendo perso Parigi, anche se è ancora saldo, tra le altre, a Dublino, Vienna, Lione e Bruxelles; Clear Channel rimane inamovibile a Barcellona, Milano e Oslo e ha segnato un buon colpo assicurandosi una megalopoli come Mexico City, anche se rimane da vedere come gestirà la sua espansione per coprire una città così vasta.
La storia più recente parla di poco più di 3.1 miliardi di dollari investiti da Uber per assicurarsi il controllo di Careem, società che opera in 13 paesi del mondo arabo dal Pakistan al Marocco, che oltre ai trasporti include anche molti altri servizi dal food delivery al trasferimento di denaro.
Tutto quanto discusso in questo capitolo ci fa capire quali siano le forze in gioco, si parla di milioni, centinaia di milioni di dollari, in alcuni casi anche miliardi. Le grandezze vanno ben oltre le promesse di mobilità green delle giunte comunali e spesso grandi società hanno approfittato delle ricadute popolari di alcune di queste scelte per ritagliarsi posizioni di grande privilegio nel mercato della mobilità di oggi.
Il business delle biciclette non è un’invenzione di sognatori e utopisti ma un dato di fatto e se queste sono le cifre è comprensibile che un investimento come quello che deve essere alla base del progetto che è stato descritto non è un investimento a fondo perduto, anzi, va a collocarsi sulla scia di scelte che i grandi player della finanza internazionale operano ormai da anni.
Ci sono molte ragioni per cui questo investimento potrebbe inoltre risultare complementare ad altri business che si stanno diffondendo nel mondo e che fanno della mobilità leggera il core dei loro piani operativi. Penso soprattutto a una logistica smart e micro di cui, è sempre più evidente, le grandi città hanno bisogno e che in molti casi è già centrale con trasporti e consegne a raggio ridotto che avvengono sempre più spesso, se non ormai quasi esclusiva- mente, su mezzi leggeri e agili.
A partire dal 2017 diverse società in Cina, Stati Uniti ed Europa hanno cominciato a progettare l’introduzione nelle aree urbane di monopattini elettrici, arricchendo così l’offerta per quanto riguarda la mobilità leggera. Il fenomeno dei monopattini è nato nel 2018 a Santa Monica e da lì si è diffuso rapidamente in California (in particolare a San Francisco) e anche in altre città americane come New York e Washington DC. L’anno seguente questi veicoli sono com- parsi anche sulle strade delle principali città europee, come Parigi, Londra, Milano, Barcellona.
Il business dei monopattini, come quello delle biciclette e degli altri mezzi dockless, è un business con una soglia molto bassa o nulla di ingresso nel mercato per gli investitori. I costi dei mezzi sono molto bassi e i monopattini fanno la loro prima comparsa sulle strade delle grandi città europee senza nessuna regolamentazione a riguardo e il suolo pubblico viene occupato massicciamente, secondo convenienza delle società di noleggio. Infatti, l’assenza di un dock, ha permesso di approfittare di un vuoto amministrativo per risparmiare sulle spese e aggirare le limitazioni che erano legate all’occupazione del suolo pubblico necessaria ai sistemi dockbased per le stazioni di parcheggio.
Cosa succede? Prendiamo il caso di Parigi che poco dopo la diffusione del sistema conta dodici società impegnate nell’affitto dei monopattini dockless.
Numeri alti e poche o nessuna regola che portano a forti lamentele dei cittadini riguardo anarchia dei parcheggi e sicurezza. Sicurezza messa in discussione più volte per mezzi veloci e con un telaio quasi nullo, tema che ha cominciato a interessare l’opinione pubblica soprattutto dopo i primi casi di incidenti mortali.
Insieme alla sicurezza, dicevamo, l’anarchia e la difficile gestione di spazi condivisi tra pedoni, biciclette e ora monopattini. Le già poche aree sottratte alla circolazione delle automobili e dedicate alla mobilità dolce vedono comparire un nuovo attore che accresce la confusione e il rischio negli spostamenti. Le differenze di massa e velocità tra le tipologie di mezzo sempre più numerose rendono meno sicure le strade e generano conflittualità tra gli utenti: tra i pedoni, i ciclisti e chi va in monopattino. Serie di problematiche che costringono le autorità delle principali città a interventi per regolamentare i parcheggi (che troppo spesso, trattandosi di mezzi dockless, ostacolano altri utenti della strada) e a limitare la velocità dei monopattini a 8 km/h nelle aree pedonali e a 20 km/h sulle strade percorse anche dalle automobili e in alcuni casi anche a proibirli.
In una conferenza del 6 giugno 2019, a seguito di un tragico incidente con un monopattino, la sindaca Hidalgo ha parlato di ordine e regolamentazione necessari per pacificare le strade promettendo inoltre un bando per scegliere le società che avrebbero potuto operare sul suolo urbano e limiti al numero di mezzi con cui potranno farlo.
Le limitazioni sul numero di monopattini disponibili sulle strade ridurranno gli introiti delle società che vi hanno investito e che prospettavano grossi profitti se si fosse conservata la situazione di anarchia che ha caratterizzato l’irruzione dei mezzi. Questo complica i piani di queste società e sposta inevitabilmente il break even immaginato in principio, mettendo a rischio la loro sopravvivenza a seguito delle manutenzioni massicce o sostituzioni che i mezzi richiederanno dopo alcuni anni di utilizzo.
Non a caso la sindaca Hidalgo ha chiuso la conferenza prevedendo la scomparsa o il significativo ridimensionamento del servizio nel giro di pochi anni, facendo un paragone con quanto accaduto nel caso delle biciclette dockless.
Analogo al caso dei monopattini è quello degli scooter elettrici che a loro volta hanno contribuito a rendere le strade urbane sempre più confusionarie e hanno messo in evidenza vuoti normativi che disciplinino i parcheggi di questi mezzi.
Anche in questo caso le strade sono state invase da una nuova tipologia di mezzo ma i problemi sono rimasti analoghi a quelli descritti sopra per i monopattini e inoltre ci si chiede se – data la convenienza da parte delle società di inondare le strade con un numero altissimo di mezzi – sarà sostenibile continuare a produrre telai, batterie e altre componenti elettroniche che hanno sì un costo molto basso ma che hanno anche un impatto ecologico significativo, se non per quanto riguarda il loro utilizzo sicuramente per quanto riguarda il loro smaltimento.
Monopattini e scooter non hanno risolto i problemi, se possibile li hanno accentuati. Per questo, insistiamo nel proporre un sistema di parcheggi che permetta innanzitutto di utilizzare le biciclette di proprietà dei cittadini senza il bisogno di intasare le strade con mezzi dockless e in secondo luogo di abituare a una mobilità diversa un numero significativo di persone.
Non abbiamo la possibilità di perdere tempo con mezzi-giocattolo per pochi ma è necessario focalizzarci su un sistema di mobilità che inondi le strade di biciclette, facendone i primi attori e regolamentatori del traffico così da poter accogliere tutti i benefici – economici, ambientali e sanitari – che, come discusso in questo libro, sarebbero garantiti dall’adozione del nuovo sistema di mobilità descritto.