Autobiografia. Pratiche di libera corrispondenza

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    Di cosa ti occupi? Che mestiere fai? 
Diverse volte mi sono pentita di averlo chiesto ad altri. Perché si tratta di domande semplici eppure talvolta inopportune: non sempre domandare cosa fai corrisponde a chiedere chi sei.

    L’essere passata, come tutti, attraverso esperienze molto diverse mi ha portato a pensare che la mia più grande ambizione per il futuro debba essere quella di non cercare la gratificazione professionale nelle aspettative degli altri, soprattutto nelle gerarchie di un sistema che associa il valore a determinati ruoli. Ovviamente, è un percorso ancora tutto in divenire.

    Ci sono giorni in cui assemblo bulloni in una cooperativa sociale; altri in cui mi invitano a tenere lezioni all’università. Più spesso, mi occupo dell’ideazione e della progettazione di percorsi formativi rivolti al personale museale sui temi dell’apprendimento e dell’accessibilità, frequentemente in collaborazione con altri colleghi, con organizzazioni diverse o persino in rete con realtà internazionali. In ognuna delle attività che svolgo sento che le finalità del mio lavoro non entrano mai in conflitto.

    In estrema sintesi, mi occupo principalmente di strategie per il coinvolgimento dei visitatori museali adulti. Lavoro soprattutto come formatrice e facilitatrice a partire da percorsi di ricerca indipendente. Ho 35 anni e mi considero molto fortunata.

    A 27 anni con addosso un grembiule, per pagarmi l’affitto, ho lavorato per un certo periodo in una gelateria. L’avere una laurea, esperienza nelle pratiche di curatela (dai musei di arte contemporanea a certe gallerie milanesi) amplificavano solo l’imbarazzo di coloro che non sapevano come reagire incontrandomi in quei panni. All’epoca invidiavo profondamente i miei compagni di università che lavoravano nei musei: probabilmente passavano il tempo a fare fotocopie ma lo ammettevano in pochi. “Ma tu rendi felici le persone”, mi dicevano. Forse, avevano persino ragione.

    Sette mesi prima, all’aeroporto di New York, un visto diplomatico mi aveva permesso di saltare ore di coda ai controlli: l’avevo interpretato come il segnale di un cambiamento imminente. Avevo vinto un bando del Ministero degli Affari Esteri e una borsa di studio per un tirocinio all’Istituto Italiano di Cultura e pensavo, credendoci molto, che dopo quell’esperienza mi avrebbe aspettato un carriera in salita. Pensavo proprio così, alla parola “carriera”. 
Anche per questo motivo a New York avevo fatto diversi colloqui: nessuno, di fatto, era andato bene ma si erano rivelati comunque utili per capire quali fossero le questioni ritenute allora più attuali.

    Al Brooklyn Museum, ad esempio, mi avevano domandato come avrei allestito la sezione di arte africana nella consapevolezza di un inevitabile scarto culturale. Un tema, fra gli altri, sul quale avevo già iniziato a riflettere ma la cui sola lettura dei libri non poteva dirsi sufficiente.

 A Milano ho inizialmente studiato Storia dell’arte. Dopo tre anni di grande interesse, avevo solo chiaro che avrei voluto lavorare nei musei pur senza aver maturato alcuna conoscenza dei possibili ruoli. Per capirne di più, per il biennio successivo mi ero iscritta a Economia e gestione museale, un corso in cui, all’estremo, il confronto con professionisti del settore (e non più solo docenti di provenienza accademica) si era dimostrato spesso destabilizzante: in settimana seguivi delle lezioni su come essere un buon manager culturale per poi ritrovarti, nel weekend, a distribuire audioguide.

    Sono gli stessi anni in cui, per caso, mi capita di leggere il libro Creazione contemporanea. Arte, società e territorio fra pubblico e privato che nel mio percorso segna certamente una tappa. Attraverso l’arte pubblica metto a fuoco la relazione di senso fra cultura e sociale: un’epifania a partire dalla quale si sviluppa anche la mia tesi.

    Quando pochi anni dopo mi propongono di lavorare in una cooperativa che si occupa di inserimento lavorativo di persone con disabilità accetto subito.
 Si tratta di un’organizzazione che gestisce uno spazio confiscato nell’hinterland di Milano per la quale, a distanza di quasi dieci anni, tutt’ora collaboro, occupandomi soprattutto della gestione dei volontari e del rilancio di alcune iniziative sul territorio. Un’esperienza fondamentale, anche rispetto ai temi dell’accessibilità museale, che per molto tempo non ho inserito nel curriculum: fosse solo per una certa malafede verso un universo culturale che ritenevo incapace di leggere fra le righe di una storia professionale che, inconsapevolmente, andava facendosi sempre più ibrida.

    Seguono gli anni delle associazioni culturali portate avanti con gli amici, delle sperimentazioni. Continuo il più possibile a lavorare in modo disarticolato e autonomo progettando anche parecchie proposte per le scuole che trovano una loro collocazione solo grazie ai numerosi insegnanti che decidono di fidarsi della mia inesperienza.

 Inizio a lavorare per ABCittà, storica cooperativa milanese impegnata sui temi della progettazione partecipata, nel 2010. Accetto la proposta di occuparmi della conduzione di alcuni Consigli Comunali dei Ragazzi anche perché, fra le altre, odio guidare in tangenziale: un progetto dall’altra parte della città mi permette così di sfidare tutte le mie resistenze.

    Più pragmaticamente, la riflessione sui metodi della facilitazione si trasforma in una nuova opportunità per ripensare alle collaborazioni che, sempre con maggior frequenza, mi vedono coinvolta in ambito museale. Facilitare offre una chiave di confronto estremamente diversa da quella prettamente educativa: ragiona sull’apertura ad un dialogo attivo, sulla messa in discussione dei punti di vista, sulla visione condivisa. 

La progettazione partecipata, in anni in cui non è ancora una tendenza, mi porta alla ricerca di una formazione più alta e specifica che sappia associarla in modo rigoroso ai musei. Il mio interesse è tutto orientato alle persone, soprattutto ai visitatori adulti, ed è per questo che mi iscrivo al master in Learning and Visitor Studies in Museums and Galleries dell’Università di Leicester che seguo da non frequentante per due anni, continuando parallelamente a lavorare a Milano e per un certo periodo, contemporaneamente, anche a Torino.

    Il confronto con l’università inglese è determinante per la qualità dei contenuti e l’apertura alla messa in discussione, critica e attivista. Ho molti colleghi inglesi, europei, come me studenti lavoratori: ognuno di noi, almeno una volta al mese, si confronta per telefono con i singoli docenti. Ogni tre/quattro mesi ci vediamo ai seminari. I temi vanno dall’audience development alla rappresentazione della diversità, dalle strategie educative destinate a pubblici diversi all’etica, alla valutazione: gli esami bimestrali sono corretti in forma anonima da almeno due professori. Per lo svolgimento della tesi (nel mio caso il gioco come strumento di apprendimento al museo per adulti) il mio relatore può individuare le debolezze di metodo nella lettura di un solo capitolo a mia scelta: il lavoro completo potrà anche essere anche bocciato, sottoposto per intero al giudizio insindacabile di una commissione esterna. Per fortuna questo non accade.

 Da quell’esperienza si rafforza la rete di contatti internazionali, che rimarrà un tratto saliente del mio percorso ad oggi.

    I progetti sviluppati in ambito museale e le collaborazioni, nel frattempo, aumentano progressivamente, dalla Fondazione Sandretto al lavoro al Museo del Novecento, fino al Museo degli Strumenti Musicali del Castello Sforzesco di Milano, con un focus sempre più orientato ai temi dell’inclusione. Nello stesso periodo uno studio di ricerca sugli immigration center in Europa sviluppato per conto di ABCittà insieme alla collega Anna Chiara Cimoli (con cui ancora oggi lavoro alla maggior parte dei miei progetti), ci consente il confronto diretto con istituzioni non prettamente museali ma che tracciano modelli e orizzonti che per me rimarranno comunque di riferimento; su tutti, le esperienze di Idea Store a Londra e Antirumors di Barcellona.

    Nel 2013 scopro casualmente il bando di una fondazione bancaria finalizzato all’aggiornamento professionale in qualsiasi settore: si tratta del Progetto Professionalità della Fondazione Banca del Monte di Lombardia che vinco l’anno successivo. Il mio progetto mi consente di confrontarmi nel corso di alcuni mesi con otto città statunitensi e quasi un centinaio di musei, in una articolata mappatura delle best practices sui temi dell’accessibilità sensoriale e cognitiva con un focus nuovamente sull’area newyorkese e sulle attività sviluppate dal Metropolitan Museum. Della ricchezza di questa esperienza conservo soprattutto il senso di un rinnovato valore fra pari, così come la curiosità che mi consente di mettermi sempre in contatto, ancora oggi per ogni mio viaggio, con colleghi stranieri di altre musei.

    Quello che ho chiaramente messo a fuoco in quel periodo, infatti, è stata soprattutto la necessità di osare il dialogo, anche con persone e ruoli diversi dal mio: in questo senso, ho imparato a confrontarmi liberamente anche con il più grande dei direttori allo stesso livello umano, nella consapevolezza di un portato di sapere che sarà comunque sempre e inevitabilmente diverso.

    Una traccia, anche questa, che penso vada sempre tenuta salda nella reciprocità di tutti i livelli. 

Di ritorno dagli Stati Uniti inizio a scrivere e raccontare di questo viaggio che, del resto, consideravo un grande privilegio: dalla fine del 2014 si intensificano spontaneamente gli inviti a convegni e seminari. Pubblico alcuni contributi anche sul blog Musei senza barriere che, fondato nel 2013 e ora in momentaneo standby, ha comunque consentito di rafforzare l’urgenza di un confronto settoriale in Italia. Il progetto si sviluppa insieme a Paola Rampoldi con la quale, dal 2015, conduco anche un modulo interamente dedicato all’accessibilità museale per il Master in Servizi Educativi per il Patrimonio dell’Università Cattolica. 
Parte di queste competenze, infine, emergono anche nella collaborazione con il gruppo di lavoro Museo per tutti che, nato dalla volontà dell’associazione l’abilità e Fondazione De Agostini, insiste nella formazione e nella progettazione di strumenti e percorsi per l’accessibilità cognitiva su tutto il territorio nazionale.

    Dall’accessibilità alle strategie per facilitare l’apprendimento: attualmente il mio lavoro oscilla principalmente fra queste variabili dove insegnare (facilitare) è sempre fare affidamento al metodo, soprattutto nel confronto con gli operatori del settore che a loro volta si rapporteranno direttamente con i pubblici. Dall’anno scorso, ad esempio, insieme ad una libreria indipendente che si chiama Spazio bk, lavoro a un progetto di formazione sui temi dell’interpretazione e delle didascalie: workshop pratici e sperimentazioni teoriche che pretendono di lavorare nello scarto di discipline diverse e opinioni anche contraddittorie. I musei italiani che stanno aderendo al progetto sono sempre più numerosi. Anche con l’associazione Il Lazzaretto di Milano ragioniamo attentamente su cosa sia il museo del presente, inteso quale spazio di ricerca e sperimentazione delle pratiche. Con ABCittà, tenendo saldi i metodi della partecipazione, siamo coinvolti fra gli altri nel progetto europeo Tandem, operando in partnership con una realtà portoghese e interrogando le finalità della leadership museale in relazione ai suoi possibili impatti sociali.

    Rintraccio gran parte della mia fortuna soprattutto nelle relazioni: sono stati i bravi maestri, certi colleghi modesti, altri orgogliosi delle proprie fatiche; i familiari che ci hanno creduto, il supporto reciproco degli amici con cui lavoro. Quelli che hanno saputo leggere dietro le incertezze ed insistere affinché anch’io, nelle timidezze da principiante, ad un certo punto alzassi la voce: un promemoria, anche questo, che mi torna spesso in mente quando capita di fare formazione a persone più giovani.

    Ci sono spazi di benessere professionale che possono certamente essere inventati, così come i mestieri. Si tratta di quello stesso potenziale che intravedo quotidianamente nei musei, anche a partire dalle molte opportunità che forse ho solo sfiorato, come quella volta che avevo superato le prime due selezioni per lavorare nei musei di Doha in Qatar come advocate degli interessi e dei valori di tutte le possibili comunità di riferimento. 
Quale che sia il luogo o la mansione specifica, del mio lavoro al museo (o fuori dal museo) avverto comunque l’urgenza sociale forte di un attivismo, per quanto modesto, sui temi dell’inclusione.

    Il vantaggio della libertà, della libera professione, continua a nutrirne la curiosità attraverso osservazioni che possono solo essere dialogiche, perché consapevoli delle restrizioni (e talvolta delle frustrazioni) di chi, invece, vive le istituzioni dall’interno.

    Continuo a credere, insomma, che anche a partire da questi luoghi sia possibile creare nuovi modelli di negoziazione umana, di scambio, di sapere delle pratiche. Spazi capaci di insegnarci a rimetterci in discussione, scardinando gli stereotipi e le facili visioni di quella complessità che, di mestiere, siamo chiamati a restituire.

    Note