Il dubbio è il nostro prodotto, è il miglior mezzo per competere con i “fatti” che esistono nella mente del grande pubblico. Ed è anche il mezzo per costruire una controversia.
La frase viene da un documento reso pubblico solo nel 1969, ma redatto negli anni Cinquanta, un promemoria segreto intitolato Smoking and Health Proposal, firmato Brown &Williamson, una delle più grandi corporation del tabacco. Il paper rivelava molte delle tattiche impiegate dall’industria del settore per contrastare «le forze anti-sigarette».
Questo documento è un perfetto esempio per gli studiosi di «agnotologia». La disciplina è stata fondata dallo storico della scienza Robert Proctor, che ribattezza così i suoi studi sull’ignoranza. Alla base c’è una tesi: «L’ignoranza non è solo ciò che ancora non sappiamo, è anche un piano politico, una deliberata creazione da parte di potenti agenti che vogliono che tu non sappia» (…)
Uno dei mezzi preferiti dai fabbricanti di ignoranza è il cosiddetto “dibattito bilanciato”, quello regolato dalla par condicio, per intenderci. L’idea per cui debbano esserci sempre due posizioni contrapposte. Questo metodo non porta sempre a una conclusione razionale ed è una delle principali fonti della costruzione di ignoranza, secondo Proctor.
Il terzo incontro di Rosetta è per lunedì 12 giugno alle 19.00
Rosetta sa di non sapere. Come si diffonde l’ignoranza?
con Nicola Bruno, Ugo Cornia, Valentina Pisanty, Antonio Sgobba e Giovanni Ziccardi. Presso Joy Bar all’interno della Biblioteca Vavassori Peroni (Via Carlo Valvassori Peroni, 56 a Milano, MM2 Lambrate).
C’era questo obiettivo dietro la strategia dell’industria del tabacco di usare la scienza per far sembrare innocui i suoi prodotti, ed è la stessa strategia usata oggi dai negazionisti del cambiamento climatico contro l’evidenza scientifica: «La routine della par condicio ha permesso agli uomini delle sigarette, o ai negazionisti del cambiamento climatico oggi, di affermare che ci sono sempre due facce della stessa storia, che gli esperti non sono d’accordo, creando così un’immagine falsa e dunque ignoranza», spiega l’agnotologo.
Per esempio molti studi sulle conseguenze cancerogene del tabacco erano stati condotti su topi, e l’industria del tabacco affermava che non era dimostrato che anche l’uomo era a rischio. Chi difendeva le sigarette si muoveva in un circolo apparentemente logico: nessuna evidenza era buona abbastanza, nessun esperimento si avvicinava alla reale esperienza umana.
Come si potevano ottenere prove che riguardavano gli umani? Volete forse condurre esperimenti sugli uomini? Che cosa siete, nazisti? Queste campagne vennero lanciate a partire dagli anni Cinquanta. La strategia ebbe successo: nel 1966 meno della metà degli americani credeva che il fumo potesse causare il cancro ai polmoni. L’obiettivo sarà perseguito anche nei decenni successivi.
Creare e mantenere una «controversia sul tabacco» – laddove non c’era niente di controverso: che il tabacco provochi il cancro è un fatto non un’opinione – è stato un elemento chiave della strategia comunicativa dell’industria. Le corporation non erano innocenti: l’obiettivo era generare ignoranza o a falsa conoscenza sull’impatto del tabacco sulla salute e per anni ci sono riuscite.
Secondo lo storico l’ignoranza si diffonde innanzitutto quando molte persone non capiscono un concetto o un fatto, e poi quando particolari gruppi di interesse – commerciale o politico – lavorano attivamente per creare confusione su un argomento.
Nel caso dell’ignoranza sul tabacco e sul cambiamento climatico, una società con una scarsa cultura scientifica sarà probabilmente più sensibile alle tattiche manipolatorie di chi vuole offuscare la verità: «Ma la lotta non è solo sull’esistenza del cambiamento climatico, è sull’idea che Dio abbia creato la terra perché noi la sfruttassimo, o sull’idea che il governo abbia o no il diritto di regolare l’industria. Non si tratta solo di fatti».
(…)
I fabbricanti di ignoranza non possono fare tutto da soli, hanno bisogno di collaboratori. Consapevoli e no. In questo ruolo capita spesso di trovare proprio quei professionisti che dovrebbero occuparsi addirittura di diffondere la conoscenza. I giornalisti entrano in gioco quando nel dibattito pubblico viene applicato il metodo del confronto equilibrato o della par condicio, una tecnica standard per la diffusione dell’ignoranza, come abbiamo già detto. «Quando una questione scientifica diventa una controversia pubblica (ogm, vaccini e autismo), il conflitto diventa una competizione tra ignoranza e conoscenza. Il modo in cui i giornalisti ricostruiscono il dibattito è determinante», scrivono S. Holly Stocking e Lisa W. Holstein, due ricercatrici della Indiana University.
Gli esempi sono quotidiani: maggio 2016, in un programma di informazione trasmesso in prima serata dalla televisione pubblica italiana, si affronta la questione dei vaccini e del presunto nesso con l’autismo in un dibattito in cui il parere di un medico esperto del tema viene equilibrato dal parere contrario di un attempato conduttore di programmi musicali e di un’attrice.
Il giornalista presenta prima l’opinione del medico a favore della tesi dell’inesistenza di un nesso tra vaccini e autismo, poi l’opinione contraria degli anziani artisti. Sullo stesso piano. Un metodo cui spettatori e lettori sono abituati, è lo standard quando i temi sono delicati e complessi.
La grande industria inquina? Ascoltiamo il parere dello scienziato autorevole e poi quello contrario del politico o dell’economista. Il riscaldamento globale esiste? Diamo lo stesso tempo e lo stesso spazio a un climatologo e a un tipo qualunque che dice che in fondo non fa poi così tanto caldo. Gli Ogm sono nocivi? Sentiamo cosa ne pensano un biologo («No») e uno scrittore («Sì»).
E noi? Chissà. Intanto nel dubbio sempre meglio non rischiare, no? È quello che viene definito «“he said, she said” journalism», una pratica in cui il cronista si limita a riportare le voci senza verificarne la credibilità e prendere posizione. Joan Didion nel 1996 aveva descritto questo stile giornalistico con l’abituale accuratezza:
«La genuflessione nei confronti dell’“equità” è un atto di devozione frequente nelle redazioni, in pratica è la scusa per una buona dose di cronaca col pilota automatico e di pensiero pigro, sotto un ideale benigno (…) ciò che “equità” ormai sempre più spesso significa è una scrupolosa passività, un accordo per raccontare la storia non come avviene, ma così com’è presentata, vale a dire, così com’è costruita».
L’ironia della storia è che sono proprio i valori dell’oggettività, della correttezza, dell’equilibrio – i valori al centro dell’epistemologia del giornalismo – che espongono i giornalisti al rischio di essere complici, più o meno volontari e consapevoli, della deliberata produzione culturale dell’ignoranza. L’obiettività, un criterio professionale nato per liberare i giornalisti dalle manipolazioni delle pubbliche relazioni all’inizio del ventesimo secolo, alla fine si dimostra uno degli strumenti più utili per i nuovi manipolatori delle notizie. La regola dell’equilibrio, che doveva servire a creare spazi per i giornali al di fuori delle opposte fazioni politica, favorendo la fiducia nelle evidenze scientidice, finisce col rendere vulnerabili i giornalisti impreparati quando le cosiddette evidenze scientifiche sono politicizzate.
La controindicazione più preoccupante è che, seguendo questo schema, i giornalisti finiscono a fare il gioco delle istituzioni interessate a produrre quel particolare tipo di ignoranza che porta facilmente all’errore. Si mettono liberamente in circolo falsità attraverso gli amplificatori dei mezzi di comunicazione di massa e di internet, con l’effetto paradossale che la maggiore esposizione all’informazione crea una disinformazione direttamente proporzionale.(…) In questo scenario ad aumentare, parallelamente alla quantità di sedicente informazione disponibile, non è tanto l’ignoranza quanto le falsità.
La differenza è spiegata bene da Thomas Patterson, docente di media e politica di Harvard: «Ci si chiede se i cittadini siano in grado di svolgere il ruolo assegnato loro in democrazia. C’è qualcosa di peggio di un pubblico non informato: un pubblico male informato. Una cosa è quando i cittadini non sanno qualcosa e ne sono consapevoli, l’altra è quando i cittadini non sanno e credono di sapere. È la differenza tra ignoranza e irrazionalità».
Stocking e Holstein individuano quattro fattori che portano i giornalisti a farsi «veicoli d’ignoranza»:
le «caratteristiche individuali» di ciascuno: educazione, esperienza, rispetto degli standard professionali; la «routine mediatica»: per esempio l’abitudine a servirsi della par condicio su storie controverse, il ricorso al sensazionalismo; gli «obblighi organizzativi», spesso dettati dall’azienda in cui lavora: le storie vanno adattate a un pubblico particolare, bisogna tener conto degli interessi dell’editore; infine «la cultura o l’ideologia» in cui il giornalista più o meno dichiaratamente si riconosce.
Da ciò segue che non tutti i giornalisti sono uguali, non tutti rispondono allo stesso modo ai tentativi di creazione dell’ignoranza. «Ci sono giornalisti che sembrano in grado di resistere, mentre altri – a causa del loro ruolo, dell’aderenza alla routine del lavoro quotidiano e di altri fattori come la loro comprensione della scienza – possono diventare facilmente alleati inconsapevoli dei costruttori di ignoranza». Per un professionista dell’informazione, diventare inconsapevole veicolo di ignoranza non è una bella fine. Per non parlare di quelli consapevoli.