Abitare l’infinito

Ancora oggi, noi ragioniamo in termini di abitabilità, che non sono esattamente i termini dei Greci, i quali semmai pensavano all’incontrario, ossia pensavano prima l’abitare e poi la città. Qui invece vengono prima la città e la casa perché senza città e senza casa non è possibile sentirsi a casa propria, non è possibile abitare in modo degno. Ancora oggi noi diamo per scontato che il problema stia in questi termini: abbiamo infatti tanti paradigmi dell’abitare e ciascuno di essi porta alla luce il problema della “abitabilità”, dell’abitabilità della città, intesa come la cosa che può restituire al cittadino il suo posto nel mondo e collocarlo dove egli possa sentirsi tale.

C’è una parola che dice molto bene che cosa sia e che cosa significhi “abitare” ed è οἰκείω “abito”; οἰκεῖν, “abitare”, è una parola da intendersi sia nel suo valore transitivo sia nel suo valore intransitivo, ma soprattutto transitivo: oἰκείω τήν οἰκία, “abito la casa”. Da questo punto di vista, l’abitare non indica altro che lo stare, il dimorare a casa propria, il sentirsi, dove uno di fatto vive, come a casa propria. Questo significa essenzialmente “abitare”, dove οἰκία precede la separazione tra οἰκία e πόλις perché il sentimento di soddisfazione che ciascuno ha nel momento in cui si riconosce nel luogo in cui abita la propria casa, mostra che la casa di cui si tratta è al tempo stesso οἰκία e πόλις, casa e città.

Proprio perché c’è questo nesso primario, originario, tra l’abitare e la casa, lo stare in casa ha acquisito quel senso di protezione, quel sentirsi al sicuro, quel sentirsi garantito nei beni materiali che uno possiede, ma anche nelle abitudini, nelle consuetudini, nell’ethos che lo caratterizza. Proprio perché c’è questo nesso tra οἰκέω e οἰκία è stato possibile, come forse non poteva non avvenire, che questo abitare diventasse, come hanno detto i latini, habitare, habitus, “assumere un abito” che è qualcosa di più di una consuetudine, è una virtù, è un modo di essere, di rapportarsi al mondo. Non a caso Tucidide, nella descrizione della peste di Atene, aveva potuto mostrare come lo scioglimento e la rottura dei legami familiari, che un evento come la peste comporta, implicano anche il collasso della città, il collasso dell’οἰκία: viene meno l’abitare, viene meno al tempo stesso la casa, e la casa è casa ed è anche πόλις. La fine dell’abitare comporta la fine della città e della casa. Naturalmente è vero anche il contrario: se lo scioglimento dei legami familiari, che costituiscono l’habitus dell’abitare, comporta la fine della città, la fine della città implica viceversa la fine della casa o meglio la distruzione della casa. Ebbene, la fine della casa comporta la fine dell’abitare; ancora una volta città e casa, πόλις e οἰκία, sono la stessa cosa: la distruzione della casa e della città comporta il collasso di tutti i legami sociali che sono costitutivi dell’abitare. La città diventa inabitabile se non è quello che la città deve essere; la casa è inabitabile se non è quella che deve essere.

 

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