“Dubstep” è un’etichetta impiegata per indicare un genere di musica elettronica popular sviluppatosi a Londra tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila e da tempo ormai ampiamente storicizzato nei discorsi di addetti ai lavori e nel fandom. Generalmente proposto e accolto come innovativo (espressioni come new sound, new music, changing sound ne hanno puntellato le vicende), è stata una delle grandi mode musicali a cavallo tra la fine degli anni Duemila e i primi anni Duemiladieci. Allo stesso tempo, se ne è costantemente sottolineato il profondo radicamento nella tradizione, ovvero il suo inserirsi tra le pieghe del cosiddetto hardcore continuum teorizzato da Simon Reynolds (1999, 2009, 2010, 2012), un fenomeno, nei nostri termini, di riformulazione genealogica di tratti musicali distintivi che, con epicentro a Londra, a partire dallo snodo tra anni Ottanta e anni Novanta, sostanzia e innerva buona parte della dance culture inglese. In questa prospettiva, il dubstep appare un oggetto di studio ideale per mostrare il mutamento interno dei generi, la dialettica tradizione/innovazione che li caratterizza e, quindi, la discorsivizzazione della novità. Ovvero, per mostrare come non si possa dare nuovo senza vecchio. E come, anzi, il vecchio, nella sua ripresentificazione, possa rappresentare una delle principali forme della novità, costituendosi come fonte di un recupero dell’innovazione.
Nonostante sia stato uno dei generi più importanti e — particolarmente nella sua declinazione massimalista tarda — pervasivi degli anni Duemiladieci (ovvero, nonostante abbia occupato una posizione decisamente centrale nei discorsi sulla musica), sul dubstep non sono stati scritti libri1 e gli articoli accademico–scientifici sull’argomento, quasi tutti ascrivibili all’ambito dei cultural studies, si possono contare sulle dita di una mano. Questa mancanza di letteratura dedicata e di sedimentazione dell’argomento all’interno del dibattito scientifico si spiega, probabilmente, oltre che con la relativa giovinezza dell’oggetto e la sua pressoché totale monopolizzazione da parte della stampa specializzata, con la genrefication di cui è stato l’epicentro, ovvero con la quantità di ramificazioni stilistiche e geografiche guadagnata in pochi anni dal dubstep e, conseguentemente, con la sua natura testuale, oltre che sonora, ambigua e cangiante. Il discorso sul dubstep si presenta come una vera giungla di sottospecificazioni, più o meno gergali, più o meno grammaticalizzate e sovrapponibili in cui è difficile orientasi e che parrebbe impossibile mettere a sistema. Su quale dei tanti dubstep possibili concentrarsi? Ed è ancora lecito chiamarli tutti dubstep? L’assenza di letteratura dedicata è spiegabile anche alla luce della stretta relazione del genere con le proprie fonti, ovvero i generi da cui si è sviluppato, e con le sue propaggini, ovvero le forme che da esso sono derivate. Per parlare di dubstep, cioè, non si può parlare solo di dubstep, ma anche di drum’n’bass e UK garage (oltre che di dub e 2–step), di post–dubstep e post–garage; termini usati ora come iperonimi, ora come iponimi, ora come sinonimi del genere.