Accelerazionismo a tutta mancina: uscire dalla crisi afferrando il futuro

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“Il massimo a cui possiamo ambire è conservare quel che abbiamo già, per quanto poco esso sia”. Sono le arrendevoli parole che Nick Srnicek e Alex Williams – autori di Inventare il Futuro, Nero edizioni – mettono in bocca a una sinistra europea e occidentale che si sarebbe ormai arroccata in difesa dei diritti acquisiti con il solo scopo di rallentarne lo smantellamento; mentre, nelle aree meno istituzionali della politica, il progressismo si limita a quella che i due teorici dell’accelerazionismo chiamano folk politics: azioni localistiche e a breve termine che possono, al massimo, provocare la nascita di qualche isola felice, senza mettere in discussione l’egemonia neoliberale.

È davanti agli occhi di tutti: la “terza via” disegnata dal sociologo Anthony Giddens per “rifondare la social-democrazia” – abbracciata da Bill Clinton e Tony Blair e che ha in Matteo Renzi ed Emmanuel Macron alcuni dei suoi ultimi sostenitori – è “morta, travolta da tecnologia e globalizzazione” (come ha detto lo stesso Giddens) e anche, si può aggiungere, dalla complicità nella crescita inarrestabile delle diseguaglianze, che dovrebbero essere il nemico giurato di una sinistra degna di questo nome.

Impossibile negare i successi elettorali che questo modello di sinistra liberale ha conquistato, in termini elettorali, negli ultimi vent’anni; allo stesso modo, è evidente come oggi – davanti all’avanzata dei populismi e dell’estrema destra e al fallimento clamoroso dei partiti socialdemocratici – una sinistra liberale non solo non sia più in grado di mietere consensi, ma, a furia di larghe intese sperimentate un po’ ovunque, diventi quasi irriconoscibile dai suoi corrispettivi di centrodestra (prefigurando tra l’altro una possibile nuova dicotomia della politica internazionale).

Le forze della “sinistra-sinistra”, invece, sono ormai forze conservatrici: incapaci di progettare il futuro e di proporre un nuovo orizzonte, si limitano a giocare di rimessa in difesa dei diritti acquisiti. In questo modo, la sinistra finisce per accettare l’egemonia neoliberale limitandosi ad arginarne (senza troppo successo) l’avanzata. Se questo è lo scenario, non stupisce che ovunque nel mondo Occidentale le forze di sinistra tradizionali (che definirle radicali pensando a LeU sarebbe davvero troppo) siano diventate di nicchia; sostenute da frange della classe media (quel che ne rimane), dalla piccola borghesia intellettuale e da qualche elettore ancora fortemente ideologico.

Da questo punto di vista, la battuta post-elettorale secondo cui “non è che gli elettori di sinistra non ci votano più, è che sono morti” rende perfettamente il quadro della situazione. E rende anche il pessimismo e l’arrendevolezza della sinistra contemporanea: “Per i partiti di centrosinistra il massimo a cui si può aspirare è la nostalgia per i bei tempi andati, e il massimo della radicalità è il vecchio sogno socialdemocratico”, scrivono ancora Srnicek e Williams. Mentre “la maggior parte della folk politics contemporanea esprime un profondo pessimismo: dà per scontato che il cambiamento sociale e collettivo su larga scala sia impossibile”.

Il futuro, da sempre habitat naturale della sinistra, è diventato così il territorio della destra:  “[Le forze di destra] sono sempre state caratterizzate dalla difesa della tradizione e dalla loro natura essenzialmente reazionaria. Questa situazione si è capovolta con l’ascesa del neoliberismo e di figure politiche – come per esempio Margaret Thatcher – molto brave nell’utilizzare efficacemente proprio la retorica della modernizzazione e di conseguenza del futuro. (…) Il disagio che la sinistra radicale prova nei confronti della modernità tecnologica, assieme all’incapacità socialdemocratica di immaginare un mondo alternativo, ha fatto sì che il tema del futuro sia stato oggi completamente ceduto alla destra”.

Una “cessione” che non riguarda solo la destra liberale; ma anche l’estrema destra, ormai più abile della sinistra a progettare le lotte del futuro. Un futuro quasi distopico, che prevede il ritorno ai confini nazionali, alla sovranità monetaria (in Europa), la lotta all’immigrazione e anche una spruzzata cosmetica di anticapitalismo (la lotta ai poteri forti della finanza e simili). Mentre la sinistra vive di nostalgia o è al traino del turbocapitalismo, l’estrema destra guarda in avanti e le forze neoliberali continuano a godere i frutti del loro decennale lavoro.

Un lavoro iniziato con l’avvento della Mont Pelerin Society, sotto le cui insegne, a partire dal 1947, si riunirono gli economisti austriaci guidati da Friedrich von Hayek, i liberali britannici, gli esponenti della scuola di Chicago, gli ordoliberisti tedeschi e qualche esponente francese e anche italiano (tra cui spiccano Bruno Leoni e Luigi Einaudi). Così, progettando una strategia che fin dall’inizio era caratterizzata da obiettivi a lungo termine – e a furia di think tank, ingressi nel mondo accademico, nei media, nei governi e conquistando anche parecchi premi Nobel (tra cui Hayek e Milton Friedman) – il progetto neoliberale riuscì in una missione che dopo la Seconda Guerra Mondiale sembrava impossibile: diventare egemonico nel mondo occidentale.

È una lezione importante per la sinistra ridotta in macerie di oggi. Anzi, è proprio perché la sinistra è in queste condizioni che si apre la straordinaria occasione di ripensarla, di progettare una nuova visione, a lungo termine e strategica. “Se davvero la sinistra ha intenzione di sfruttare la prossima opportunità che si presenterà, bisogna insomma che si faccia trovare pronta”, si legge ancora in Inventare il Futuro.

La sinistra tradizionale è una forza morente e quella liberale è ancora legata a una “terza via” che si sta mostrando in tutto il suo fallimento; mentre le alternative del primitivismo o dei movimenti folk politics puntano a chiudersi in riserve indiane o si illudono di invertire il corso di marcia della storia. Quello che serve invece – secondo Srnicek e Williams – è una sinistra capace di inventare il futuro, non contrapponendosi agli elementi che caratterizzano la società di oggi, ma abbracciandoli e sfruttandoli al fine di raggiungere gli obiettivi che si sono preposti. E che vanno in direzione, per farla breve, di una società automatizzata che, proprio perché automatizzata, diventi più equa e superi l’etica del lavoro.

Da un certo punto di vista, gli elementi base sono già tutti presenti: intelligenza artificiale e automazione del lavoro; blockchain, decentralizzazione e cooperativismo di piattaforma e altro ancora. Quello che manca è la capacità di unire i puntini e ricondurre tutti questi elementi all’interno di una teoria unica, creando una nuova utopia che faccia trovare la sinistra pronta quando (e se) si presenterà la sua nuova opportunità (il che potrebbe essere meno inevitabile di quanto, in generale, gli accelerazionisti di sinistra tendano a pensare; come dimostra la capacità del capitalismo di fare suo ogni elemento che, ciclicamente, promette di rivoluzionare tutto: dal web alla sharing economy, fino alla blockchain).

Partiamo dalle basi: cosa non va nel lavoro di oggi? “In tutta Europa l’intensità del lavoro, in termini di ritmo come di richiesta, è aumentata. La transizione verso le catene di distribuzione just-in-time ha esacerbato la domanda di occupazione, mentre tecnologie per la sorveglianza sempre nuove vengono impiegate per il controllo degli impiegati e in alcuni casi persino per monitorarne le abitudini al di fuori degli orari di lavoro. Il declino della qualità dei posti di lavoro disponibili si rileva anche nel taglio delle ore lavorative piuttosto che in una completa eliminazione delle professioni, e questo è particolarmente evidente se si osserva la crescita del numero di occupazioni part-time, flessibili o freelance negli ultimi trent’anni. (…) Negli Stati Uniti, il 34% di tutti i lavoratori fatica ad arrivare a fine mese, mentre nel Regno Unito il 35% delle persone non potrebbe sopravvivere più di un mese attingendo solamente ai propri risparmi. Nelle sue forme più feroci la precarietà produce anche un aumento di patologie quali depressione, ansia e tendenze suicide”.

Un tema, quest’ultimo, cruciale per capire le ragioni per cui il capitalismo è stato definito, da ultimo da Mark Fisher, “intrinsecamente bipolare” e stia facendo letteralmente a brandelli il tessuto sociale (non ci soffermiamo qui sull’aumento incontenibile, negli ultimi decenni, di depressione, ansia e disturbi bipolari, sul quale ci sono numerosi studi).

Non è tutto: per quanto non manchino i profeti della capacità delle nuove tecnologie di portare a un aumento dei posti di lavoro (così com’è avvenuto con tutte le precedenti rivoluzioni tecnologiche), ciò a cui stiamo assistendo oggi è qualcosa di radicalmente diverso. Martin Ford, autore de Il Futuro senza lavoro (Il Saggiatore), ha mostrato come i nuovi mestieri occupino un numero molto inferiore di lavoratori rispetto alle vecchie professioni, buona parte delle quali sta però svanendo.

Se non bastasse, un’azienda come FCA (110 miliardi di euro di fatturato) si sta gradualmente automatizzando e ridurrà inevitabilmente i suoi 230mila dipendenti. Un colosso del tech come Alphabet (con 110 miliardi di dollari di fatturato) ha invece solo 70mila dipendenti. Facebook, che fattura 40 miliardi, ne ha 25mila. Insomma, le aziende tradizionali riducono la loro forza lavoro; le aziende innovative ne occupano meno di un terzo a parità (o quasi) di fatturato. Il risultato non può che essere un’ulteriore crescita delle già esasperate diseguaglianze.

La risposta quasi istintiva della sinistra tradizionale sembra essere quella di rallentare l’automazione – che è poi l’unica ragione per cui ancora oggi esistono i casellanti – e non è difficile immaginare un futuro in cui un sindacato neoluddista prenda a bastonate i robot camerieri del bar sotto casa. Ma questo significherebbe solo rallentare l’inevitabile: attuando nel campo del lavoro la strategia che la destra ha storicamente attuato nel campo dei diritti civili.

È qui che la tesi accelerazionista conquista punti: nella capacità di ricondurre gli inevitabili progressi tecnologici non a un futuro distopico, ma un futuro utopico reso possibile proprio dalle nuove tecnologie, con l’obiettivo finale di creare una società post-lavoro. Sotto questo aspetto, si possono avere idee diverse sul “lavoro come fondamento dell’identità dell’uomo” o sullo spauracchio di un esercito di sdraiati che non fa nulla dalla mattina alla sera a causa del reddito di base universale; quello che però non si dovrebbe negare è quanto le nuove modalità di lavoro – naturale conseguenza di un capitalismo che, costretto alla crescita, diventa sempre più aggressivo ed escogita sempre nuovi modi per rendere l’uomo più efficiente, anche a scapito dell’uomo stesso (come dimostra appunto l’epidemia di disturbi mentali) – siano nocive per la società. E quindi da superare.

L’accelerazionismo di sinistra, quanto meno, una proposta ce l’ha ed è la società post-lavoro. Un orizzonte utopico che ha il merito di proporre un’alternativa nell’attuale deserto delle idee. Ma come si arriva alla società post-lavoro? La prima risposta è: gradualmente. Non attraverso una rivoluzione ma attraverso quelle che Srnicek e Williams chiamano “riforme non riformiste” (per il loro carattere disruptive). “Il punto è che il lavoro umano non sarà eliminato immediatamente o nella sua interezza, ma verrà piuttosto ridotto gradualmente: la piena automazione è una rivendicazione utopica che mira a ridurre il più possibile la quantità di lavoro umano necessario”.

Di conseguenza – per gli autori di Inventare il Futuro – la prima richiesta dev’essere quella della riduzione dell’orario di lavoro; che costringerà le aziende ad aumentare l’automazione anche qualora non gli convenga per gli ingenti investimenti necessari. Non solo: “Una settimana lavorativa più breve porterebbe a una diminuzione di stress, ansia e altri problemi mentali alimentati dalle politiche neoliberali. Ma una delle ragioni più importanti a sostegno della riduzione della settimana di lavoro è che questa è una rivendicazione capace di generare e consolidare il potere di classe (…). Sottraendo ore di lavoro dal mercato, il totale di forza lavoro diminuisce e il potere dei lavoratori aumenta”, sostengono i due autori.

In sintesi estrema: riducendo l’orario di lavoro si aumenta inevitabilmente l’automazione, che causa a sua volta una riduzione del numero di lavoratori. Calando il numero di lavoratori si incentiva ulteriormente l’automazione. Questo circolo virtuoso ha, nei piani accelerazionisti, uno sbocco inevitabile: il reddito di base universale. Che non deve sostituire il welfare (il che lo trasformerebbe da misura di sinistra a sogno proibito anarco-capitalista) ma aggiungersi a esso. Il problema dei costi, rapidamente liquidato in questo libro, è stato però ampiamente affrontato in un altro volume: Utopia per realisti di Rutger Bregman (lo abbiamo intervistato qui).

Tutto questo (se anche dovesse trasformarsi in realtà) non avverrà in tempi brevi e dovrà superare enormi ostacoli: dalla inevitabile resistenza del sistema alle prevedibili difficoltà nel superare il concetto di etica del lavoro, così inculcato nella nostra società (e nella sinistra). La strategia accelerazionista è radicale, utopistica, esagerata. Eppure guarda ai fattori più importanti della società di oggi e, invece di negarli ottusamente (come fa la sinistra tradizionale), li abbraccia per disegnare un futuro più o meno prossimo. Se ne può discutere, ma almeno abbiamo una nuova teoria da valutare. E per la sinistra devastata di oggi non è poco.


Immagine di copertina: ph. Justin Peralta da Unsplash