Quali saranno le conseguenze di lungo termine del conflitto tra Russia e Ucraina? Come si ridefiniranno gli equilibri politici interni alla Comunità Europea, nel quadro di mutati equilibri geopolitici globali? L’esplosione del conflitto ha rapidamente polarizzato il dibattito in tutti i paesi europei, consolidando opposte visioni degli eventi in corso. cheFare e il Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere dell’Università di Bergamo hanno deciso di sviluppare, nel quadro di un progetto di Terza Missione, un percorso editoriale che intende interrogare il nostro tempo, analizzando le sfide sociali e culturali che la guerra pone al continente europeo e al suo futuro. Autrici e autori con diversa formazione ed estrazione culturale ragioneranno di istituzioni comunitarie, di equilibri migratori, di geopolitica, di politiche energetiche, di crisi ambientale, di economia, di culture europee.
Queste note partono dall’esigenza personale di dare una risposta alla domanda che tutti giorni in questi tre mesi di guerra mi sono posto: c’è qualcosa che posso fare, al di là di rodermi il fegato in continuazione, parlarne spesso con gli amici, andare qualche volta in piazza con la bandiera della pace e organizzare una discussione pubblica?
Le note, che sono in forma di domande e risposte, le ho scritte prima di tutto per me, per provare a mettere ordine alla confusione che avevo in testa. Se ora le condivido con altri e perché, forse, possono servire a chi si trovasse nella mia stessa condizione. E, certamente, perché spero che stimolino una discussione e che qualcuno mi aiuti ad andare avanti.
1. Si può pensare un mondo senza guerra? Farlo significa proporsi di eliminare l’aggressività e i conflitti tra persone e tra gruppi sociali?
Partiamo dalla seconda domanda. La risposata è no: l’aggressività individuale è una componete della natura umana. E quindi è ineliminabile (può però essere educata, ma questo è un altro discorso). Lo stesso vale per i conflitti: ci sono stati e ci saranno sempre e vanno considerati il motore della necessaria dinamica sociale (anche questi possono essere “educati”, dandosi delle regole che evitino ai contendenti di farsi troppo male: regole del gioco che trasformino l’antagonismo in agonismo. Cioè, le regole della democrazia).
Passando invece alla prima domanda, la risposta è sì: possiamo pensare a un mondo senza guerre. Certo, la storia ci insegna che gli esseri umani troppo spesso si sono fatti la guerra. Ma, a ben guardare, si vede che essa è una costruzione umana. E come tutte le costruzioni umane, si può decidere di non farla. Ovviamente non è facile. Ma se c’è un progresso umano che vale la pena di perseguire, questo potrebbe e dovrebbe avere come principale obiettivo un mondo senza guerre (oltre che ad un mondo più equo e in pace anche con la natura).
2. Cosa significa dire che la guerra è una costruzione umana?
La guerra emerge da un intreccio di idee, interessi e pratiche sociali che, nel loro insieme, costituiscono un contesto, il contesto di guerra, che porta molte persone ad approvare la violenza collettiva contro qualcuno e costringe tutti, anche quelli che non l’approvano, a parteciparvi in nome del dovere patriottico.
Ciò che questo contesto produce è, prima di tutto, il senso di distanza tra le persone che devono diventare nemici: per essere pronto a far violenza su qualcuno, o ad approvare che venga fatta violenza su qualcuno, devo aver maturato l’idea che questa persona sia totalmente altro da me. Che sia così distante da poterlo considerare non-umano. E quindi di inibire qualsiasi sentimento di empatia e vicinanza.
3. La guerra è dunque il risultato del progetto?
Sì e no. La guerra emerge dall’interazione di una molteplicità di azioni umane e di eventi imprevisti. Ciò significa che, se pure non è la diretta espressione dell’ineliminabile aggressività umana, non va neppure vista come una macchinazione. Cioè come qualcosa di totalmente progettato. Una volta innescata, essa avviene, senza un unico centro di comando che tutto decide e tutto indirizza. Per essere precisi si dovrebbe dire che più che essere progettata e prodotta essa è co-generata: qualcuno pensa e fa qualcosa che, combinandosi con ciò che fanno altri e con eventi imprevisti, produce la guerra.
Tener conto di questo suo carattere è importante perché esso influenza anche cosa significa “finire la guerra”. Per farlo non basta eliminare il centro di comando nemico. Occorre smantellare il complesso sistema che ha reso possibile la guerra. Per questo, come la storia ci insegna, vincere la guerra con le armi non porta a fare la pace. E questo perché, così facendo, non si è eliminato il conteso di guerra e quindi non si sono create le condizioni per una pace vera e duratura.
4. In pratica, come si genera un contesto di guerra?
Il contesto di guerra è un impasto di interessi economici e nazionalismo che crea una distanza, mostrata come incolmabile, tra un ‘noi’ e un ‘loro’. Cioè un noi nazionale e un loro diverso e nemico. Tutto questo non si produce magicamente con una sola mossa, ma è il risultato una serie di azioni ciascuna delle quali, a modo suo, contribuisce a rendere la guerra possibile. Per chi è contro la guerra, occorre dunque esercitare una grande vigilanza per riconoscere le azioni e le affermazioni che rinforzano il contesto di guerra.
Oggi nel mondo assistiamo al dispiegarsi di un arsenale di iniziative e interventi che, di fatto, contribuiscono a costruire un contesto di guerra: dall’aumento delle spese per gli armamenti, allo schierarsi dalle nazioni tradizionalmente neutrali; dalla pretesa che vi siano guerre giuste, all’affermazione che i paesi europei sono viziati da troppi decenni di pace (invece di dire, come dovrebbe essere, che sono i paesi che, fino ad ora, avevano saputo trarre dei saggi insegnamenti dalla tragedia della seconda guerra mondiale).
5. Passiamo ora a parlare di pace: cosa significa costruire la pace?
Per parlare di pace vanno fatte delle considerazioni analoghe, ma di segno opposto, a quelle fatte per la guerra. La pace non è il semplice e diretto esplicitarsi della natura umana, vista ora nella sua potenzialità in termini di empatia e relazionalità. E’ invece il risultato della capacità di costruire un sistema di idee e di pratiche, il contesto di pace, per cui questa potenzialità umana viene aiutata ad esistere, a crescere e a farsi sistema.
Come il contesto di guerra, anche quello di pace non piò essere progettato come se fosse una macchina. Ma deve emergere da una molteplicità di azioni e dalla loro capacità di confrontarsi con l’imprevedibile. In altre parole, costruire la pace è come coltivare un grande giardino: occorre preparare il terreno, seminare al momento giusto, averne cura nel tempo. E, poiché non si può fare tutto questo da soli, imparare a farlo collaborando con altri.
La pace come frutto di un giardino ben coltivato è un’idea suggestiva. Ma si scontra con una realtà quanto mai difficile: l’esistenza di enormi e palesi diseguaglianze che può diventare il terreno di coltura per ogni tipo di conflitto. Ed è chiaro che una delle condizioni per generare un contesto di pace è la riduzione di questi conflitti e quindi delle diseguaglianze che li generano.
6. L’idea di un mondo senza guerre è un’utopia o è una prospettiva praticabile?
Prima di rispondere devo ricordare due questioni.
La prima è che, come già anticipato, la prospettiva di un mondo senza guerre non implica l’eliminazione dei conflitti, ma si riferisce invece alla possibilità che questi conflitti non si trasformino in guerre.
La seconda è che non stiamo parlando di un modello ma, appunto, di una prospettiva praticabile. Il che significa una direzione potenzialmente raggiungibile che può essere avvicinata mettendo in atto una serie di passi concreti.
Detto ciò, malgrado il mondo oggi stia andando nel verso opposto, credo che quella di un mondo senza guerre possa essere vista come una prospettiva praticabile. E questo per diverse ragioni.
La prima e, probabilmente la più influente, riguarda il riconoscimento di essere tutti terrestri. Infatti, le ricorrenti e crescenti catastrofi ambientali danno a tutti il senso di essere parte della stessa rete della vita. E se capiamo questo, non possiamo farci la guerra. Ma dobbiamo creare delle infrastrutture che ci permettano di affrontare i problemi con il dialogo e la collaborazione. Cioè in un contesto di pace.
La seconda ragione, che è fortemente collegata alla prima, è data dall’inevitabile depotenziamento del nazionalismo (cioè di ciò che, nella storia, è stato il maggior motore di ogni tipo di guerra). Anche se di questi tempi sta ritornando sulla scena con particolare virulenza, sul lungo periodo non potrà che scontrarsi con la sua intrinseca inadeguatezza di fronte ai problemi planetari che con cui siamo e saremo sempre di più chiamati a confrontarci.
La terza ragione che rende la prospettiva di un mondo senza guerre una prospettiva praticabile è un’evoluzione della deterrenza nucleare del secolo scorso. La diffusione di armi letali (nucleari e non) rede e renderà quanto mai difficile per chiunque pensare di poter ottenere con la guerra quello che un tempo era definita una vittoria.
L’insieme di tutto questo porta a dire che le culture e le pratiche della pace e della non violenza dovrebbero essere in condizione di diffondersi è passare dall’atto di testimonianza di pochi, ad un terreno di azione per molti, verso la produzione di un nuovo senso comune. Dovrebbe cioè succedere, riguardo la pace, qualcosa di simile a quello che è successo e sta succedendo con la sostenibilità: così come un grande attivismo su tutti i piani ha portato a far diventare impensabile ogni idea di futuro che non sia sostenibile, si devono mettere in atto su tutti i piani una serie di azioni che portino a rendere impensabile un mondo in cui i conflitti si risolvono con le guerre.
7. Cosa praticamente si deve e si dovrà fare per concretizzare questa possibilità?
Per costruire la pace, a partire dal contesto di guerra in cui ci troviamo, occorre cambiare molto nei nostri mood di pensare e di fare. Il risultato dovrà essere una nuova generazione di istituzioni e di infrastrutture sociali e culturali che, come si è detto, rendano la pace possibile e probabile. Il che, a sua volta, richiede la partecipazione attiva e collaborativa di tutti (politici, esperti e cittadini) con la messa in atto una molteplicità di azioni a tutti i livelli.
Ne elenco alcune in ordine sparso: la (ri)generazione di alcune idee di fondo e, in particolare, il significato e l’attualità della nonviolenza e del disarmo. La creazione di infrastrutture per la pace e, in questo quadro, il ruolo e le possibilità dell’ONU, dell’Europa e di quello che potrebbe essere un vero Corpo Civile per la Pace. La generazione di occasioni di dialogo in situazioni di drammatico contrasto, prendendo spunto dalle Commissioni per la verità e la riconciliazione in Sud Africa. La realizzazione di politiche di avvicinamento tra storie e culture diverse.
Tutte queste sono azioni collettive che, per essere messe in atto, richiedono delle politiche da parte dei governi. A monte di esse ci sono delle scelte che possiamo fare come individui. Le più evidenti sono, ovviamente, il dare il nostro voto a partiti e candidati che si impegnano nelle politiche di pace. E la possibilità/necessità di scendere in piazza perché lo facciano davvero. Ma si possono e devono immaginare e sviluppare anche azioni che incidano direttamente sul contesto in cui ci troviamo. Azioni che ci riportano al tema dell’innovazione sociale: un’innovazione sociale per la costruzione di contesti di pace.
8. Su che terreni potrebbe avvenire, o sta già avvenendo, questo tipo di innovazione sociale?
Forme di innovazione sociale per la costruzione della pace possono essere ritrovate su diversi terreni. Per esempio: il boicottaggio di imprese e banche che producono o finanziano la produzione di armi e per quelle che, con le loro politiche economiche, creano occasioni di guerra. L’accoglienza e l’inclusione dei profughi. La creazione di gemellaggi e programmi di interscambio culturale e scientifico tra città. Le attività didattiche che, nelle scuole e fuori di esse, portano i partecipanti ad avvicinarsi alle culture e alle pratiche della pace.
Di tutto questo, fino ad esso, abbiamo visto dei primi segnali. Ma sono sicuro che si può fare di più. E che, probabilmente, sono già in atto altre forme di innovazione sociale che non abbiamo ancora avuto la capacità di riconoscere.
L’insieme di tutto questo, a mio parere, è quanto di più concreto possiamo oggi trovare per favorire il passaggio da un’idea di pacifismo inteso come testimonianza (essere a favore della pace) al vederlo come un terreno di azione a tutti i livelli. Tra cui, appunto, quello delle politiche del quotidiano: azioni per la pace che tutti, collaborando con altri, possono mettere in atto nella propria quotidianità.
9. Non c’è un po’ troppo ottimismo in questa proposta?
Non credo. Infatti, non sto dicendo che tutto questo accadrà e sarà vincente. Dico solo che dobbiamo interiorizzare che il ripudio della guerra e la parallela costruzione della pace non è un’utopia. Che è una strada difficile ma non impossibile. Che occorre riprendere e attualizzare gli insegnamenti dei grandi costruttori di pace del recente passato, da Gandhi, a Mandela, a Martin Luther King. Che richiede un grande impegno e capacità progettuali diffuse: in un momento come questo, quando potenti forze in campo spingono verso la costruzione di contesti di guerra sempre che vengono pressantemente proposti come ineludibili, coltivare il giardino della pace richiede una forte capacità innovativa. Nel senso più ampio del termine.
Più di 50 anni fa John Lennon e Yoko Ono cantavano give peace a chance. E avevano ragione. Più di quanto solitamente si pensi: “give peace a chance” non è solo l’espressione di una generica aspirazione alla pace, è anche un’indicazione precisa su cosa si debba fare e come. La pace c’è se le si dà modo di esistere. E questo è qualcosa che dovremmo fare tutti, tutti i giorni.