Le amministrazioni devono aiutare la cultura a trasformare il patrimonio pubblico in bene comune
Per anni il patrimonio pubblico è stato considerato come una semplice riserva di valore. Amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado hanno ritenuto i beni immobili non strategici come una risorsa per compensare disponibilità finanziarie sempre più limitate. I beni immobili sono stati un’occasione per rendere liquida una ricchezza altrimenti destinata a restare sterile e improduttiva.
Il dibattito sulla valorizzazione del patrimonio è stato costantemente teso a individuare i percorsi amministrativi e gestionali per trasformare valore immobiliare in ricchezza finanziaria in modo sempre più efficiente, in particolare rendendo più agevoli le varianti urbanistiche e la classificazione patrimoniale dei beni.
Il passaggio a nuova economia, dopo il 2008, segna una discontinuità importante. L’alienazione dei beni immobili semplicemente non trova più interlocutori: a un tratto, la domanda di famiglie e operatori specializzati svanisce, mettendo in discussione politiche fino ad allora di sicuro successo.
A fronte di amministrazioni che spesso hanno faticato, e faticano tuttora, a identificare le rinnovate coordinate del mercato, gruppi e associazioni si sono organizzati e hanno cercato nuovi spazi per dare vita alle più diverse attività.
Non senza difficoltà di ordine culturale e amministrativo, le amministrazioni hanno acconsentito a progetti contraddistinti da un nuovo modo di fare partecipazione. Gruppi e associazioni non hanno puntato alla rivendicazione di una particolare agenda politica o di specifici servizi, quanto invece hanno reclamato a gran voce spazi per iniziative altrimenti economicamente fragili.
La cultura abita i luoghi altrimenti abbandonati del patrimonio pubblico
Il ruolo della cultura, vero legante tra le attività messe in gioco, merita di essere considerato con attenzione. La cultura abita i luoghi altrimenti abbandonati del patrimonio pubblico nella forma delle arti performative, della danza e del teatro e delle mostre di arte contemporanea. A Casa Bossi a Novara come nella CasermArcheologica di Sansepolcro, ad esempio, è la cultura in tutte le sue forme a occupare luoghi di un patrimonio pubblico ignorato da costruttori e investitori.
Sarebbe tuttavia un errore limitarsi a considerare la cultura nelle sue manifestazioni più note e codificate. In realtà, la cultura entra come elemento del valore nel welfare innovativo, nella produzione artigianale come pure in una rinnovata produzione agricola.
L’esperienza di ExFadda, a San Vito dei Normanni in Puglia, è emblematica al riguardo. Giovani designer reinterpretano la tradizione delle coperte fatte con gli scarti delle lane, étoile ritornate in provincia organizzano corsi di danza aperti a giovani e anziani: la cultura innerva e innova intraprese apparentemente consolidate e concorre a accrescerne il valore economico e sociale.
Proprio il tema del valore appare centrale per lo sviluppo delle iniziative di rigenerazione del patrimonio e delle città. È chiara la necessità di mettere a punto nuovi riferimenti culturali e tecnici che evidenzino le molteplici dimensioni del valore che queste intraprese generano. E questo soprattutto per orientare e sostenere le amministrazioni nella promozione di bandi che consentano un corretto confronto tra le iniziative proposte e gli obiettivi della comunità.
Le esperienze peraltro non mancano. I bandi delle alienazioni patrimoniali della Mairie de Paris nell’ambito del programma Ré-inventer Paris – ripresi recentemente con coraggio dal Comune di Milano per la cessione di alcuni immobili, tengono insieme le esigenze di carattere economico con un’inedita attenzione all’innovazione sociale.
Il contesto conta e suggerisce diverse interpretazioni rispetto a simili iniziative. Lo sviluppo di comunità capaci di auto-organizzazione assume connotazioni diverse in ragione delle peculiarità dei luoghi. Se nei grandi contesti metropolitani del nostro Paese la rigenerazione su base culturale fa emergere un capitale umano altrimenti sacrificato – spesso dei più giovani, come lucidamente Campagnoli sottolinea da anni -, diverso è il caso per le tante esperienze maturate nell’Italia delle aree interne e meno accessibili del Paese. Dalla Puglia al Veneto, le intraprese che si impongono al fuori delle grandi metropoli appaiono veri e propri atti di resistenza contro forze all’apparenza soverchianti: lo spopolamento e l’impoverimento economico, la crescente deriva che allontana centro e periferie del Paese.
Resistere significa promuovere imprese ibride capaci di creare valore per chi le anima e per la comunità
Resistere significa promuovere imprese ibride – per riprendere una felice espressione di Venturi e Zandonai – capaci simultaneamente di creare valore per chi le anima e per la comunità che costituisce parte integrante del progetto.
Il patrimonio pubblico si trasforma in questo modo in bene comune, dove con questa espressione non ci si riferisce tanto a una specifica fattispecie di carattere giuridico, quanto invece alla possibilità di una classe di beni di proprietà del settore pubblico di sostenere processi e iniziative altrimenti destinati a restare senza sbocco.
Con le nuove forme di valorizzazione del patrimonio pubblico il settore pubblico sperimenta un diverso orientamento delle proprie politiche. Le amministrazioni smettono di prevedere con precisione forma e funzioni dei luoghi e accettano invece di abilitare processi di cui non è possibile conoscere anticipatamente l’evoluzione e gli esiti finali.
Le politiche patrimoniali per lo sviluppo locale e l’innovazione sociale rappresentano in questo senso un banco di prova importante per più ampie politiche di sviluppo delle città, non più tese a definire un improbabile stato finale dei luoghi, quanto invece aperte alle capacità generative delle comunità intese come risorse da accogliere e valorizzare.
L’immagine di copertina proviene dalla Pagina Facebook di ExFadda