Quando sbagliare è l’unica cosa giusta da fare

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    Scrivere degli altri è sempre più facile, ma ci sono dei momenti nei quali hai il bisogno e la voglia di fermarti e riflettere su quello che stai facendo. Se poi decidi di scriverne è perché ritieni che sia una situazione comune a sempre più persone e che alle volte condividere le sfide e gli errori sia la via migliore per crescere, perché a condividere i successi siamo bravi tutti. Non sappiamo se è vero, ma intanto ci proviamo.

    Doveva chiamarsi Etciù ma ci sembrò un nome senza senso, quindi la chiamammo Sumo. Era un nome altrettanto senza senso ma allora ci pareva molto più attraente. Siamo a Venezia, attorno all’anno 2000.

    Quella di Sumo è la nostra storia; è una storia di persone, d’impresa, di lavoro, di organizzazione, di innovazione ed è anche una storia d’amore. Sumo nasce nel 1999 come gruppo informale di giovani incazzati con la propria città perché troppo distratta, nel 2000 diventa associazione per poter dialogare con l’amministrazione comunale e l’università, nel 2001 apre un centro culturale giovanile autogestito nel cuore di Venezia – il Boldù – dentro un Centro di Salute Mentale dove lavoravano alcuni degli eredi dell’esperienza basagliana, nel 2002 è già il principale player delle politiche giovanili veneziane e inizia a muovere i primi passi nel mondo dei servizi di welfare più tradizionali, nel 2003 diventa cooperativa e subito dopo nel 2004 cooperativa sociale. Da quel momento in poi diventa uno dei principali attori culturali e sociali veneziani, una sorta di player del welfare underground, di quello meno famoso, dove girano meno denari e quindi meno tonni affamati d’appalti, ma soprattutto molti più gradi di libertà per tentare le vie dell’innovazione.

    Ci inventiamo anche un modello organizzativo ultra snello, che punta sulle reti e le partnership come via per crescere senza dimensionarsi. Grazie a quel modello dal 2003 Sumo coordina o guida un volume annuo di progetti di almeno 2 milioni di euro, pur mantenendo il suo fatturato sotto i 400 mila euro. Rimanere piccoli, innovativi, spregiudicati e soprattutto liberi; questo è stato l’obiettivo fin dall’inizio, solo in parte mantenuto.

    Quasi tutti quelli che sono passati per il team di Sumo occupano oggi posizioni professionali di spessore. Non sappiamo se è nato prima l’uovo o la gallina, cioè se a Sumo si avvicinavano quelli già in direzione di un futuro roseo o se il passaggio per Sumo ha contribuito a determinarlo; forse entrambe le cose. C’è chi oggi fa l’artista, chi il grafico, chi il marketing, chi il dipendente pubblico, chi il manager, chi la ricerca, ecc ecc e quando ci ritroviamo e rivanghiamo i vecchi tempi tutti sosteniamo che quell’esperienza è stata una grande palestra per imparare cose che ci sono tornate utili anche a distanza di anni. Propensione al rischio, gestione della complessità, creatività, lavoro di team, intraprendenza; caratteristiche oggi più che mai richieste in un mondo del lavoro totale.

    Ogni anno dai 4 ai 12 progetti o servizi realizzati. Non possiamo qui passarli in rassegna tutti – A.A.A. Arte cerca spazio, il Boldù, Informalmente, Baobab, Diritti e Rovesci, Nord Est: Cantieri d’arte pubblica, Lab Altobello sono solo alcuni, i primi che ci vengono in mente o quelli a cui forse siamo più affezionati – ma anche solo un breve elenco ci serve per annotare che Sumo si è dedicata all’innovazione sociale dieci anni prima che in Europa si cominciasse a parlarne. Non lo sapevamo allora e facciamo fatica a valorizzarlo ora.

    La fine di una storia così pare scontata: grandi successi e riconoscimenti ufficiali, disruptive innovation come se piovesse, un posizionamento locale inscalfibile, una best practice nazionale. Qualcosa di ciò si è in parte avverato, solo una parte però. C’è un errore di fondo, crediamo di aver capito col senno di poi, che ha reso impossibile il pieno dispiegarsi di quegli effetti: Sumo è arrivata al momento sbagliato e nel posto sbagliato. Non è una giustificazione, è una colpa, quella di non aver saputo comprendere cosa si poteva fare e cosa no. Siamo arrivati troppo in anticipo per sfruttare l’onda lunga della social innovation made in uk/eu; troppo a Venezia per sperare di non schiantarci contro logiche stantie.

    Un errore quindi, grave per chi fa impresa, quello di non aver saputo calcolare le coordinate spazio-temporali di atterraggio di un’organizzazione che in quegli anni sembrava un UFO che fondeva i tratti dell’auto-organizzazione da centro sociale con quelli dello scoutismo. Ma le innovazioni non si programmano, le innovazioni occorrono con tutta una loro urgenza, incomprensibile nel presente, rileggibile in un passato futuro. Un errore inevitabile, che ha lasciato cicatrici ma allo stesso tempo ha lasciato in eredità un grande regalo: la capacità di fiutare il vento, forse memoria genetica di una nascita veneziana anfibia.

    Quattro anni fa, siamo nel 2012 e sempre a Venezia, annusiamo una strana umidità provocata dall’allineamento di dinamiche europee, nazionali e locali che inizia letteralmente a sciogliere il welfare municipale. Come birilli, i servizi chiudono uno dopo l’altro; in 18 mesi la cooperativa si vede chiudere 300mila euro annui di affidamenti e tocca il fondo. Ormai non c’è più niente da fiutare, il puzzo diventa palpabile.

    Intravvediamo due sole vie di uscita: comunizzare la crisi con soci e collaborati e cercare assieme una forma di resistenza oppure scattare in avanti e prendere un piccolo vantaggio dal gruppo dei tonni.

    Tentiamo la prima senza successo, se non quello di aver traghettato l’uscita dolce di molti collaborati; imbocchiamo decisi la seconda. Scattiamo in avanti con una tipica strategia da innovazione di prodotto: imboccando la strada della ricerca e sviluppo. Con decisione investiamo quelle poche lire rimaste per cofinanziare due assegni di ricerca sui nostri temi: innovazione sociale, lavoro, soggetti svantaggiati e welfare municipale, che assieme compongono la formula quasi-magica del workfare o welfare to work. Il fatturato riparte. Inizia così una nuova avventura, una vera e propria nuova stagione per Sumo che è ancora agli inizi, quella dei servizi per l’impiego. Non siamo gli unici ma in Italia siamo ancora un gruppo sparuto di cooperative sociali che si stanno scoprendo brave agenzie per il lavoro.

    E questo ci permette di raccontare anche un altro lato, forse meno famoso, dell’innovazione sociale. Premettiamo che non si tratta di lamenti o di recriminazioni; abbiamo imboccato con consapevolezza questa strada, ma dobbiamo altrettanto consapevolmente riconoscerne i rischi, i pericoli e gli orrori, in una sorta di microfisica. In Veneto, ma non solo, lavorare nel campo dei servizi per l’impiego vuol dire lavorare soprattutto nell’ambito della programmazione europea decentrata, i famosi POR FSE per intenderci.

    Breve riassunto: lavorare in questo settore significa grande attenzione all’output (viene pagato solo se ottieni un risultato), tantissima burocrazia (è obbligatorio l’uso di almeno tre gestionali diversi per gestire ogni progetto), grande stress finanziario (i soldi per le attività svolte arrivano anche uno o due anni dopo aver terminato l’intero progetto), unità di costo standard (ad ogni azione corrisponde un valore a prescindere da come, perché e a chi indirizzi l’attività). Questo sul lato organizzativo ha fortissime ripercussioni. Una su tutte: lo slittamento dei rapporti di lavoro da continuativi a occasionali, anche per lo staff e i soci fondatori, se non altro per una questione di etica che la cooperazione sociale dovrebbe non abbandonare mai e che richiede a tutti di comunizzare successi e difficoltà. Insomma, per continuare a fare il suo mestiere Sumo deve diventare quasi una piattaforma di gig economy.

    Per chi come noi per 15 anni ha vissuto professionalmente – ma tenete conto che chi scrive è anche una coppia con due figli, un cane e un gatto… alla faccia della biopolitica! – con il sogno dell’innovazione sociale svegliarsi nell’incubo della gig economy dà quella sensazione di cadere che ogni tanto ci prende nel sonno e innesca una domanda d’obbligo: cosa stiamo facendo? Qui le nostre due risposte divergono, anche se sappiamo che non siamo soli nel porci alcuni interrogativi.

    Per una stiamo producendo reddito, che di per sé è già cosa molto buona, ma è necessario riconoscere in modo smaliziato che declinato in questo modo il welfare produce più opportunità di lavoro per chi ci opera che per i suoi destinatari ufficiali, che invece vengono letteralmente pressati da obiettivi di performance che faticano a sostenere; per l’altro è necessario ingaggiare una battaglia quotidiana con quelle tecnologie, quei dispositivi e quei discorsi che smontano dalle fondamenta ogni principio basilare del welfare.

    Insomma, riusciamo a litigare anche quando siamo d’accordo e qui emerge un’altra questione di primaria importanza: è oggi più che mai il momento di ridare valore e riprendere una pratica del conflitto.

    Le vie del conflitto, come quelle dell’innovazione, sono molte ma devono avere in comune un tratto imprescindibile, cioè non essere di maniera. Piuttosto, conflitto vuol dire accettare le contraddizioni, le divergenze, le differenze, le incoerenze, attraversarle tutte e cercare di uscirne cambiati, noi e loro. Vuol soprattutto dire avere la capacità di porsi le domande più che di avere già in tasca le risposte: quale forma dare alle imprese che fanno innovazione sociale? come mutualizzare queste nuove condizioni del lavoro cooperativo? come dare nuove geometrie al rapporto tra organizzazione e destinatari della propria azione sociale e culturale?

    C’è un pezzo della storia che non abbiamo ancora raccontato ma che forse racchiude la risposta alle ultime domande che abbiamo posto ed è una risposta che potrebbe interessare anche ad altri. Il secondo importante progetto di Sumo, avviato nel 2001 subito dopo A.A.A. arte cerca spazio, è il Boldù, centro giovanile culturale autogestito di Venezia. Nell’arco di poco tempo diventa uno dei principali spazi di produzione culturale underground a Venezia; unico per alcuni anni e poi seguito da altri, è uno spazio nel quale l’idea che l’innovazione culturale sia un fatto sociale si fa luogo.

    Il Boldù nasce e cresce all’interno di un Centro di Salute Mentale attivo. Le due utenze si incrociano fino a mescolarsi. Nell’arco di 2 anni la stanza di 35mq da cui tutto è partito diventa 1000mq distribuiti su due piani ad uso promiscuo; concerti, performance, installazioni, proiezioni… diventano un fluire quotidiano in una sorta di padiglione vivente. Secondo noi questo avviene quando, grazie alla mediazione di quattro persone (Francesca De Denaro, Giovanni Inghilleri, Paolo Cacciari e Alberta Basaglia), incontriamo e conosciamo l’esperienza basagliana, che ha lasciato segni profondi nell’equipe del CSM veneziano. Quell’esperienza ci ha dimostrato – o almeno noi l’abbiamo usata così perché crediamo che sia prima di tutto una pratica-

    patrimonio da cui attingere – come sia possibile aprire le gabbie delle istituzioni totali (e i POR FSE assomigliano sempre di più a un’istituzione totale). Aprire le gabbie non vuol dire abbattere l’istituzione; aprire le gabbie vuol dire riconoscerne le contraddizioni e quindi cambiarne del tutto la conformazione, inizialmente anche hackerando le tecnologie date, come Basaglia ad esempio ha slegato i pazienti senza nessuna legge che lo vietasse; aprire le gabbie vuol dire spostare il centro della nostra pratica dal dispositivo tecnico allo spazio sociale, come Basaglia ha proposto di individuare nella società e non nel manicomio il luogo in cui curare la malattia; aprire le gabbie vuol dire mettere continuamente in discussione i propri ruoli, così come in un loro eccezionale dialogo del ‘72 Basaglia e Sartre fanno in Crimini di pace quando discutono dei tecnici del sapere pratico. Che oggi siamo o meno in una gabbia, abbiamo il dovere di tentare di aprila…


    Immagine di copertina: ph. di Sarah Kilian da Unsplash

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