Servono nuove politiche urbane per le periferie, per farle dobbiamo partire dalla scuola
Periferie e fallimento formativo hanno conosciuto una lunga, complessa vita in comune che continua nei nostri giorni. È nelle periferie povere che, da sempre, si concentrano assenze, bocciature, abbandoni, mancati diplomi e la diminuzione delle attese che, nella vita di ognuno, questo produce.
La nostra situazione per quanto riguarda il tasso di fallimento formativo è migliorata molto lentamente negli ultimi lustri: dal 20,4% del 2006 al 13,8 del 2016. Il miglioramento è avvenuto in modo disomogeneo, con una differenziazione di genere (donne intorno al 12%, uomini oltre il 16%) e forti differenze tra le diverse regioni rispetto al raggiungimento dell’obiettivo, stabilito dall’Ue, di ridurre al 10% entro l’anno 2020 la percentuale dell’abbandono scolastico. Si va dal +14% rispetto al traguardo Ue (24% di abbandoni) di Sicilia e Sardegna al +9% della Campania con punte più alte per la grande area metropolitana di Napoli, al –2% del Veneto (8% di abbandoni), ecc.
Quel che viene misurato è la percentuale di ragazzi e ragazze che, ben oltre l’età canonica, a 24 anni non hanno in tasca una licenza di scuola superiore né una qualifica professionale spendibile sul mercato legale del lavoro, gli Early leavers from education and training (Elet).
I fenomeni osservati da terzo settore, volontariato, pubbliche amministrazioni, scuole, ministeri dell’Istruzione, Welfare e Giustizia mostrano che anche nelle periferie vi è stato un miglioramento riguardo al numero di persone che terminano un corso di studi e, tuttavia, la situazione resta estremamente critica – come una febbre che non demorde – per il concentrarsi di tre elementi i quali, insieme, disegnano una crisi strutturale:
- alti tassi di abbandono scolastico vero e proprio uniti a molte ripetenze;
- alto numero di ragazzi che, anche quando promossi, hanno bassi livelli nelle conoscenze relative a matematica di base, lettura e comprensione dei testi, scrittura funzionale, mondo delle scienze, comprensione dei riferimenti spazio-temporali e storico-geografici. Si tratta di acquisizioni irrinunciabili ai fini dello sviluppo sociale e personale nonché per entrare con una qualche dignità nel mercato del lavoro e per esercitare la cittadinanza e che vengono registrate con serietà metodologica e costanza nel tempo sia sulla generalità della popolazione – Isti- tuto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (Invalsi) – sia su base campionaria molto rigorosamente sorvegliata con il Programme for international student assessment (Pisa) e il Programme for the international assessment of adult competencies (Piaac) dell’Ocse;
- forte concentrazione della povertà educativa minorile secondo l’indice della povertà educativa (Ipe), intesa sia come condizione di povertà multidimensionale all’inizio della vita sia come prolungamento dell’esclusione per mancanza o debolezza di politiche e dispositivi compensativi presenti davvero e costanti nel tempo.
Nel prezioso Atlante di Save the children curato da Giulio Cederna, si esaminano la crisi strutturale dell’educare nelle periferie e l’incapacità del nostro sistema di compensare, in età precoce, la partenza disuguale e si mostrano le diverse dimensioni delle periferie educative intese come paesaggi complessi dove bambini e ragazzi poveri si trovano lontano da tutto.
Facciamo pochi figli e ancora troppi di questi vivono un fallimento formativo che ne condiziona pesantemente la vita
Se la concentrazione di questi dati negativi nelle periferie povere riguarda centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, la situazione, come si è visto, nel Mezzogiorno è di particolare gravità, coerentemente con la crescita in atto del divario tra nord e sud.
In tale prospettiva, nell’ultima rilevazione sul peso percentuale generale degli abbandoni scolastici riferita al 2017 e al 2018, il dato, per la prima volta in oltre 20 anni, riprende a salire, ritornando rispettivamente al 14 e al 14,5%. Si tratta di un indizio davvero grave perché ribadisce che questa situazione di minorità educativa delle nostre periferie non è affatto transitoria.
Il carattere strutturale del fallimento formativo acquista ancor più peso perché ci troviamo in situazione di squilibrio demografico: facciamo pochi figli e ancora troppi di questi vivono un fallimento formativo che ne condiziona pesantemente la vita. E poiché a cadere fuori dal sistema d’istruzione e formazione sono quasi sempre i figli di genitori poveri con bassi livelli d’istruzione e che vivono in situazioni multi-fattoriali di esclusione, la nostra scuola mostra di avere indebolito o perso la sua decisiva funzione democratica di ascensore sociale.
Il tema è terribile perché tocca il futuro di intere generazioni di bambini e ragazzi che nascono in un posto anziché in un altro, perché smentisce il nostro patto costituzionale, perché mina lo stesso sviluppo, oltre alla coesione territoriale e sociale del paese.
È un allarme vero, presente, peraltro, anche in misurati documenti ufficiali che, tuttavia, viene ignorato.
Il Rapporto sul contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa redatto dalla Cabina di regia del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca (Miur) – che ha visto un largo confronto del ministero con scuole, esperti, comuni, regioni e privato sociale sulle esperienze già in campo oltre che sull’analisi dei dati – è solo l’ultimo prodotto di una lunga serie che le istituzioni hanno curato nel tempo, che racconta la gravità della situazione e indica le misure per affrontarla.
Per sintetizzare, in poche righe, questo ripetuto grido di dolore che viene di fatto raccolto dalle istituzioni ma resta inascoltato, basta leggere le prime frasi del Rapporto del Miur del gennaio 2018:
È tempo per una grande politica nazionale tesa a battere il fallimento formativo in Italia. Affermare – attraverso costanti e ben articolate politiche pubbliche – l’obiettivo di battere il fallimento formativo significa occuparsi bene del nostro oggi e guardare lontano. Non si tratta solo di trovare soluzione a un problema del nostro sistema scolastico che dura da decenni ma di puntare alla crescita dell’Italia in un’ottica di equità e nel rispetto dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica in accordo con tutti gli indirizzi di politica economica.
Dunque, l’Italia – e in particolare le nostre periferie povere – restano ben lontane dal perseguire gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030 riferiti a istruzione e formazione, indicati dall’Open working group proposal for sustainable development goals il quale afferma che tutti i minori hanno diritto ad apprendere, sperimentare e sviluppare capacità, talenti e aspirazioni, potendo, dunque, avere accesso all’offerta educativa di qualità e, se poveri, devono poter essere destinatari di forti politiche pubbliche compensative e inclusive, a scuola e nella vita.
Tutta la storia e il paesaggio sociale delle periferie italiane è legata in modo indissolubile alla grande questione del rapporto tra scuola, apprendimento effettivo e prospettive concrete
Eppure l’Italia non ha conosciuto sempre una storia di reiterata esclusione di bambini e ragazzi poveri, non è sempre stata così.
Ed è tuttora riconosciuta – in ambito Ocse – come nazione con grandi competenze nell’inclusione precoce, per esempio in tema di disabilità e bisogni educativi speciali, mentre i dati ci raccontano di buone capacità del nostro sistema d’istruzione nell’includere il crescente flusso migratorio nella scuola ordinaria.
Tutta la storia e il paesaggio sociale delle periferie italiane è legata in modo indissolubile alla grande questione del rapporto tra scuola, apprendimento effettivo e prospettive concrete per la vita dei bambini e ragazzi poveri che nelle periferie vivono. E lo sviluppo dell’alfabetizzazione di massa in Italia conosce due paesaggi sociali che ne narrano la vicenda: da un lato i piccoli centri e le campagne e, dall’altro, le periferie urbane delle città. Solo sessant’anni fa la scuola è entrata nella vita ordinaria di questi paesaggi come fenomeno di massa che comprende finalmente non solo i bambini maschi ma anche le femmine e, poi, non solo l’infanzia ma anche l’età dell’adolescenza.
Per le campagne italiane, l’avvento della scuola per tutti ha coinciso con l’uscita definitiva del Paese dalla miseria contadina, con la grande emigrazione interna da sud a nord e dalla terra alla città e con l’accelerazione dello spopolamento delle aree interne. Per le città, la scuola di massa ha accompagnato la grande urbanizzazione e costituito la base della creazione civile nelle periferie urbane.
Le periferie hanno progressivamente conosciuto una caduta delle opportunità attraverso lo studio. Ma come è potuto succedere?
La svolta cruciale avviene nel dicembre del 1962 con l’approvazione della legge sulla scuola media unica. Questo evento – forse il più grande merito della politica nei confronti della società italiana, voluta dal primo centro-sinistra – innescò un’esplosione democratica in senso alfabetizzante perché consentì una potente crescita nel sapere e nelle competenze diffuse, riparò l’esclusione dalla cultura universale di tanta parte della popolazione minorile periferica sia delle campagne che della parte povera di ogni città, diede finalmente seguito al dettato della carta costituzionale, consolidò la crescita economica amplificando il nostro boom e prolungandone molti effetti tra i quali un fortissimo aumento dell’occupazione stabile nelle industrie, nella distribuzione, nell’amministrazione pubblica, la crescita del reddito pro-capite e una seria riduzione delle disuguaglianze.
Le periferie italiane, da quell’anno, si popolarono di luoghi e occasioni di sviluppo sociale e personale legato alla conoscenza.
Furono, infatti, costruite migliaia e migliaia di aule scolastiche, i patronati scolastici sostennero un enorme numero di alunni privi di mezzi, le scuole vennero istituite in tutti i comuni spesso a partire proprio dalle nuove periferie. Così, nel nuovo paesaggio urbano mostrato da Pasolini in Accattone e Mamma Roma arrivarono aule e palestre. Le mattine di periferia si popolarono di ragazzine di 12, 13 e 14 anni strappate alla cura dei fratelli più piccoli e ai lavori domestici e di ragazzi strappati al lavoro in officina, nei cantieri, nelle botteghe, nelle campagne circostanti.
Una fiumana di adolescenti entrò a scuola. Fu reclutato personale docente che movimentò i luoghi nuovi per portare conoscenze universali lì dove vi era stato il prevalere delle culture materiali consuetudinarie. E non fu un moto rivolto solo a bambini e ragazzi.
Centinaia di migliaia di operai, lavoratori della terra, piccoli artigiani, donne entrarono in 15.000 corsi per analfabeti e semi-analfabeti adulti tenuti spesso proprio nelle periferie e che, con i contratti di lavoro del 1969, si trasformarono nei corsi delle 150 ore. I pomeriggi e le serate a scuola in periferia divennero rito comune di alfabetizzazione, al quale parteciparono centinaia di migliaia di persone che fino a 3-4 anni prima mai lo avrebbero neanche sognato. E parrocchie, sezioni di partito, bar di periferia si gremirono, all’ora data, per il rito civile costruito dalla Tv di Stato che insegnava a leggere, scrivere e far di conto con Non è mai troppo tardi.
Questo moto fu il secondo grande evento repubblicano dopo l’avvento della Repubblica stessa. Portò, in 20 anni, i ragazzi con la licenza media da meno di 2 milioni a 6 milioni con un tasso di quattordicenni in possesso di licenza media che passò dal 46,8% all’82,3%.
Eravamo diventati un paese europeo in pochi anni. La storia dei quartieri poveri delle nostre città ha raccontato tutto questo e le narrazioni personali, profondamente identitarie per la generazione che oggi va in pensione, sono costruite dentro questa scena.
Questo movimento verso il sapere era basato sull’assioma secondo il quale basta offrire la scuola perché ognuno possa emanciparsi attraverso lo studio. Questa certezza ha costituito un vero e proprio mito fondante italiano su cosa può e deve essere la scuola che si è certamente avverato in una fase di effettivo e straordinario progresso nella diffusione della cultura coincidente con il passaggio dall’Italia povera all’Italia potenza industriale. Ma, con il passare degli anni, proprio questo mito sulle «magnifiche sorti e progressive» a portata di mano da parte di tutti grazie all’offerta di scuola in quanto tale, ha mostrato le corde. E le periferie hanno progressivamente conosciuto una caduta delle opportunità attraverso lo studio.
Ma come è potuto succedere?
In primo luogo, si tratta di un fenomeno storicamente avvenuto ovunque nel mondo. La diffusione di un’offerta di scuola uguale per tutti, molto standardizzata, raggiunge un’enorme quantità di persone e riesce a tenerle dentro i processi di apprendimento finché regge un patto antropologico e sociale (sorretto dalle culture politiche della liberal-democrazia, della socialdemocrazia e del cristianesimo sociale) per il quale le attese di comunità e famiglie e il loro investimento nello studio dei figli coincidono con l’offerta di un apprendimento fortemente trasmissivo e reso possibile da un presidio adulto di regole e comportamenti che plasma la crescita di tutti. Poi la sua forza tende a diminuire e arrestarsi se non si attivano politiche di empowerment locale più mirate alle aree di crisi e alle persone, a ciascuno e non solo a tutti.
In secondo luogo, si è trattato di una mancata capacità dell’Italia di creare politiche stabili mirate alle periferie in termini educativi. Vi è stata una specifica mancanza italiana di politiche pubbliche e di cultura politica perché, per complesse ragioni, è prevalsa un’idea riduttiva di giustizia, che ha attraversato proprio quelle culture politiche che avevano favorito lo sviluppo della prima ondata di diritto allo studio.
Le riflessioni di Amartya Sen sulla natura del perseguimento della giustizia servono moltissimo a esaminare il caso italiano di lento impoverimento sostanziale dell’offerta di sapere nelle nostre periferie.
L’impiego dell’approccio delle capacitazioni, infatti, chiede di guardare, ogni volta, con attenzione alla giustizia effettiva delle società piuttosto che alle caratteristiche di una società formalmente tesa al giusto. Come egli stesso scrive:
L’impostazione che propongo non assegna alla questione […] delle capacitazioni una funzione secondaria, da evocare e valutare in un mo- mento successivo. Capire la natura e l’origine delle privazioni e delle sperequazioni sul piano delle capacitazioni è fondamentale per rimuovere, con intese in larga misura parziali, quelle che attraverso la riflessione pubblica possono essere identificate come ingiustizie manifeste [Sen 2011, 217].
Ecco, questo fondamentale passaggio per lo sviluppo dell’offerta pubblica di sapere non è avvenuto nelle scuole dell’Italia povera, soprattutto di periferia. E dopo gli anni Settanta e nel corso dell’ultimo ventennio del secolo scorso, e poi avanti fino ad oggi, il mutare dello scenario reale dell’ingiustizia è stato affrontato con la mera prosecuzione dell’offerta di scuola standard, uguale per tutti.
Sono stati impiegati molti fondi per supplire alla situazione in via eccezionale o emergenziale ma mai strutturale
Così, dopo la fase del primo grande incontro abilitante tra sapere e periferie, la sola fornitura del servizio scolastico (supply of school) si è progressivamente palesata come insufficiente. Sempre più spesso non si è riusciti a portare dentro la scuola chi rimaneva fuori. Le bocciature di massa nelle medie e, poi, nel biennio delle superiori, anche dopo che è stato reso obbligatorio; le promozioni per liberarsi dai ragazzi in difficoltà; la mancanza di sostegno a impianti organizzativi capaci di dare attenzione a singoli e piccoli gruppi; il mancato supporto alle scuole e alle esperienze di seconda occasione; l’incostanza nel supportare le alleanze tra educatori e le comunità educanti, tra scuola e fuori scuola nei quartieri difficili; la nuova crescente tendenza a creare scuole ghetto e classi ghetto o, addirittura, a favorire la cosiddetta scuola parentale affidando ragazzi difficili a genitori difficili pur di non dovere cambiare i modi di far scuola, sono altrettante prove di un deficit culturale e politico impressionante, che ha smentito e smentisce l’articolo 3 della nostra Costituzione in troppe nostre periferie.
L’idea di offerta di scuola capacitante perché sa dare di più ai quartieri e non solo alle scuole in aree escluse e, poi, sa dare alle parti deboli, a quelle forti e talentuose e a quelle inesplorate di ciascun ragazzo, in generale e ancor più nelle periferie d’Italia, non è potuta prevalere.
La cultura fondata su un’idea di giustizia che potenzia le persone e i luoghi a partire da quelli più difficili – people centred and place centred – non ha vinto.
Sono stati impiegati molti fondi per supplire alla situazione in via eccezionale o emergenziale ma mai strutturale. Prove di azione positiva nelle nostre periferie, dal basso, a sostegno della capacitazione in campo educativo ci sono state, hanno prodotto pratiche potenti e ricche – da parte di scuole e terzo settore, organizzati in comunità educanti – ma non sono state sostenute nel tempo con investimenti stabili, rigorose valutazioni, supporto a chi opera meglio nel tempo.
Il come e il perché di questa dolorosa vicenda nazionale potrebbero essere, in altra sede, un capitolo impietoso della dura storia delle disuguaglianze d’Italia.
Così, i tantissimi ragazzi vittime del mancato adeguamento delle politiche pubbliche sono storie del cadere fuori (droping out); e costituiscono, proprio nelle periferie, un’area fuori portata (out of reach) non raggiungibile dall’offerta così organizzata e perpetuata.
È davvero tempo di una grande politica nazionale capace di dare forza a chi opera a una scuola accogliente e rigorosa, a una formazione professionale seria
Dunque, nelle periferie, rimane inalterato (e oggi aggravato) il tema cruciale dell’andare verso (reaching out) che riguarda una platea vastissima di bambini e ragazzi e che chiama in causa lo stato delle comunità, le loro fragilità, l’abbandono e anche le minacce che sono costrette a vivere a causa delle mafie, cose che chiedono un intervento potente.
Ne sono, infatti, potenzialmente coinvolti 1.300.000 bambini e ragazzi in povertà assoluta e altri 2.300.000 in povertà relativa [Istat 2018] che, nella loro vita concreta e quotidiana tra casa, quartiere e scuola conoscono alti tassi di povertà della famiglia, prevalenza di redditi bassi e elevato tasso di disoccupazione, lavoro precario e al nero nella famiglia e nel contesto allargato, bassissimo tasso di donne che lavorano, spesa sociale molto minore della media, alto tasso di genitori con basso livello di istruzione, livelli bassi di consumo, fruizione bassa di servizi culturali e sportivo-ricreativi, bassissime percentuali di bambini tra 0 e 2 anni con accesso ai servizi pubblici educativi per l’infanzia, poche classi della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado a tempo pieno, alti tassi di alunni che non usufruiscono del servizio mensa, che frequentano scuole con infrastrutture inadeguate per l’apprendimento misurato attraverso l’indicatore Ocse Pisa e con aule senza connessione internet veloce.
Il tutto contribuisce a generare, entro tali contesti, tassi elevati di dispersione scolastica e di ragazzi di 15 anni che non raggiungono i livelli minimi di competenze, in matematica di base, in lettura e comprensione di testi secondo i test Ocse Pisa, un dato confermato da Invalsi e che è universalmente riconosciuto come decisivo ai fini dello sviluppo personale e dell’esercizio della cittadinanza.
Eppure si sono costruite, con grande fatica, reti e luoghi che salvano, perché capaci di intervenire, compensare, ricostruire competenza e speranza. Il problema vero è che questi attori in positivo non sono stati sostenuti nel tempo.
È davvero tempo di una grande politica nazionale capace di dare forza a chi opera, alle tante comunità educanti dedite a una scuola accogliente e rigorosa, a una formazione professionale seria, a progetti di sviluppo locale che producono lavoro, impresa, cooperazione diffusa, mercato regolare, cura delle persone in crescita.